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sabato 6 giugno 2015

Una palese violazione di legge e codice deontologico

di Ruben Razzante                                        06-06-2015
Giulia InnocenziAl di là di come la si pensi sui corsi che aiutano le persone a correggere le tendenze omosessuali, la vicenda presenta anche degli aspetti squisitamente deontologici, che non possono lasciare indifferente il mondo dei giornalisti.
L’altra sera, su La 7, durante la puntata di “Anno Uno”, è andato in onda un servizio realizzato da Giuseppe Borello, inviato della trasmissione ad Angolo Terme, provincia di Brescia, nel centro di spiritualità Sant’Obizio, che organizza ritiri spirituali, venduti in tv come corsi mirati alla “guarigione” dei gay.
Borello, ovviamente sotto mentite spoglie, cioè fingendo di chiamarsi Francesco e di essere un giovane studente gay, filma quanto accade durante quei corsi e confeziona un servizio fatto su misura per screditarli e ridicolizzarli. Pur occultando i volti dei partecipanti, riporta racconti, situazioni, confessioni che i gay fanno ai tre organizzatori, in primis Luca di Tolve, ex attivista dell’Arcigay, ex ballerino alla discoteca Plastic di Milano, inventore delle crociere per omosessuali, ora impegnato a testimoniare la possibilità del recupero dell'eterosessualità. Svela, cioè, contenuti di conversazioni private e riservate, che toccano aspetti assai sensibili dell’individualità di ciascuno e che dovrebbero rigorosamente essere protetti dalla privacy.
Si tratta, dunque, di un esempio di pessimo giornalismo, che viola le carte deontologiche e che meriterebbe l’immediata apertura, da parte del consiglio di disciplina competente, di un procedimento disciplinare nei confronti dell’autore del servizio e di chi, nel ruolo di responsabile della trasmissione, ne ha autorizzato la messa in onda.
Il giornalista, infatti, è chiamato ad osservare obblighi di trasparenza e a dichiarare le finalità della raccolta dati. Su
questo punto l’art.2 del Codice deontologico del 1998, che disciplina il rapporto tra giornalismo e privacy, è molto chiaro: l’utilizzo dei mezzi fraudolenti (telecamere nascoste, microfoni-spia, ecc.) o delle tecniche invasive per estorcere informazioni riservate si giustifica solo quando il giornalista rischia la sua incolumità o quando, se il giornalista dichiarasse la sua identità, gli verrebbe precluso l’esercizio della funzione informativa. Tale principio si completa con la previsione contenuta nell’art.3 di quel Codice, che riguarda la tutela del domicilio, all’interno del quale l’obbligo di tutelare la riservatezza è massimo. Al domicilio devono essere equiparati i luoghi di detenzione e di riabilitazione, ma anche, con un’interpretazione estensiva, i luoghi aperti al pubblico come il centro di spiritualità in questione, che non possono essere assimilati ai luoghi pubblici (una piazza), essendo accessibili solo con il permesso di chi ne è titolare o di chi li gestisce.
Borello potrebbe obiettare che, se si fosse presentato con nome, cognome e qualifica, non gli avrebbero consentito di entrare e di documentare ciò che accadeva durante quei corsi. Ma quanto succede in quei corsi è riservato a chi, versando una quota, decide di parteciparvi, e non può dunque essere considerato di interesse pubblico né diventare oggetto di un diritto di cronaca “anarchico” e privo di limiti. Se passasse il principio che il giornalista, con le buone o con le cattive, è autorizzato a raccogliere tutte le informazioni che gli interessano, senza preoccuparsi delle controindicazioni e dei valori da assicurare nell’esercizio del diritto di cronaca, arriveremmo alla giungla informativa.
Quel servizio ha inferto un vulnus ingiustificato alla privacy della struttura, dei promotori e dei partecipanti ai corsi, pur nel rispetto dell’anonimato di questi ultimi, resi non riconoscibili nel servizio. Inoltre, presenta profili diffamatori e lesivi della dignità di chi ha organizzato quei momenti di confronto su un tema assai sensibile come quello dell’omosessualità. Potrebbero esservi altresì elementi sufficienti per integrare il reato di diffamazione, considerati i risvolti denigratori che, durante il servizio, sembrano emergere dai commenti fatti da quel giornalista e anche in studio dagli ospiti della puntata di “Anno Uno”.
Se un giornalista documenta reati, disservizi, situazioni che vanno a impattare direttamente sulla qualità della vita dei cittadini (maltrattamenti in ospedali o strutture di cura o istituti scolastici, mancato rispetto di norme igieniche in mense pubbliche, ecc.), è autorizzato a usare i mezzi fraudolenti perché il fine superiore di fornire un’informazione utile a tutti i cittadini prevale sulle esigenze di tutela della privacy. Violando quest’ultima, il giornalista illumina l’opinione pubblica su una situazione illegale o ai confini con l’illegalità, scongiurando il rischio che essa produca effetti nocivi nei confronti di qualcuno.
Qui, invece, si è andati oltre e si è preteso di spiare e riferire al grande pubblico scene riservate e delicate, peraltro accadute in luogo privato. Se la categoria dei giornalisti tollera tali esempi di sciacallaggio non può poi pretendere di risultare credibile né può lamentarsi del pessimo giudizio che hanno di certa informazione tanti milioni di cittadini. Per fortuna tantissimi colleghi di Borello non si sarebbero mai comportati come lui

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