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martedì 12 gennaio 2016

Contro il ddl Cirinnà gli italiani scenderanno ancora in piazza. Intervista a Massimo Gandolfini

Contro il ddl Cirinnà gl'italiani scenderanno ancora in piazza. Intervista a Massimo GandolfiniIl 26 gennaio inizia al Senato la discussione sulle Unioni civili a partire dal testo Cirinnà. Già il 20 giugno 2015 il comitato “Difendiamo i nostri figli” aveva portato in piazza a Roma un milione di persone e ora che ci si approssima all’ora X, il comitato ha indetto una nuova manifestazione. La data precisa ancora non c’è, ma dovrebbe cadere tra gli ultimi giorni del mese e i primi di febbraio. Intanto, facciamo il punto della situazione con Massimo Gandolfini, portavoce del comitato.
Gandolfini, perché tornate in piazza? Cosa chiedete?
Si torna in piazza per difendere la famiglia “società naturale fondata sul matrimonio” e il diritto dei bambini di avere una mamma ed un papà, proteggendoli da infami e becere alchimie ideologiche che vorrebbero un’omogenitorialità, che è innanzitutto contra la natura stessa. Si torna in piazza perché la politica, gli uomini che siedono in Parlamento, sono sempre più lontani e sordi rispetto al sentimento – cuore e mente – della gente comune che non crede in simile alchimie e non vuole infliggere ferite pericolose alla famiglia ed ai propri figli. L’autoreferenzialità della politica – truccata con frasi prive di ogni riscontro reale e vuote di ogni verità, quali: “le gente lo richiede”, “gli italiani attendono da anni” – rende indispensabile una nuova discesa in piazza: se chi ci dovrebbe rappresentare inventa
linguaggi e teoremi estranei e menzogneri, tradendo di fatto l’onesta morale e civica del popolo, la vera democrazia e la giustizia sociale impongono di parlare in prima persona, ad alta voce, in mezzo ad una piazza, dove tutti possano sentire.
Quello sulla stepchild adoption, che legittimerebbe di fatto l’utero in affitto, è il passaggio più controverso della legge. Come si risponde alle critiche più mosse a sinistra, ovvero “la maternità surrogata non è materia che si dibatterà in aula”, “il ddl Cirinnà è solo un rimedio necessario a un vuoto legislativo”?Va innanzitutto chiarito il concetto fondamentale: il ddl Cirinnà è un progetto iniquo, ingiusto ed inutile. INIQUO, perché tenta di omologare condizioni differenti nella forma e nella sostanza – matrimonio ed unioni civili – e che, quindi, proprio perché tali, vanno regolate in modo differente. Sono palesemente irrazionali, illogici e patetici i tentativi di far passare come identici il rapporto fra un uomo ed una donna e quello fra due persone di pari sesso. INGIUSTO, perché di fatto nega il primo e fondamentale diritto in gioco: il diritto del bimbo di avere una mamma ed un papà. Diritto naturale e atavico, inscritto nella storia dell’umanità, che nessuna ideologia deve e può violare. INUTILE, perché nessuno vuole negare i diritti civili legati alla persona che sceglie di vivere con altra persona di pari sesso. Questi diritti – peraltro già ampiamente riconosciuti e tutelati dal codice civile (altro che “vuoto normativo”!) non sono in discussione. Il tema è un altro, e sono i sostenitori stessi delle unioni civili a dichiararlo: omologazione completa con il matrimonio. Sulla “maternità surrogata”, che preferisco continuare a chiamare con il suo vero nome, cioè “utero in affitto”, che qualcuno ipocritamente definisce anche “gestazione per altri”, il mio giudizio è inequivocabile: si tratta di una pratica abominevole, razzista e neocoloniale in chiave XXI secolo, dato che si tratta di comprare il corpo di una donna indigente, che rischia anche di morire (come purtroppo la cronaca ci racconta) per soddisfare il “capriccio” di volere l’impossibile. Quando si fa la scelta di vivere una relazione omosessuale non si possono dimenticare le conseguenze e responsabilità che questa comporta, accettando quel semplicissimo principio di realtà per il quale il concepimento e la nascita di un figlio richiede una donna ed un uomo. Certo si può ricorrere alle alchimie della tecnoscienza, ma queste sono abissalmente lontane dalla naturalità dell’umano e sono anche laicamente immorali, nella misura in cui negano il vero bene di quel bimbo.
I cattolici del Pd sono decisi a far votare un emendamento per sostituire la stepchild adpotion con l’affido rafforzato. Di cosa si tratta e, soprattutto, si tratta di un compromesso?
L’articolo 5 del ddl Cirinnà prevede la cosiddetta stepchild adoption, cioè l’adozione da parte del convivente del bimbo biologico del partner (letteralmente, “adozione del figliastro”). Siamo assolutamente contrari ad una norma del genere, che condanniamo nell’ottica della difesa del diritto del bimbo a vedersi garantita la condizione più vantaggiosa per il suo accudimento e crescita. A tal fine, comunque, esiste un’istituzione specifica, il Tribunale dei Minorenni, ed una legislazione ad hoc, la legge 184/83, la cui funzione è proprio di decidere, caso per caso, quale sia l’ambiente di vita affettiva più idoneo al bimbo. E nella quale è già previsto l’orientamento a tenere nella giusta considerazione il principio della “continuità affettiva”. Ma c’è un passaggio previo che si dimentica, in particolare quando si tratta di coppia omosessuale maschile: se il bimbo non è frutto di una relazione eterosessuale precedente, non può che essere il “prodotto” dell’abominevole pratica dell’utero in affitto, realizzata in un paese ove è consentita. Di fatto, la stepchild adoption legittima quella pratica che la legge italiana condanna (legge 40/04). Sul piano culturale, come si può garantire e “sponsorizzare” per legge uno strumento che mercifica due esseri umani: il bimbo “comprato” (spesso su misura: scelta dell’ovocita, diagnosi genetica pre-impianto, aborto selettivo quando vengono impiantati più embrioni per garantire maggiore successo oppure aborto sic et sempliciter se il feto non è perfetto) e la donna ingaggiata a contratto? Non sono abituato ad usare espressioni forti, ma in questo caso è proprio necessario: è vomitevole solo il pensarlo. C’è chi sta pensando di risolvere il problema proponendo una forma giuridica “soft”, chiamata “affido rafforzato”: il bimbo viene solo affidato al partner, fino alla maggiore età, quando sceglierà in autonomia. In Veneto si dice che “il tacon s’è pegio del buso”. Ecco le ragioni: il regime che prevede l’affido familiare ha delle caratteristiche precise e rigorose che non hanno nulla che fare con la condizione propria di un’unione civile; l’affido è temporaneo e prevede il rapido rientro nel nucleo familiare d’origine: quale? Soltanto uno sciocco può non capire che si tratta solo di una “captatio benevolentiae”, un’esca, lanciata al mondo cattolico ed alla secolare tradizione italiana: meno scioccante e sconcertante, più soft ed innocua, più accettabile anche visceralmente… una trappola, in cui non si deve cadere. Se ad una coppia omosessuale viene dato il diritto di affido, ci vorranno forse due giorni per trovarci di fronte alla ben nota “magistratura creativa”, che sentenzierà a favore dell’adozione “piena e legittimante”. Con molto meno ciò è già accaduto. Se davvero ci sta a cuore il diritto/bene del bimbo, la massima protezione e prudenza è d’obbligo: nessun cedimento, nessun compromesso, nessuna ipocrisia.
Sul Post del 7 gennaio Ivan Scalfarotto cita Rosa Parks e il principio del'”Equal but separate”: «Gli afroamericani – scrive – potevano viaggiare sull’autobus con i bianchi, ma a condizione che si sedessero in posti differenti. Le unioni civili sono la stessa cosa: ti diamo lo stesso autobus (cioè gli stessi diritti), ma non ti puoi sedere insieme con gli altri (cioè i posti con l’etichetta “matrimonio” te li puoi scordare, per te ci sono le “unioni civili”). Uguali, ma separati». E ribadisce che il testo della legge rappresenta «un punto di equilibrio alto ma fragile. Un punto di equilibrio che bada alla sostanza, ma che ancora non coglie il punto centrale di questa battaglia civile e ideale». Qual è il messaggio? Si tratta solo di un primo passo? Sentenze come quelle di Melita Cavallo, la “giudice coraggio” che ha “spalancato le porte alla stepchild adoption”, (Repubblica 2 gennaio) non hanno già superato per via giudiziaria gli effetti del famigerato “compromesso”?
Ivan Scalfarotto ha il pregio della chiarezza e dell’onestà nel comunicare il proprio pensiero: il mondo gay militante vuole il matrimonio e, quindi, l’equiparazione completa – di fatto e di diritto – con la famiglia. Noi chiediamo che da parte nostra ci sia altrettanta chiarezza ed onestà, per un confronto leale, senza compromessi, sulla base dell’articolo 29 della Costituzione: la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio cui spetta una pienezza di diritti che ogni altra “formazione sociale” non può avere, in quanto strutturalmente ed ontologicamente diversa. Comunque, citando Rosa Parks, Scalfarotto fa un grosso autogoal: bianchi e neri sono assolutamente uguali, naturalmente, strutturalmente e – ancor più, se è mai possibile – ontologicamente. Il che certo non può dirsi per una coppia omosessuale: A+B (maschio A e femmina B) non è uguale ad A+A o B+B. Manca la complementarietà di due differenti che origina l’essenza di una coppia, e da cui scaturisce una nuova vita. Sulla giurisprudenza creativa ed invasiva terreni che non le competono (compito del magistrato è applicare la legge, non farla!) voglio solo aggiungere una constatazione. Corti giuridiche di livello vario sono riuscite scardinare una legge con paletti ben chiari e rigorosi come la legge 40 sulla PMA: è abbastanza facile immaginarsi che cosa accadrà il giorno dopo che venisse varata una legge che di fatto omologa le unioni civili al matrimonio e legittima l’affido rafforzato!
L’8 gennaio Repubblica titola “La Cei: no Family Day”, ricordando che i vescovi non aderirono alla manifestazione del giugno scorso. È così?
Repubblica, come tutto il mondo laicista, va a nozze (così restiamo in tema!) quando può screditare il mondo cattolico ed attaccare i vescovi. Stiamo ai fatti. Il Santo Padre con i suoi numerosi interventi sui temi della famiglia, del matrimonio e dei figli – anche quando era arcivescovo di Buenos Aires – ha espresso e confermato con chiarezza la secolare dottrina della Chiesa, che ogni vescovo locale ha quindi rilanciato. Il Papa ha anche scelto una strategia coraggiosa (propria di un uomo di grande fede): protagonismo diretto ai laici che non hanno più bisogno del “vescovo-pilota”. Così nasce il nostro Comitato. Stiamo percorrendo una unica strada, ma con specificità complementari, proprio come nel matrimonio: da una parte “dare voce a chi non ha voce” con eventi pubblici, popolari, coinvolgenti; dall’altra un grande lavoro culturale e formativo, magari poco visibile, ma non per questo meno ricco di valore. Due strade che non si annullano, bensì si implementano a vicenda. Differenti strategie, ma assoluta condivisione di valori e principi. Si ricordi, inoltre, che il nostro Comitato è apartitico ed aconfessionale, il che significa che ci rivolgiamo ad un mondo culturalmente e religiosamente molto variegato, che può non identificarsi nella Chiesa cattolica. Vorrei concludere con un grande appello: stiamo uniti, ritroviamoci in piazza, con tanti amici appartenenti anche ad altre fedi religiose e tanti altri “non credenti”: è in gioco l’umanità stessa e il “grido” deve essere alto, comune, perché deve raggiungere le orecchie indifferenti e sorde di chi ha il dovere di proteggere il bene comune, e non l’interesse bieco ed affaristico di lobby ideologiche.

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