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mercoledì 27 aprile 2016

Sentenza storica in Malaysia: finalmente un musulmano può convertirsi al cristianesimo

Sentenza storica in Malaysia: finalmente un musulmano può convertirsi al cristianesimo
 
E’ una sentenza storica che stabilisce un precedente in un paese in cui le conversioni religiose, in particolare quelle dall’islam al cristianesimo, sono state di solito oggetto di roventi polemiche. Un tribunale malaysiano ha infatti statuito che un musulmano può convertirsi al cristianesimo, confermando il diritto di Rooney Rebit di abbandonare l’islam per la fede in Cristo. Il verdetto riafferma il diritto di libertà di religione, garantita ai sensi dell’articolo 11 della Costituzione della Malaysia. E le Chiese cristiane gongolano, vedendo riconosciuto un principio essenziale. 
In aula Rooney Rebit ha sostenuto che la sua fede in Gesù era un diritto umano fondamentale, e l’Alta Corte di Kuching, nello stato di Sarawak, ha concordato con questo approccio . Il giudice ha riconosciuto che l’uomo «è libero di esercitare il diritto di libertà di religione». 
Rebit è nato in una famiglia cristiana nel 1975, ma i suoi genitori si sono convertiti all’Islam quando aveva otto anni. Il suo nome musulmano era Azmi Mohamad Azam Shah. Nel 1999, Rebit ha riabbracciato il cristianesimo ed è stato battezzato. 
Nella sua decisione, il magistrato ha stabilito che, dal momento che Rebit era minorenne quando è diventato un musulmano, non poteva essere considerato un musulmano che ha liberamente e responsabilmente professato l’islam. Invece, quando è diventato un cristiano, a 24 anni di età, era abbastanza maturo per prendere una decisione libera e consapevole. 
La vicenda ha un valore simbolico che non lascia indifferenti. I casi di conversione in Malaysia sono stati per anni segnati da dibattiti e polemiche, ma anche da conflitti istituzionali tra i tribunali civili e quelli religiosi, riservati ai cittadini musulmani, dove si amministra la sharia. 
Nel Paese, infatti, vigono due sistemi giuridici paralleli: e chi presenta un ricorso a un tribunale civile per un materia come questa, spesso viene rinviato alla corte islamica che, sulla base delle prescrizioni di apostasia, non potrà mai concedere a un musulmano il permesso di convertirsi. Gli apostati, infatti, sono puniti con multe o perfino con il carcere.  
Dal corto circuito istituzionale-giuridico del sistema difficilmente si esce. Ha fatto scalpore il caso di Lina Joy, una donna convertitasi dall’islam al Cristianesimo nel 1998, a 26 anni. La sua domanda per ottenere il pieno riconoscimento giuridico della sua conversione è stato respinto nel 2007, quando l’Alta corte se ne lavò le mani, affermando di non avere giurisdizione su questioni religiose . 
Il caso di Rebit era diverso: l’uomo ha puntato sulla domanda di essere riconosciuto come «cristiano», invalidando l’atto di cambiamento del nome avvenuto in tenera età, e ha chiesto alla Corte di intimare al Dipartimento anagrafico nazionale di cambiare il suo nome e la religione sulla carta d’identità e sui suoi documenti personali. 
Il tribunale gli ha riconosciuto «il diritto costituzionalmente sancito di esercitare la libertà religiosa», senza un necessario «permesso» di un tribunale o di una autorità islamica.  
«La sua conversione alla fede musulmana - si legge nelle motivazioni della sentenza - non è avvenuta di sua spontanea volontà, ma in virtù della conversione dei suoi genitori, quando era minorenne. Pur non contestando la validità della sua conversione da minorenne, oggi, da maggiorenne, è libero di esercitare il diritto di libertà di religione e ha scelto il cristianesimo». 
Questo passaggio, notano gli osservatori, resterà importante per la condizione delle minoranze religiose. L’Associazione delle Chiese in Sarawak ha accolto con favore la sentenza, chiedendo al governo federale di «rendere effettiva la garanzia della libertà religiosa e di sostenere i diritti costituzionali e le libertà fondamentali riconosciuti dalla Costituzione a tutti i cittadini della Malaysia». 
Le minoranze etniche e religiose nel paese raggiungono, sommate, il 64% della popolazione: sono costituite da indiani, cinesi e gruppi etnici locali, e sono suddivise tra indù, buddisti, cristiani (9,2%) e gruppi religiosi autoctoni. 
In una simile situazione, il confronto tra le minoranze e il gruppo dominante, quello malay, costituito per la maggior parte da musulmani, è una necessità ed è prassi quotidiana.  
La Costituzione e le leggi dei singoli stati della Federazione riconoscono uno status privilegiato, indicando i malay come gruppo indigeno («bumiputra»), popolazione autoctona ben definita per cultura e religione. Gli indiani e i cinesi, invece, raggiunsero invece la penisola di Malacca in un secondo tempo, per via dei flussi migratori dall’India e dalla Cina, grazie alla politica coloniale britannica. Il cammino verso la piena uguaglianza e parità di diritti è appena cominciato.

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