Mi pongo questa domanda dopo alcune esternazioni del nuovo Presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, che ha preso le distanze dal Family day del 2007 e poi ha parzialmente smentito le sue dichiarazioni pubblicate dal periodico Vita.
Il mio intento non è quello di fare polemiche perché oggi sono la cosa meno necessaria, proprio alla vigilia dell’inizio della discussione sulle unioni civili in Senato, prevista per il 26 gennaio. Il problema non è personale ma culturale, ed è un problema decisivo per il futuro della presenza pubblica dei cattolici italiani.
Il mio scopo è quello di rispondere alla domanda che molti amici si fanno in queste ore: è necessario e utile ritornare in piazza per dire pubblicamente le ragioni della famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna e quindi ribadire il no a equipararla a ogni altra unione, come avvenne con il Family day del 2007 contro i Dico e come è avvenuto il 20 giugno scorso contro il ddl Cirinná?
Nel 2007 gli unici cattolici ostili al Family day furono i “cattolici adulti” di ispirazione dossettiana, legati alla rivista Appunti e alla memoria di Giuseppe Lazzati. Nel 2015 sono stati di più ma questo non ha impedito che il numero dei presenti in piazza fosse addirittura maggiore rispetto a quello del 2007. Chi contesta l’opportunità di manifestare sostiene che la battaglia culturale è perduta e quindi bisogna limitarsi a chiedere allo Stato una condizione migliore per le famiglie dal punto di vista fiscale e assistenziale. È lo stesso principio applicato nei confronti della scuola per oltre mezzo secolo, quando invece di affermare il principio della libertà di educazione si faceva arrivare alle scuole cattoliche una manciata di soldi attraverso le finanziarie. Il risultato è stato che tutti gli italiani o quasi sono convinti che la scuola libera sia un costo per lo Stato, quando invece è il contrario.
Il cambiamento culturale è cominciato col discorso di Loreto del 1985, quando Giovanni Paolo II spiegò che la Chiesa deve smettere di affidare ai partiti la rappresentanza dei propri valori e invece deve essere un soggetto sociale che opera per il bene comune direttamente, attraverso proprie forme organizzative. Da qui nacque e prese corpo il Forum delle associazioni familiari.
Intendiamoci, Giovanni Paolo II sapeva bene che il mondo profamily e quello prolife erano una minoranza (erano passati pochi anni dai referendum del 1974 e del 1981), ma una minoranza comunque consistente e in grado di avere un ruolo importante nel dibattito pubblico. Poi in Parlamento sarebbero avvenute le mediazioni possibili, inevitabili in una “società plurale”, come direbbe il card. Scola. Il problema non è il compromesso, ma che il compromesso venga confuso come fosse l’ideale.
Ora, trent’anni dopo, siamo in una situazione analoga. Siamo una minoranza, certamente, ma ancora in grado di affermare i principi fondamentali del bene comune con un importante seguito popolare.
Oggi però qualcuno vuole fare tornare la Chiesa indietro nel tempo, alla “scelta religiosa” precedente il 1985. Io non penso siano persone in malafede, ma credo che il loro problema sia una sudditanza culturale nei confronti dei poteri forti e del politicamente corretto. Questa sudditanza culturale rende il mondo cattolico debole, invisibile e inoltre gli impedisce di aggregare forze non cattoliche, come gli evangelici per esempio, ben disposte sul tema famiglia.
Ecco perché credo che oggi più di ieri sia necessario essere presenti in piazza, con una grande manifestazione tipo quella del 20 giugno, con le veglie silenziose, con la testimonianza personale e di gruppi e associazioni.
Sará poi il Signore della storia a decidere che cosa fare di questo grande sacrificio da parte del suo popolo.

 
Marco Invernizzi