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lunedì 15 gennaio 2018



αποφθεγμα Apoftegma
Quando era giunto per Dio il tempo di avere compassione
della sofferenza dell’umanità, sua diletta,
mandò il Figlio suo unigenito sulla terra
in quel palazzo sontuoso e tempio glorioso
che era il corpo della Vergine Maria.
Là, sposò la nostra natura e la unì alla sua persona,
grazie al sangue purissimo della nobile Vergine.
Fu lo Spirito Santo, il sacerdote che celebrò le nozze.
L’angelo Gabriele ne fu l’araldo,
e la gloriosa Vergine diede il suo consenso.
In questo modo Cristo, nostro sposo fedele,
si unì alla nostra natura,
venne a visitarci in una terra straniera
e ci insegnò i costumi celesti e una perfetta fedeltà.

Beato Jan Ruysbroeck


E' inutile illuderci che sulla terra si possa conquistare quello che è riservato al Cielo. Se pensiamo così, e così affrontiamo le giornate, il fidanzamento e il matrimonio, lo studio e il lavoro, le vacanze e le difficoltà, significa che il demonio ci sta ancora ingannando. Come hanno fatto le ideologie, inghiottendo intere generazioni nell'abbaglio che sia possibile fare della terra un paradiso. E oggi, dopo essersi sbriciolate nell'urto con la realtà, molti tentano di riciclarle facendo indossare loro i panni della salute e della qualità della vita, dei diritti, dell’emancipazione e dell'autodeterminazione, per attirarci nel miraggio di un mondo senza dolore, fatica e sudore. E senza la morte, che, in un paradosso tipico del demonio, si pensa di cancellare dando la morte alle persone e alle situazioni che la ricordano con più evidenza. Divorzio, aborto ed eutanasia sono l'inganno legalizzato che seduce la nostra incapacità di entrare nella sofferenza che la vicenda terrena suppone, trascinandoci però in sofferenze sempre più grandi. Fateci caso, è come una droga: più cerchi di scappare dal dolore combattendolo, più cresce; più cerchi di esorcizzarlo con evoluzioni culturali e conquiste civili, più allarga il suo cratere. Perché la terra non è non sarà mai il Paradiso. E' contaminata dal peccato e le sue conseguenze amare sono proprio il dolore, la fatica e il sudore che vorremmo cancellare o perlomeno evitare. Impossibile, e non perché Dio non esiste e se esiste è un mostro che castiga. E' l'esperienza personale che ce lo dice: se un bambino si avvicina al fuoco e disobbedisce allungandovi la mano, si scotta. E' un castigo? No, è una conseguenza. Ma proprio attraverso il dolore della scottatura il bambino capisce di essere diverso dall’adulto, di avere dei limiti e molto di imparare da sua madre. Così il dolore, il sudore e la fatica sono le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva e di ciascuno di noi, non i castighi che Dio ha inflitto all'uomo. Ma sono anche la prova che Egli esiste e non ha smesso di amarci, perché ci lascia liberi sino in fondo, e non a corrente alternata come accade tra di noi. Mentre proprio il dolore ci rivela che non siamo Dio e non possiamo eludere o piegare la realtà a nostro piacimento. Ma ciò significa soprattutto che la nostra salvezza passa di lì, dal dolore, dal sudore e dalla fatica. Dalla nostra storia di oggi, così com'è, precaria, ferita, incompiuta perché lontana dal Paradiso. La nostra vita è un lungo “digiuno” in attesa di consumare le nozze per le quali siamo stati creati. Stiamo, infatti, vivendo i “giorni nei quali lo sposo ci è tolto”: non sperimentiamo quasi quotidianamente la delusione per le speranze che sembrano andare in fumo? La precarietà economica, fisica e spirituale ghermisce l'esistenza non lasciandole nulla a cui appoggiarsi. Ecco, proprio quando la Croce ci accoglie, nudi e indifesi come Adamo ed Eva lontani dal Paradiso il “digiuno” si rivela come la condizione essenziale per vivere autenticamente nell'attesa del compimento. Non mangiare, non fumare, non guardare la televisione, spegnere internet e social networks, insomma digiunare da qualcosa, non è solo una pratica pseudo-ascetica che, spesso, fa della religione un'idolatria dell’ego; quanti di noi preti saziamo la nostra libido con i selfie spirituali che ci scattiamo dopo una celebrazione, un incontro, un’omelia, un buon consiglio offerto... 

Digiunare, invece, è un'esigenza, una questione di vita o di morte; è come il grido del popolo di Israele schiavo in Egitto. E' l'ascesi autentica che ci fa scendere nella verità per essere attirati nel suo compimento. Perché dopo il peccato originale Dio ha profetizzato che la salvezza sarebbe giunta proprio nelle sue amare conseguenze. Il dolore della donna nel partorire e la frustrazione nei rapporti con l’uomo verso il quale la muove l’istinto d’amore, insieme con la fatica e il sudore dell’uomo per lavorare e mangiare, sono la realtà da cui ripartire e convertirsi: sono, infatti, le attività che uniscono misteriosamente la creatura al suo Creatore. Ma, attraversate da dolore e fatica sono anche le ferite che le ricordano la propria origine generando in essa, come nel figlio prodigo, la nostalgia della casa paterna. Destata ancor più violentemente dalla morte, la conseguenza più grave del peccato. Tutti di fronte ad essa ci troviamo atterriti pensando che non sia possibile che finisca tutto così. Certo che no! Ma Dio non ha voluto cancellare i nostri passi erranti nella libertà; i peccati commessi sono un fatto, non c’è possibilità di reset. Non sarebbe giusto e farebbe di noi dei burattini senza testa e cuore. Ma Dio ha fatto di più: è entrato Lui stesso nelle conseguenze dei nostri peccati per trasformarle in possibilità di bene. E’ ciò che ha compiuto Gesù nel suo Mistero Pasquale: per amore di ogni peccatore è entrato nel dolore, nella fatica, nel sudore e nella morte per farne un cammino alla risurrezione e alla vita eterna. E ce lo offre oggi e ogni giorno come la possibilità di una vita nuova, come “vino nuovo in otri nuovi!”. Altro che “toppe di panno grezzo su vestiti vecchi”, come sono tanti nostri tentativi moralistici, superficiali e ipocriti di conversione, entusiasmi emotivi che evaporano alla prima difficoltà. Gesù è infinitamente più realista dei “discepoli di Giovanni e dei farisei” e di tutti noi. La sua Parola ci tira giù dai sogni improbabili di redenzione e riscatto dal grigiore e dai fallimenti, impedendoci di scappare nell’alienazione che ci propone il demonio. Per “tornare” alla Patria perduta occorre invece “convertirci”, cambiare cioè radicalmente il modo di pensare e di essere e imparare a “digiunare”, che, per Gesù e i suoi discepoli, significa amare. Per un cristiano il digiuno è "naturale" perché è il segno con il quale afferma di accettare di essere peccatore e di aver bisogno della storia così com’è, perché sa che è l’unico cammino alla salvezza e alla gioia. Solo entrando nel dolore che suppone ogni relazione autenticamente umana, e accettando la fatica di ogni giorno possiamo partecipare con Cristo al suo Mistero Pasquale. Per questo il digiunare autentico, al quale ci si allena con il digiuno esteriore che sottomette la carne, è quello che si compie nel cuore. E’ fare silenzio di fronte alle ingiustizie, non resistere al male che gli altri ci procurano, non intraprendere la via del divorzio, non reclamare quello che ci è stato tolto. Solo così anche il peccato e le sue conseguenze sono trasformate in "porte di speranza", vie alla salvezza. Ma per vivere così occorre partecipare al digiunare della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo: essa, infatti, esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma contemporaneamente digiuna nell'attesa della parusia. Vive del Memoriale del suo Signore, l'eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, con il quale afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! Con la comunità cristiana, il digiuno realizzato nella storia sarà il nostro Maràn athà, il grido che implora il ritorno dello Sposo per saziare la fame d’amore che nulla e nessuno è capace di saziare. E spera in ogni circostanza che ci porti con Lui, nel posto che ha preparato per noi nel Paradiso. 

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