di antonelloiapicca
Oh se tu fossi un mio fratello,
allattato al seno di mia madre!
Trovandoti fuori ti potrei baciare
e nessuno potrebbe disprezzarmi.
allattato al seno di mia madre!
Trovandoti fuori ti potrei baciare
e nessuno potrebbe disprezzarmi.
Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;
m’insegneresti l’arte dell’amore.
Ti farei bere vino aromatico…
La sua sinistra è sotto il mio capoTi farei bere vino aromatico…
e la sua destra mi abbraccia.
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amorecome sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
né i fiumi travolgerlo.
Dal Cantico dei Cantici
“Forte come la morte è l’amore, una fiamma del Signore”: il mistero d’amore che irrora la Solennità del Corpus Domini è racchiuso in queste che sono tra le ultime parole del Cantico dei Cantici, “Shir ha-Shirim”, ovvero “il canto più che bello che ci sia”. Francesco Rossi de Gasperis affermava che i suoi otto capitoli “costituiscono lo svolgimento più bello del rapimento della prima creazione, sperimentato dal “primo” ‘ish (uomo) di fronte alla “prima” ‘ishshah” (donna), ambedue perfettamente armonizzati nella loro nudità originaria”. C’è dunque nel Cantico una risonanza forte e persistente del mistero che celebriamo domani: come non vedere nello Sposo il Signore nudo e crocifisso che, in quell’offerta totalmente gratuita del suo corpo, riporta la Sposa alla sua purezza originale!
E come non udire, attraverso i versetti del Cantico, sgorgare dalle labbra dello Sposo e della Sposa “le prime parole dell’uomo nella Genesi alla vista della donna creata da Dio”! Esse “esprimono lo stupore e l’ammirazione, anzi il senso di fascino… Tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo
di questo fascino – reciproco stupore e ammirazione – sono infatti la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità. Le parole d’amore, pronunciate da entrambi, si concentrano dunque sul “corpo”, non solo perché esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma anche e soprattutto perché su di esso si sofferma direttamente e immediatamente quell’attrazione verso l’altra persona, verso l’altro “io” – femminile o maschile – che nell’interiore impulso del cuore genera l’amore” (Giovanni Paolo II; Catechesi sull’amore umano, Udienza Generale del 23 maggio 1985). Non è ardito lasciarci illuminare da queste parole appassionate per contemplare e lasciarci attirare nello “stupore”, nell’ “ammirazione” e nel senso di “fascino” per il “Corpus Domini” che è il “Corpo del nostro Sposo”. Lasciamoci trafiggere dall’“ammirazione affascinata” per la Sposa del nuovo Adamo che, destandosi dal sonno della morte, è “venuto a cercarla nel suo giardino” e, afferratala per la mano, ha esclamato “Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà… Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno… Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura… Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono… pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli” (Da un’Antica Omelia per il Sabato Santo).
Eccoci allora pronti per celebrare la Solennità. Non dobbiamo far altro che fissare stupiti e umili come dei mendicanti “il forziere” del Tabernacolo ormai “aperto” perché il Corpo e il Sangue di Cristo scendano nel nostro corpo e nel nostro sangue per “far risorgere” in noi la sua stessa “effige”, e farci con Lui “un’unica e indivisa natura”. Brividi, non sentimentalismo, brividi che ti prendono la carne nella quale, proprio perché ferita dai peccati che abbiamo commesso, abbiamo sperimentato tante volte la morte. Forse anche in questi giorni, oggi chissà.
Ma appunto per i peccatori che si ricoscono tali è questa Solennità. Papa Urbano IV, infatti, istituendo l’11 agosto 1264 la Solennità del Corpus Domini scriveva nella Bolla “Transitur de hoc mundo” che la introduceva: “mirabile memoriale nel quale si ha ogni dolcezza e veramente conseguiamo un apporto di vita e di salvezza, e nel quale riconsideriamo la grata memoria della nostra redenzione e siamo distolti dal male e rafforzati nelle virtù… Le altre cose di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione di Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza”.
Celebrando dunque il Corpus Domini “riconsideriamo la grata memoria” dell’amore di Cristo che ci ha strappati al peccato per unirci a Lui come un “fratello allattato al seno” della stessa “madre”, Maria, immagine della Chiesa nel cui grembo siamo rigenerati con il latte della misericordia. Così, come stabiliva il Concilio di Trento, “con una celebrazione eccezionale e solenne” possiamo “manifestare la nostra gratitudine e riconoscenza al comune Signore e Redentore per un beneficio così ineffabile e veramente divino, con cui viene ricordata la sua vittoria e il suo trionfo sulla morte” (Concilio di Trento, Decreto sul Sacramento dell’Eucarestia, n.5).
Nella memoria e nella gratitudine per i segni del suo amore nella nostra vita, infatti, possiamo accogliere e sperimentare di nuovo il “beneficio così ineffabile” di “poter baciare” il nostro Sposo, “senza che nessuno possa disprezzarci”, senza cioè la “vergogna” che proviamo a causa della concupiscenza. La “sua vittoria”, infatti, ci riapre le porte del Paradiso, del quale nella Chiesa possiamo gustare le primizie. Sì, purificati dal suo sangue possiamo realmente “condurre e introdurre” il nostro Sposo nella “casa di nostra madre”, perché proprio nella comunità cristiana Lui ci “insegna l’arte dell’amore”.
Che meraviglia! Nell’intimità del “Cenacolo”, la “sala già preparata e addobbata per celebrare la sua Pasqua”, il “Didaskalo”, (come recita l’originale greco del Vangelo della Messa del Corpus Domini di quest’anno), ovvero il “Maestro” insegna alla sua Sposa discepola “l’arte dell’amore” proprio offrendo il suo Corpo e il suo Sangue in riscatto per noi. Perché amare è donare se stessi, sine glossa.
Nella sua Provvidenza, quest’anno Dio ci ha condotti a questa Domenica speciale attraverso il Libro di Tobia proclamato in questa settimana. Al culmine di esso abbiamo ascoltato la vicenda delle nozze di Tobia e Sara. In essa è riflessa anche la nostra storia d’amore con il Signore, dalla quale scaturisce ogni relazione d’amore tra due sposi cristiani. L’Arcangelo Raffaele, immagine della Chiesa che ci inizia alla fede “insegnandoci” il rimedio contro le insidie del demonio, ci ha consegnato un “pesce” che è immagine di Cristo “pescato” dalle acque della morte.
Sarà il suo “corpo” arso nelle fiamme del suo amore che “metterà in fuga il demonio Asmodeo, il subdolo demonio della concupiscenza che ci spinge ad appropriarci dell’altro uccidendo la relazione nell’egoismo. L’“odore” di Cristo, infatti, “spandendosi” nella nostra vita, “dovrà essere annusato dal demonio, che fuggirà e non comparirà più intorno a lei”, a Sara, immagine del coniuge ovviamente, ma anche di ogni “tu” nel quale siamo chiamati a trascendere.
Il sacrificio di Cristo che contempliamo dinanzi ai nostri occhi nel Mistero, ci salva e protegge da ogni inganno del demonio, per vivere il rapporto matrimoniale e ogni relazione nella gratuità del dono di noi stessi, senza possedere e usare l’altro, né sessualmente per soddisfare le nostre voglie, né spiritualmente, per saziare il nostro vuoto affettivo. Perché “l’amore è forte come la morte” del nostro uomo vecchio e della menzogna di satana, e colma ogni nostro desiderio; è “una fiamma del Signore” che brucia ogni peccato e incendia la nostra vita perché sia consegnata all’altro; e, come accadde al “roveto ardente”, non la consuma, perché è una con quella di Cristo, che neanche “le grandi acque” delle difficoltà e delle sofferenze “possono spegnere”.
Accostiamoci allora al “Corpus Domini” come al talamo che ci attende per unirci al nostro Sposo con la stessa attitudine umile e obbediente di Tobia e Sara. Le sue mani crocifisse sono la sinistra sotto il nostro capo per sostenere nella fede la nostra ragione e la destra ci stringe le braccia perchè anche il nostro corpo sia disteso sulla Croce con Lui. Inginocchiamoci adoranti, e preghiamo perché Egli diventi come un “sigillo sul nostro cuore” e ci ispiri a scegliere sempre la volontà del Padre, che è amare e donarci alle persone che ci sono messe accanto, e bere il suo calice anche quando vorremmo che passasse via da noi.
E come non udire, attraverso i versetti del Cantico, sgorgare dalle labbra dello Sposo e della Sposa “le prime parole dell’uomo nella Genesi alla vista della donna creata da Dio”! Esse “esprimono lo stupore e l’ammirazione, anzi il senso di fascino… Tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo
di questo fascino – reciproco stupore e ammirazione – sono infatti la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità. Le parole d’amore, pronunciate da entrambi, si concentrano dunque sul “corpo”, non solo perché esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma anche e soprattutto perché su di esso si sofferma direttamente e immediatamente quell’attrazione verso l’altra persona, verso l’altro “io” – femminile o maschile – che nell’interiore impulso del cuore genera l’amore” (Giovanni Paolo II; Catechesi sull’amore umano, Udienza Generale del 23 maggio 1985). Non è ardito lasciarci illuminare da queste parole appassionate per contemplare e lasciarci attirare nello “stupore”, nell’ “ammirazione” e nel senso di “fascino” per il “Corpus Domini” che è il “Corpo del nostro Sposo”. Lasciamoci trafiggere dall’“ammirazione affascinata” per la Sposa del nuovo Adamo che, destandosi dal sonno della morte, è “venuto a cercarla nel suo giardino” e, afferratala per la mano, ha esclamato “Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà… Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno… Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un’unica e indivisa natura… Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell’inferno. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono… pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l’eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli” (Da un’Antica Omelia per il Sabato Santo).
Eccoci allora pronti per celebrare la Solennità. Non dobbiamo far altro che fissare stupiti e umili come dei mendicanti “il forziere” del Tabernacolo ormai “aperto” perché il Corpo e il Sangue di Cristo scendano nel nostro corpo e nel nostro sangue per “far risorgere” in noi la sua stessa “effige”, e farci con Lui “un’unica e indivisa natura”. Brividi, non sentimentalismo, brividi che ti prendono la carne nella quale, proprio perché ferita dai peccati che abbiamo commesso, abbiamo sperimentato tante volte la morte. Forse anche in questi giorni, oggi chissà.
Ma appunto per i peccatori che si ricoscono tali è questa Solennità. Papa Urbano IV, infatti, istituendo l’11 agosto 1264 la Solennità del Corpus Domini scriveva nella Bolla “Transitur de hoc mundo” che la introduceva: “mirabile memoriale nel quale si ha ogni dolcezza e veramente conseguiamo un apporto di vita e di salvezza, e nel quale riconsideriamo la grata memoria della nostra redenzione e siamo distolti dal male e rafforzati nelle virtù… Le altre cose di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione di Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza”.
Celebrando dunque il Corpus Domini “riconsideriamo la grata memoria” dell’amore di Cristo che ci ha strappati al peccato per unirci a Lui come un “fratello allattato al seno” della stessa “madre”, Maria, immagine della Chiesa nel cui grembo siamo rigenerati con il latte della misericordia. Così, come stabiliva il Concilio di Trento, “con una celebrazione eccezionale e solenne” possiamo “manifestare la nostra gratitudine e riconoscenza al comune Signore e Redentore per un beneficio così ineffabile e veramente divino, con cui viene ricordata la sua vittoria e il suo trionfo sulla morte” (Concilio di Trento, Decreto sul Sacramento dell’Eucarestia, n.5).
Nella memoria e nella gratitudine per i segni del suo amore nella nostra vita, infatti, possiamo accogliere e sperimentare di nuovo il “beneficio così ineffabile” di “poter baciare” il nostro Sposo, “senza che nessuno possa disprezzarci”, senza cioè la “vergogna” che proviamo a causa della concupiscenza. La “sua vittoria”, infatti, ci riapre le porte del Paradiso, del quale nella Chiesa possiamo gustare le primizie. Sì, purificati dal suo sangue possiamo realmente “condurre e introdurre” il nostro Sposo nella “casa di nostra madre”, perché proprio nella comunità cristiana Lui ci “insegna l’arte dell’amore”.
Che meraviglia! Nell’intimità del “Cenacolo”, la “sala già preparata e addobbata per celebrare la sua Pasqua”, il “Didaskalo”, (come recita l’originale greco del Vangelo della Messa del Corpus Domini di quest’anno), ovvero il “Maestro” insegna alla sua Sposa discepola “l’arte dell’amore” proprio offrendo il suo Corpo e il suo Sangue in riscatto per noi. Perché amare è donare se stessi, sine glossa.
Nella sua Provvidenza, quest’anno Dio ci ha condotti a questa Domenica speciale attraverso il Libro di Tobia proclamato in questa settimana. Al culmine di esso abbiamo ascoltato la vicenda delle nozze di Tobia e Sara. In essa è riflessa anche la nostra storia d’amore con il Signore, dalla quale scaturisce ogni relazione d’amore tra due sposi cristiani. L’Arcangelo Raffaele, immagine della Chiesa che ci inizia alla fede “insegnandoci” il rimedio contro le insidie del demonio, ci ha consegnato un “pesce” che è immagine di Cristo “pescato” dalle acque della morte.
Sarà il suo “corpo” arso nelle fiamme del suo amore che “metterà in fuga il demonio Asmodeo, il subdolo demonio della concupiscenza che ci spinge ad appropriarci dell’altro uccidendo la relazione nell’egoismo. L’“odore” di Cristo, infatti, “spandendosi” nella nostra vita, “dovrà essere annusato dal demonio, che fuggirà e non comparirà più intorno a lei”, a Sara, immagine del coniuge ovviamente, ma anche di ogni “tu” nel quale siamo chiamati a trascendere.
Il sacrificio di Cristo che contempliamo dinanzi ai nostri occhi nel Mistero, ci salva e protegge da ogni inganno del demonio, per vivere il rapporto matrimoniale e ogni relazione nella gratuità del dono di noi stessi, senza possedere e usare l’altro, né sessualmente per soddisfare le nostre voglie, né spiritualmente, per saziare il nostro vuoto affettivo. Perché “l’amore è forte come la morte” del nostro uomo vecchio e della menzogna di satana, e colma ogni nostro desiderio; è “una fiamma del Signore” che brucia ogni peccato e incendia la nostra vita perché sia consegnata all’altro; e, come accadde al “roveto ardente”, non la consuma, perché è una con quella di Cristo, che neanche “le grandi acque” delle difficoltà e delle sofferenze “possono spegnere”.
Accostiamoci allora al “Corpus Domini” come al talamo che ci attende per unirci al nostro Sposo con la stessa attitudine umile e obbediente di Tobia e Sara. Le sue mani crocifisse sono la sinistra sotto il nostro capo per sostenere nella fede la nostra ragione e la destra ci stringe le braccia perchè anche il nostro corpo sia disteso sulla Croce con Lui. Inginocchiamoci adoranti, e preghiamo perché Egli diventi come un “sigillo sul nostro cuore” e ci ispiri a scegliere sempre la volontà del Padre, che è amare e donarci alle persone che ci sono messe accanto, e bere il suo calice anche quando vorremmo che passasse via da noi.
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