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mercoledì 13 gennaio 2016

«Riconosci il tuo peccato, troverai la Misericordia»

di Massimo Introvigne                                  13-01-2016
Papa FrancescoÈ stato presentato oggi in Vaticano il libro Il nome di Dio è misericordia (Piemme), dove Andrea Tornielli intervista Papa Francesco sul tema che è al centro del suo pontificato, la misericordia. Il libro è un’utile e commovente guida all’Anno Santo della Misericordia, e chiarisce in modo netto che la misericordia non ha nulla a che fare con il buonismo o con presunte negazioni della realtà del peccato. Al contrario, il Pontefice spiega che solo chi si riconosce peccatore riesce a incontrare la misericordia di Dio, e che il luogo privilegiato di questo incontro è il confessionale. Il libro comprende cinque diversi nuclei tematici. Il primo è relativo alle fonti del Magistero di Francesco sulla misericordia.
Dall’inizio del suo pontificato, spiega il Papa, ha voluto proporre una Chiesa che «non aspetta che i feriti bussino alla sua porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati», e a tutti annuncia la misericordia. Ma non si tratta, afferma il Pontefice, di una novità. Le fonti ispiratrici di questa proposta sono San Giovanni XXIII, il Beato Paolo VI e soprattutto l’enciclica di San Giovanni Paolo II Dives in misericordia, nella quale il Papa polacco ha affermato che «la Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia, il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore, e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia».
Francesco insiste anche su Santa Faustina Kowalska, l’apostola della Divina Misericordia, la cui devozione unisce San
Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e l’attuale Pontefice. Francesco cita pure un’impegnativa affermazione teologica del Papa teologo, Benedetto XVI: «La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio, il volto con il quale Egli si è rivelato nell’antica Alleanza e pienamente in Gesù Cristo, incarnazione dell’Amore creatore e redentore». Ma ultimamente, insiste Francesco, le fonti del primato della misericordia sono nella Sacra Scrittura: «la misericordia è la carta d’identità del nostro Dio». Il Papa cita San Paolo nella Seconda Lettera a Timoteo (2, 13): «Se siamo infedeli, Lui rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso». «Tu puoi rinnegare Dio, commenta Francesco, tu puoi peccare contro di Lui, ma Dio non può rinnegare sé stesso, Lui rimane fedele». Ci sono poi delle fonti, per così dire, più personali. Il Papa cita il teologo gesuita padre Gaston Fessard e il suo libro La Dialectique des “Exercises spirituels” de S. Ignace de Loyola.
In particolare, Francesco afferma di avere appreso da Fessard l’importanza della capacità di provare quella vergogna di fronte ai propri peccati che «è una delle grazie che sant’Ignazio fa chiedere nella confessione dei peccati davanti al Cristo crocifisso». Il Papa ha ritrovato questi concetti anche «nelle omelie del monaco inglese San Beda il Venerabile», e nell’esperienza concreta dei grandi confessori. Ne cita alcuni che ha conosciuto personalmente, e San Leopoldo Mandic, di cui ha letto in particolare nelle omelie di Papa Giovanni Paolo I. E cita anche il famoso teologo domenicano Antonio Royo Marín. Nel suo primo Angelus da Pontefice, Francesco aveva ricordato una vecchia penitente argentina, che in confessione gli aveva detto: «Se il Signore non perdonasse tutto il mondo non esisterebbe». «Durante quel primo Angelus – rivela ora il Papa –, dissi, per farmi capire, che la mia risposta era stata: “ma lei ha studiato alla Gregoriana!”. In realtà, la vera risposta fu: “Ma lei ha studiato con Royo Marín!”».
Il secondo nucleo tematico del libro spiega la scelta di mettere oggi la misericordia al centro del Magistero. Questa scelta, afferma Francesco, è necessaria perché quella di oggi «è un’umanità ferita, un’umanità che porta ferite profonde. Non sa come curarle o crede che non sia proprio possibile curarle. E non ci sono soltanto le malattie sociali e le persone ferite dalla povertà, dall’esclusione sociale, dalle tante schiavitù del terzo millennio. Anche il relativismo ferisce tanto le persone: tutto sembra uguale, tutto sembra lo stesso». Il relativismo porta a perdere il senso del peccato. Il venerabile Pio XII, ricorda Francesco, «più di mezzo secolo fa, aveva detto che il dramma della nostra epoca era l’aver smarrito il senso del peccato, la coscienza del peccato. A questo si aggiunge oggi anche il dramma di considerare il nostro male, il nostro peccato, come incurabile, come qualcosa che non può essere guarito e perdonato». Non si crede più al peccato, dunque non ci si confessa, ma si cercano gli aiuti più bizzarri nelle nuove religioni e nell’occultismo. Francesco ricorda di avere appreso dal cardinale Giacomo Biffi questa citazione dello scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton: «Chi non crede in Dio, non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto». E commenta: «Una volta ho sentito una persona dire: ai tempi di mia nonna bastava il confessore, oggi tante persone si rivolgono ai chiromanti… Oggi si cerca salvezza dove si può».
Il terzo nucleo tematico riguarda la confessione. Non basta dire, ricorda il Papa, che riconosco il mio peccato e me ne pento davanti a Dio. «Ma è importante che io vada al confessionale, che metta me stesso di fronte a un sacerdote che impersona Gesù, che mi inginocchi di fronte alla Madre Chiesa chiamata a dispensare la misericordia di Dio. C’è un’oggettività in questo gesto, nel mio genuflettermi di fronte al prete, che in quel momento è il tramite della grazia che mi raggiunge e mi guarisce». Il Papa ricorda e spiega le sue immagini usate in omelie a Santa Marta secondo cui il confessionale non è né «una tintoria» né «una stanza delle torture». Quella della tintoria, spiega, era «un’immagine per far capire l’ipocrisia di quanti credono che il peccato sia una macchia, soltanto una macchia, che basta andare in tintoria perché te lavino a secco e tutto torni come prima». È l’atteggiamento di tanti che continuano a commettere lo stesso peccato, pensando che tanto poi se ne confesseranno.
Quanto all’immagine della «stanza di tortura», Francesco spiega che era destinata ai confessori, qualche volta troppo curiosi specie nel campo sessuale. Il Papa li invita a guardare al dialogo di Gesù con l’adultera, un grande esempio per i confessori. Gesù non chiede alla donna quante volte lo ha fatto, con chi e come. Sta all’essenziale: «Vai e non peccare più». Mentre qualche volta tra i confessori «ci può essere un eccesso di curiosità, in materia sessuale, soprattutto. Oppure un’insistenza nel far esplicitare particolari che non sono necessari». L’invito ai confessori alla misericordia, afferma ancora il Papa, non significa che debbano assolvere sempre. Ci sono casi in cui l’assoluzione non si può dare. Ma in questi casi, «se il confessore non può assolvere, che spieghi il perché ma dia comunque una benedizione, anche senza assoluzione sacramentale» e non interrompa il dialogo con il penitente.
Il quarto nucleo tematico riguarda l’atteggiamento giusto in cui dobbiamo porci nei confronti della Divina Misericordia e quindi della confessione. L’essenziale è che noi «siamo coscienti del nostro peccato, del male compiuto, della nostra miseria, del nostro bisogno di perdono, di misericordia». Se pensiamo di non essere capaci, chiediamolo al Signore. «Dio ci attende, aspetta che gli concediamo soltanto quel minimo spiraglio per poter agire in noi, col suo perdono, con la sua grazia». Ha atteso anche Simon Pietro, il cui tradimento – aggiunge Francesco – mostra che anche i Papi debbono riconoscersi peccatori. Dobbiamo anzitutto imparare e riconoscere che «c’è il peccato originale. Un dato del quale si può fare esperienza. La nostra umanità è ferita, sappiamo riconoscere il bene e il male, sappiamo che cosa è male, cerchiamo di seguire la via del bene, ma spesso cadiamo a motivo della nostra debolezza e scegliamo il male. È la conseguenza del peccato d’origine, del quale abbiamo piena coscienza grazie alla Rivelazione».
Il peccato originale non è una leggenda. La Sacra Scrittura «si serve di un linguaggio immaginifico per esporre qualcosa di realmente accaduto alle origini dell’umanità». Se il peccato originale non fosse una realtà, non si capirebbe perché Gesù Cristo «ha accettato di farsi torturare, crocifiggere e annientare per redimerci dal peccato». Al penitente, per fare una buona confessione, si chiede che «sappia guardare con sincerità a sé stesso e al suo peccato. E che si senta peccatore, che si lasci sorprendere, stupire da Dio. Perché lui ci riempia con il dono della sua misericordia infinita dobbiamo avvertire il nostro bisogno, il nostro vuoto». La verità sul peccato e la misericordia non si escludono, ma si richiamano. «La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato. Ma allo stesso tempo abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo avvicina, gli parla della misericordia infinita di Dio». Senza riconoscere il proprio peccato non si può incontrare la misericordia. «La misericordia c’è, ma se tu non vuoi riceverla... Se non ti riconosci peccatore vuol dire che non la vuoi ricevere, vuol dire che non ne senti il bisogno».
Rispondendo a una domanda di Tornielli sul famoso «chi sono io per giudicare» riferito alle persone omosessuali, Francesco spiega che «avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare. Innanzitutto mi piace che si parli di “persone omosessuali”: prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore. Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi». Sbaglia chi oppone la misericordia alla verità o alla dottrina: «la misericordia è vera, è il primo attributo di Dio. Poi si possono fare delle riflessioni teologiche su dottrina e misericordia, ma senza dimenticare che la misericordia è dottrina». Lo hanno negato le eresie «che riemergono sotto altre forme: i catari, i pelagiani che giustificano sé stessi per le loro opere e per il loro sforzo volontaristico, atteggiamento quest’ultimo già contrastato in maniera molto limpida nel testo della Lettera ai Romani di Paolo. Pensiamo allo gnosticismo, che porta quella spiritualità soft, senza incarnazione».
È difficile per la Chiesa tenere insieme verità e misericordia, evitando fraintendimenti? È difficile, ma è obbligatorio. «Bisogna entrare nel buio, nella notte che attraversano tanti nostri fratelli. Essere capaci di entrare in contatto con loro, di far sentire la nostra vicinanza, senza lasciarci avvolgere e condizionare da quel buio. Andare verso gli emarginati, verso i peccatori, non significa permettere ai lupi di entrare nel gregge». Ma, mentre vigila sui lupi, la Chiesa è attenta a incontrare le pecorelle smarrite che hanno mosso i primi timidi passi sulla via del ritorno all’ovile. «A volte c’è il rischio che i cristiani, con la loro psicologia di dottori della Legge, spengano ciò che lo Spirito Santo accende nel cuore di un peccatore, di qualcuno che sta sulla soglia, di qualcuno che comincia ad avvertire la nostalgia di Dio».
Il quinto nucleo del libro riguarda la dimensione sociale e politica della misericordia. Questa dimensione, afferma il Papa che ha antenati piemontesi, non può essere negata se «pensiamo al Piemonte della fine dell’Ottocento, alle Case della misericordia, ai santi della misericordia, il Cottolengo, don Bosco...». Santi che si sono anche occupati di rendere più umana la condizione dei carcerati, una causa che sta molto a cuore a Francesco. «Con la misericordia la giustizia è più giusta, realizza davvero sé stessa. Questo non significa essere di manica larga, nel senso di spalancare le porte delle carceri a chi si è macchiato di reati gravi. Significa che dobbiamo aiutare a non rimanere a terra coloro che sono caduti».
Francesco spiega anche perché è così severo sulla corruzione. Non si tratta di un peccato specifico – quasi che fosse corrotto solo il politico che ruba – ma di un atteggiamento mentale, che come tale riguarda tutti i peccati. «La corruzione è il peccato che invece di essere riconosciuto come tale e di renderci umili, viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere. Non ci sentiamo più bisognosi di perdono e di misericordia, ma giustifichiamo noi stessi e i nostri comportamenti».  «Il peccato, soprattutto se reiterato, può portare alla corruzione»: «il corrotto si stanca di chiedere perdono e finisce per credere di non doverlo più chiedere». In fondo, la corruzione è la manifestazione, che diventa sociale, della perdita sia del senso del peccato sia della vergogna di fronte ai peccati. Dobbiamo tutti «chiedere la grazia di riconoscerci peccatori, responsabili di quel male. Più ci riconosciamo bisognosi, più ci vergogniamo e ci umiliamo, più presto veniamo inondati dal suo abbraccio di Grazia».
Il luogo dove apprendere il senso del peccato e della misericordia è la famiglia: «è l’ospedale più vicino: quando uno è malato ci si cura lì, finché si può. La famiglia è la prima scuola dei bambini, è il punto di riferimento imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo per gli anziani». Lì si apprende anche la compassione, che è il nostro modo umano di corrispondere alla misericordia divina. E si cominciano a praticare le opere di misericordia, che il Papa ha più volte raccomandato di riscoprire nel Giubileo. Non solo le opere di misericordia corporale, ma anche quelle di misericordia spirituale, che non sono meno importanti: «avvicinare, saper ascoltare, consigliare, insegnare». È questo l’apostolato della misericordia.

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