Sul numero 3958 de La Civiltà Cattolica (30 maggio 2015, pagg. 329-338), padre Gian Luigi Brena sj ha scritto un articolo - Misericordia e Verità - in cui tenta di conciliare i due concetti facendo prevalere la prima. Alle sue tesi risponde il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, con questo articolo.
Lo studio che sto per esaminare nasce, mi sembra, da una preoccupazione, da cui deriva la questione fondamentale che l’articolo vuole risolvere. La preoccupazione è di non opporre misericordia e verità, ma di comporle secondo una priorità da attribuirsi alla prima. L’impatto pratico – nel senso alto del termine - dell’irrisolta opposizione sarebbe devastante sulla persona umana.
È da questa preoccupazione che nasce la domanda fondamentale a cui l’articolo cerca di rispondere: misericordia e verità sono conciliabili? Ed in caso affermativo, quale è la forma della conciliazione?
Devo notare subito che l’autore, se non vado errando, opera uno “scivolamento semantico” che domina tutta la costruzione della risposta. La verità viene fatta coincidere con la legge; lo “scivolamento semantico” è di evidenza solare fin dall’inizio, ove il significato dato alla «verità» è quello di «misurare gli uomini secondo una regola».
Si legga attentamente il seguente testo: «…Riteniamo che la misericordia consenta di tener salda la fedeltà alla verità. Se noi misuriamo gli uomini secondo una regola, è inevitabile dividerli tra giusti e peccatori; dopo di che resta solo da invitare questi ultimi a convertirsi adeguandosi alla norma» [pag. 330].
Lo “scivolamento semantico” conduce l’autore a formulare la questione di fondo nel modo seguente: come conciliare
l’irripetibile condizione del soggetto agente con le generalizzazioni proprie della legge morale? La misericordia opera la conciliazione in quanto essa afferma il primato del soggetto nei confronti della legge. Primato che si esprime nella figura della “eccezione” alla legge generale; e il giudice che stabilisce la legittimazione della eccezione è la coscienza.
Gli studi storici condotti dal p. Pinckaers o.p. hanno dimostrato che questo modo di risolvere il problema del rapporto universale – singolare è nato con la teologia post-tridentina.
Vorrei ora mostrare che la risposta dell’autore ad un problema reale e centrale nella riflessione etica, è falsa. A questo mi spinge anche il fatto che essa sta diventando il paradigma fondamentale con cui da parte di molti si affronta il tema divorziati risposati – Eucarestia, sembrando che esso concilia l’affermazione dell’assoluta indissolubilità del matrimonio [rato e consumato] con la possibile ammissione del divorziato risposato all’Eucarestia.
1. In primo luogo cercherò di rigorizzare il concetto di verità quando esso è usato nel contesto di una teologia della misericordia. «Non parlare come conviene non costituisce solo una mancanza verso ciò che si deve dire, ma anche mettere in pericolo l’essenza stessa dell’uomo» [Platone].
La famosa disputa dei farisei con Gesù [cfr. Mt 19, 3-9 e par.] circa l’indissolubilità del matrimonio ci introduce nella coscienza di Gesù; nel modo con cui Egli incontra le persone che gli propongono problemi pratici. I farisei chiedono a Gesù la misura in cui si può eccepire alla legge dell’indissolubilità; quali sono le circostanze che legittimano la deroga: solo l’adulterio o anche altro. Gesù non risponde nemmeno. Egli rifiuta l’impostazione, la logica della domanda, ma si rifà al «Principio». Si rifà a come Dio ha fatto e fa le cose.
«Per Gesù il Principio è l’intenzione del Creatore… questo principio è presente a tutta la storia e per sempre rimane impulso e misura della storia, giudizio su di essa… Per Gesù, un permesso o una deroga mosaica al Principio… appartiene ad un passato, che può rivelarsi temporaneo e concluso…Per Gesù Mosè è passato, il Principio no» [F. Rossi de Gasperis, Sentieri di vita, 1; Paoline, Milano 2005, pag. 32].
Il Principio è la luce di Dio che è presente nell’uomo, lo accompagna sempre, anche nel fondo della disperazione. La vicenda del figliol prodigo ne è la rappresentazione esistenziale [cfr. Lc 15, 11-32].
La conversione del figlio implica un giudizio di condanna di quanto ha compiuto. Trattasi di giudizio circa la propria condizione vista alla luce della propria condizione originaria: alla luce del Principio «Quanti servi in casa di mio padre… ed io qui muoio di fame». La memoria della condizione originaria [«nella casa di mio padre» = il Principio] genera un giudizio circa la condizione attuale [«ed io qui muoio di fame»], dal quale nasce la decisione del ritorno.
Il Principio non è cronologicamente situato, come Mosè. Esso semplicemente è.
La categoria del comandamento-legge è la più adeguata per esprimere questo modo di pensare proprio di Gesù? Il Principio cioè è riducibile al comandamento? Penso proprio di no. E per varie ragioni.
Gesù richiama il Principio nel contesto di una discussione casuistica, di applicazione di una legge a casi particolari.
Come già dissi, il Principio è l’originario disegno del Creatore sulla coppia umana. È certamente normativo, e fino al punto da non ammettere deroghe, neppure da parte di Mosè, giustificandole colla durezza del cuore. Ma la normatività del Principio non è ultimamente dovuta ad un atto di volontà divina: è la normatività propria della costituzione stessa della coppia umana. La categoria più adeguata è la categoria di verità pratica, cioè di verità circa il bene della persona.
In breve. Il Principio biblico è la verità, il senso della persona umana come Dio l’ha pensata e voluta: l’ha creata. Misericordia e verità così intesa stanno dunque sempre l’una nell’altra. La Misericordia è l’opera di Dio che in Cristo edifica l’uomo vero; la verità è il progetto, l’intenzione che guida l’operare misericordioso di Dio.
Parlare di priorità della misericordia nel senso che essa legittima eccezioni ad una legge, ha senso solo all’interno di una costruzione legalistica: nella riflessione etica un capitolo chiuso!
2. Sento già l’accusa: questa impostazione nega di fatto la storicità della persona umana; non riconosce al soggetto nelle circostanze uniche in cui vive, quell’importanza che esso ha.
L’articolo che stiamo esaminando, muovendosi – come dicevo – nel contesto preciso di una riflessione e di una costruzione etica legalista, pensa la dimensione storica del soggetto nei seguenti termini: la legge morale in quanto norma generale, non può tenere conto di tutte le singolari circostanze in cui vive il soggetto; e pertanto eccezioni alla legge morale sono possibili o perfino doverose.
La costruzione etica di fondo dell’articolo, a mio modo di vedere, affronta un problema vero, che nessuna antropologia, etica, e prassi pastorale può ignorare. Ma la modalità colla quale il problema è affrontato, porta l’autore a due conseguenze: misericordia e verità/legge possono contrapporsi; è la coscienza del singolo a dirimere il conflitto.
Il “nodo” della questione è nell’ammettere in linea di principio la possibilità di un conflitto tra misericordia e verità. Questo punto di partenza, che nasce dall’oscurarsi del concetto di verità, conduce ad un vicolo cieco, ad un aut-aut teoricamente non sostenibile: o il bene della persona o l’osservanza della legge. E la misericordia è l’attitudine di chi esime il soggetto, in ragione della sua situazione, dalla norma generale.
Come si esce da questo vicolo cieco? Attraverso una giusta comprensione della verità pratica, cioè della verità sul bene.
Esistono verità puramente speculative, nelle quali la ragione semplicemente riposa. Esistono però verità etico-religiose circa il bene della persona, le quali hanno certamente un contenuto formale, ma questo contenuto è solo il loro punto di partenza. Esse chiedono, esigono di essere realizzate nel loro contenuto dall’atto della persona. O meglio: esse sono tali da “provocare” la libertà della persona a realizzarsi in esse.
La verità pratica è come lo spartito musicale. Esso certamente può essere letto e studiato: esiste un alfabeto musicale. Tuttavia solo nell’esecuzione quei segni manifestano la loro invisibile realtà. Si possono fare discussioni sulla verità pratica, ma che cosa essa significa viene detto quando la libertà la esegue.
Esiste pertanto una “coesione essenziale” fra persone e verità pratica [=legge naturale]; ed una “coesione esistenziale”, che è opera della libertà. È questo un punto fondamentale.
La veritas agenda è insita nella persona, e non ha affatto il carattere di una lex exterius data: questa è la coesione essenziale. Il non “sentire” questa coesione è uno dei segni più drammatici che la persona umana si trova in una condizione di perdizione [cfr. Rom 7, 14-23]. La veritas agenda dimora dentro l’autodeterminazione della persona, ed è la coscienza ad introdurvela. La libertà la realizza o la nega: questa è la coesione esistenziale o la verità della soggettività.
La persona nel suo agire non è un caso contemplato o non da una legge. La persona è la veritas agenda; è sempre immersa, radicata nel Principio.
Nel primo schema ha senso chiedersi se posso fare un’eccezione alla legge, date le mie particolari circostanze. Nel secondo non ha senso: sarebbe come chiedersi se nel mio agire posso fare eccezione al mio essere persona umana.
«La verità della soggettività è… una nozione esistenziale di relazione tra esistenza semplice e decisione libera, tra realizzazione affettiva e pura possibilità… essa importa la soggezione e l’adeguazione completa e assoluta che l’uomo deve alla stessa verità, se vuole essere nella stessa verità. Se vuole possederla, egli deve prima da essa lasciarsi possedere» [C. Fabro].
È di questa verità che il beato J.H.Newman parlava, quando scrisse: «Lo spirito è al di sotto della verità, non al di sopra; esso è obbligato non a dissertare sulla verità, ma a venerarla».
Il cuore del dramma dell’uomo non è il suo confronto con una legge. È il dramma di una persona che può decidersi a negare colla sua scelta la verità di se stessa, conosciuta dalla sua ragione e/o dalla fede. Che può decidersi di sradicarsi dal Principio, che brilla sempre nella mente, intimior intimo meo et superior speriori meo.
Il Deus dives in misericordia si è fatto proto-agonista di questo dramma, perché ha decido di ricondurre in Cristo l’uomo alla pienezza della [verità della] sua umanità. È un dramma che narra una storia inedita e propria di ogni persona.
Ed infatti la Chiesa è mediatrice della divina misericordia in due modi o luoghi: l’ambone, dove aiuta l’uomo a prendere coscienza della coesione essenziale - il confessionale, dove aiuta il singolo a realizzare la connessione esistenziale. Guai a confondere i due!
La gradualità del percorso non consiste nella capacità di applicare una legge universale ad una condizione che è sempre unica: questo è il compito del giudice, non del ministro della misericordia.
Consiste nel condurre sempre più la persona a vivere nella verità del bene: itinerarium libertatis in Veritatem. Le indicazioni dell’itinerario non sono leggi fisse, ma un accompagnamento sapiente e prudente. La gradualità non è un cammino verso un traguardo: non è la tensione verso un ideale [=pelagianesimo]. È invece l’approvazione consapevole e libera data dal singolo alla verità del bene, diventando sempre più liberamente vero e veramente libero. Ed è un cammino unico, proprio di ogni persona, non generalizzabile. Opus maximum misericordiae Dei!
Breve appendice.
Alle ormai famose due “eccezioni” proposte dal p. Garrigues o.p. sono già state fatte critiche così consistenti da mostrarne l’insostenibilità. Mi limito ad una sola osservazione, di carattere logico. Memore di ciò che B. Russel amava ripetere: molti hanno cercato di spezzare la logica, ma alla fine è la logica a spezzare molti.
Se elaboro un’ipotesi di condotta [nel caso, accesso all’Eucarestia del divorziato risposato] in base a circostanze rigorosamente precisate, e dico: “dandosi queste circostanze, la condotta ipotizzata è una eccezione legittima alla legge universale”, in realtà non faccio un’eccezione, ma propongo una legge contraria.
Infatti ogni volta che si daranno quelle circostanze, quella condotta sarà legittima: ho elaborato uno schema di condotta indefinitivamente ricorribile e generalizzabile. È precisamente ciò che fa la legge, ogni legge.
Delle due l’una, dunque. O si dice che il matrimonio [rato e consumato] è sempre e comunque indissolubile, ed allora è logicamente impossibile elaborare ipotesi alla Garrigues o.p.; oppure si ammette la legittimità di ipotesi di questo genere, ed allora non si può più affermare l’assoluta indissolubilità del matrimonio. Non datur tertium, nisi tertium confusionis: proclamare a parole una verità, affermandone un’altra mediante la legittimazione di una prassi i cui presupposti impliciti contraddicono la verità proclamata. È la “performative contradiction”.
Gesù non si è lasciato ingabbiare dai farisei dentro a questa [pseudo-] logica: Egli guardava al Principio.
* Cardinale, Arcivescovo di Bologna
Lo studio che sto per esaminare nasce, mi sembra, da una preoccupazione, da cui deriva la questione fondamentale che l’articolo vuole risolvere. La preoccupazione è di non opporre misericordia e verità, ma di comporle secondo una priorità da attribuirsi alla prima. L’impatto pratico – nel senso alto del termine - dell’irrisolta opposizione sarebbe devastante sulla persona umana.
È da questa preoccupazione che nasce la domanda fondamentale a cui l’articolo cerca di rispondere: misericordia e verità sono conciliabili? Ed in caso affermativo, quale è la forma della conciliazione?
Devo notare subito che l’autore, se non vado errando, opera uno “scivolamento semantico” che domina tutta la costruzione della risposta. La verità viene fatta coincidere con la legge; lo “scivolamento semantico” è di evidenza solare fin dall’inizio, ove il significato dato alla «verità» è quello di «misurare gli uomini secondo una regola».
Si legga attentamente il seguente testo: «…Riteniamo che la misericordia consenta di tener salda la fedeltà alla verità. Se noi misuriamo gli uomini secondo una regola, è inevitabile dividerli tra giusti e peccatori; dopo di che resta solo da invitare questi ultimi a convertirsi adeguandosi alla norma» [pag. 330].
Lo “scivolamento semantico” conduce l’autore a formulare la questione di fondo nel modo seguente: come conciliare
l’irripetibile condizione del soggetto agente con le generalizzazioni proprie della legge morale? La misericordia opera la conciliazione in quanto essa afferma il primato del soggetto nei confronti della legge. Primato che si esprime nella figura della “eccezione” alla legge generale; e il giudice che stabilisce la legittimazione della eccezione è la coscienza.
Gli studi storici condotti dal p. Pinckaers o.p. hanno dimostrato che questo modo di risolvere il problema del rapporto universale – singolare è nato con la teologia post-tridentina.
Vorrei ora mostrare che la risposta dell’autore ad un problema reale e centrale nella riflessione etica, è falsa. A questo mi spinge anche il fatto che essa sta diventando il paradigma fondamentale con cui da parte di molti si affronta il tema divorziati risposati – Eucarestia, sembrando che esso concilia l’affermazione dell’assoluta indissolubilità del matrimonio [rato e consumato] con la possibile ammissione del divorziato risposato all’Eucarestia.
1. In primo luogo cercherò di rigorizzare il concetto di verità quando esso è usato nel contesto di una teologia della misericordia. «Non parlare come conviene non costituisce solo una mancanza verso ciò che si deve dire, ma anche mettere in pericolo l’essenza stessa dell’uomo» [Platone].
La famosa disputa dei farisei con Gesù [cfr. Mt 19, 3-9 e par.] circa l’indissolubilità del matrimonio ci introduce nella coscienza di Gesù; nel modo con cui Egli incontra le persone che gli propongono problemi pratici. I farisei chiedono a Gesù la misura in cui si può eccepire alla legge dell’indissolubilità; quali sono le circostanze che legittimano la deroga: solo l’adulterio o anche altro. Gesù non risponde nemmeno. Egli rifiuta l’impostazione, la logica della domanda, ma si rifà al «Principio». Si rifà a come Dio ha fatto e fa le cose.
«Per Gesù il Principio è l’intenzione del Creatore… questo principio è presente a tutta la storia e per sempre rimane impulso e misura della storia, giudizio su di essa… Per Gesù, un permesso o una deroga mosaica al Principio… appartiene ad un passato, che può rivelarsi temporaneo e concluso…Per Gesù Mosè è passato, il Principio no» [F. Rossi de Gasperis, Sentieri di vita, 1; Paoline, Milano 2005, pag. 32].
Il Principio è la luce di Dio che è presente nell’uomo, lo accompagna sempre, anche nel fondo della disperazione. La vicenda del figliol prodigo ne è la rappresentazione esistenziale [cfr. Lc 15, 11-32].
La conversione del figlio implica un giudizio di condanna di quanto ha compiuto. Trattasi di giudizio circa la propria condizione vista alla luce della propria condizione originaria: alla luce del Principio «Quanti servi in casa di mio padre… ed io qui muoio di fame». La memoria della condizione originaria [«nella casa di mio padre» = il Principio] genera un giudizio circa la condizione attuale [«ed io qui muoio di fame»], dal quale nasce la decisione del ritorno.
Il Principio non è cronologicamente situato, come Mosè. Esso semplicemente è.
La categoria del comandamento-legge è la più adeguata per esprimere questo modo di pensare proprio di Gesù? Il Principio cioè è riducibile al comandamento? Penso proprio di no. E per varie ragioni.
Gesù richiama il Principio nel contesto di una discussione casuistica, di applicazione di una legge a casi particolari.
Come già dissi, il Principio è l’originario disegno del Creatore sulla coppia umana. È certamente normativo, e fino al punto da non ammettere deroghe, neppure da parte di Mosè, giustificandole colla durezza del cuore. Ma la normatività del Principio non è ultimamente dovuta ad un atto di volontà divina: è la normatività propria della costituzione stessa della coppia umana. La categoria più adeguata è la categoria di verità pratica, cioè di verità circa il bene della persona.
In breve. Il Principio biblico è la verità, il senso della persona umana come Dio l’ha pensata e voluta: l’ha creata. Misericordia e verità così intesa stanno dunque sempre l’una nell’altra. La Misericordia è l’opera di Dio che in Cristo edifica l’uomo vero; la verità è il progetto, l’intenzione che guida l’operare misericordioso di Dio.
Parlare di priorità della misericordia nel senso che essa legittima eccezioni ad una legge, ha senso solo all’interno di una costruzione legalistica: nella riflessione etica un capitolo chiuso!
2. Sento già l’accusa: questa impostazione nega di fatto la storicità della persona umana; non riconosce al soggetto nelle circostanze uniche in cui vive, quell’importanza che esso ha.
L’articolo che stiamo esaminando, muovendosi – come dicevo – nel contesto preciso di una riflessione e di una costruzione etica legalista, pensa la dimensione storica del soggetto nei seguenti termini: la legge morale in quanto norma generale, non può tenere conto di tutte le singolari circostanze in cui vive il soggetto; e pertanto eccezioni alla legge morale sono possibili o perfino doverose.
La costruzione etica di fondo dell’articolo, a mio modo di vedere, affronta un problema vero, che nessuna antropologia, etica, e prassi pastorale può ignorare. Ma la modalità colla quale il problema è affrontato, porta l’autore a due conseguenze: misericordia e verità/legge possono contrapporsi; è la coscienza del singolo a dirimere il conflitto.
Il “nodo” della questione è nell’ammettere in linea di principio la possibilità di un conflitto tra misericordia e verità. Questo punto di partenza, che nasce dall’oscurarsi del concetto di verità, conduce ad un vicolo cieco, ad un aut-aut teoricamente non sostenibile: o il bene della persona o l’osservanza della legge. E la misericordia è l’attitudine di chi esime il soggetto, in ragione della sua situazione, dalla norma generale.
Come si esce da questo vicolo cieco? Attraverso una giusta comprensione della verità pratica, cioè della verità sul bene.
Esistono verità puramente speculative, nelle quali la ragione semplicemente riposa. Esistono però verità etico-religiose circa il bene della persona, le quali hanno certamente un contenuto formale, ma questo contenuto è solo il loro punto di partenza. Esse chiedono, esigono di essere realizzate nel loro contenuto dall’atto della persona. O meglio: esse sono tali da “provocare” la libertà della persona a realizzarsi in esse.
La verità pratica è come lo spartito musicale. Esso certamente può essere letto e studiato: esiste un alfabeto musicale. Tuttavia solo nell’esecuzione quei segni manifestano la loro invisibile realtà. Si possono fare discussioni sulla verità pratica, ma che cosa essa significa viene detto quando la libertà la esegue.
Esiste pertanto una “coesione essenziale” fra persone e verità pratica [=legge naturale]; ed una “coesione esistenziale”, che è opera della libertà. È questo un punto fondamentale.
La veritas agenda è insita nella persona, e non ha affatto il carattere di una lex exterius data: questa è la coesione essenziale. Il non “sentire” questa coesione è uno dei segni più drammatici che la persona umana si trova in una condizione di perdizione [cfr. Rom 7, 14-23]. La veritas agenda dimora dentro l’autodeterminazione della persona, ed è la coscienza ad introdurvela. La libertà la realizza o la nega: questa è la coesione esistenziale o la verità della soggettività.
La persona nel suo agire non è un caso contemplato o non da una legge. La persona è la veritas agenda; è sempre immersa, radicata nel Principio.
Nel primo schema ha senso chiedersi se posso fare un’eccezione alla legge, date le mie particolari circostanze. Nel secondo non ha senso: sarebbe come chiedersi se nel mio agire posso fare eccezione al mio essere persona umana.
«La verità della soggettività è… una nozione esistenziale di relazione tra esistenza semplice e decisione libera, tra realizzazione affettiva e pura possibilità… essa importa la soggezione e l’adeguazione completa e assoluta che l’uomo deve alla stessa verità, se vuole essere nella stessa verità. Se vuole possederla, egli deve prima da essa lasciarsi possedere» [C. Fabro].
È di questa verità che il beato J.H.Newman parlava, quando scrisse: «Lo spirito è al di sotto della verità, non al di sopra; esso è obbligato non a dissertare sulla verità, ma a venerarla».
Il cuore del dramma dell’uomo non è il suo confronto con una legge. È il dramma di una persona che può decidersi a negare colla sua scelta la verità di se stessa, conosciuta dalla sua ragione e/o dalla fede. Che può decidersi di sradicarsi dal Principio, che brilla sempre nella mente, intimior intimo meo et superior speriori meo.
Il Deus dives in misericordia si è fatto proto-agonista di questo dramma, perché ha decido di ricondurre in Cristo l’uomo alla pienezza della [verità della] sua umanità. È un dramma che narra una storia inedita e propria di ogni persona.
Ed infatti la Chiesa è mediatrice della divina misericordia in due modi o luoghi: l’ambone, dove aiuta l’uomo a prendere coscienza della coesione essenziale - il confessionale, dove aiuta il singolo a realizzare la connessione esistenziale. Guai a confondere i due!
La gradualità del percorso non consiste nella capacità di applicare una legge universale ad una condizione che è sempre unica: questo è il compito del giudice, non del ministro della misericordia.
Consiste nel condurre sempre più la persona a vivere nella verità del bene: itinerarium libertatis in Veritatem. Le indicazioni dell’itinerario non sono leggi fisse, ma un accompagnamento sapiente e prudente. La gradualità non è un cammino verso un traguardo: non è la tensione verso un ideale [=pelagianesimo]. È invece l’approvazione consapevole e libera data dal singolo alla verità del bene, diventando sempre più liberamente vero e veramente libero. Ed è un cammino unico, proprio di ogni persona, non generalizzabile. Opus maximum misericordiae Dei!
Breve appendice.
Alle ormai famose due “eccezioni” proposte dal p. Garrigues o.p. sono già state fatte critiche così consistenti da mostrarne l’insostenibilità. Mi limito ad una sola osservazione, di carattere logico. Memore di ciò che B. Russel amava ripetere: molti hanno cercato di spezzare la logica, ma alla fine è la logica a spezzare molti.
Se elaboro un’ipotesi di condotta [nel caso, accesso all’Eucarestia del divorziato risposato] in base a circostanze rigorosamente precisate, e dico: “dandosi queste circostanze, la condotta ipotizzata è una eccezione legittima alla legge universale”, in realtà non faccio un’eccezione, ma propongo una legge contraria.
Infatti ogni volta che si daranno quelle circostanze, quella condotta sarà legittima: ho elaborato uno schema di condotta indefinitivamente ricorribile e generalizzabile. È precisamente ciò che fa la legge, ogni legge.
Delle due l’una, dunque. O si dice che il matrimonio [rato e consumato] è sempre e comunque indissolubile, ed allora è logicamente impossibile elaborare ipotesi alla Garrigues o.p.; oppure si ammette la legittimità di ipotesi di questo genere, ed allora non si può più affermare l’assoluta indissolubilità del matrimonio. Non datur tertium, nisi tertium confusionis: proclamare a parole una verità, affermandone un’altra mediante la legittimazione di una prassi i cui presupposti impliciti contraddicono la verità proclamata. È la “performative contradiction”.
Gesù non si è lasciato ingabbiare dai farisei dentro a questa [pseudo-] logica: Egli guardava al Principio.
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