gennaio 5, 2016 Simone Pillon
Il Family Day del 2007 non è stato un fallimento, e oggi si combatte una battaglia non meno impegnativa. Non è una questione solo fiscale, ma antropologica
Dispiace davvero che in questi giorni un amico abbia definito il Family Day del 2007 un fallimento, anzi, “uno dei più grandi fallimenti che abbia visto”.
Ogni volta che il popolo va in piazza si celebra comunque una vittoria di impegno civico e di democrazia realmente popolare. Nel 2007 poi, la vittoria fu piena e assoluta. La proposta di legge sui DiCo – obbiettivo dichiarato della piazza – fu stoppata e per altri 8 anni si perpetuò la magnifica “eccezione italiana” tanto cara a Giovanni Paolo II.
Certo, se misuriamo la questione solo dal punto di vista fiscale, nulla sembra esser cambiato. La famiglia continua ad essere perseguitata dal fisco e mettere al mondo un figlio oggi costa più di una Ferrari. E’ giusto e doveroso chiedere equità fiscale ma soprattutto oggi – a 8 anni di distanza – il problema continua a esser non solo economico ma sempre più antropologico.
Proprio in questa prospettiva sarebbe interessante studiare gli utili effetti di cui beneficiarono le famiglie italiane dopo quella fruttuosa presenza di piazza. Quante persone sono state rassicurate nella loro identità? Quante famiglie hanno ritrovato il coraggio e la meraviglia di esserci? Quante coppie, dopo il Family Day, hanno provato il desiderio di aprirsi nuovamente alla vita? Quante amicizie sono nate? Magari anche qualche famiglia, come alle Gmg… Quante associazioni si sono animate sul territorio…
Il primo problema non è mai stato dunque economico ma identitario, antropologico. E’ stata ed è
insomma una questione di principio, cioè fondativa, da cui tutto trova senso e compimento… Le questioni di principio hanno però in sé il problema di esser sempre indigeste al potere e la storia lo insegna. I cristiani non furono damnati ad bestias perché si opponevano alle oppressive politiche fiscali dell’Impero, ma perché non accettarono di bruciare un granello di incenso davanti alla statua dell’imperatore. Rifiutando quel gesto affermavano una nuova antropologia di piena libertà, intollerabile per il potere imperiale.
Oggi non è molto diverso da allora.
Nessuno tra i potenti si scandalizzerà se le famiglie chiederanno soldi. Lo fanno tutti. Anzi, qualcuno – più avveduto di altri – sarà ben lieto di mettere le famiglie col cappello in mano a chiedere l’elemosina, e di farsi pure bello della propria munificenza per aver elargito 80 euro ai lavoratori oppure 500 euro ai diciottenni…
Ciò che invece non può esser in alcun modo tollerato dalle ideologie al potere è che qualcuno vada in piazza, un giorno a caso – che so, il 20 giugno – difendendo il diritto dei figli ad essere educati e non indottrinati, il diritto dei bambini a crescere con mamma e papà. Che qualche genitore si alzi in consiglio d’Istituto, rifiutando l’indottrinamento gender per i suoi figli. Che qualcuno giri le piazze e i teatri e le parrocchie d’Italia raccontando la meraviglia della differenza sessuale… Che qualcun altro ricordi in Parlamento o in Università che per mettere al mondo e crescere un figlio servono una mamma e un papà.
Amici miei, siamo persuasi che celebrare la bellezza della famiglia e sbugiardare le menzogne del relativismo e dell’indifferentismo sessuale non sia affatto “trasformare la famiglia in un concetto astratto o ideologico o identitario”, ma serva per ricordare a tutti – e soprattutto ai più piccoli – che non si può prescindere mai e poi mai dalla carne maschile di un padre e dalla carne femminile di una madre. Nulla di più concreto, e vivo, e colorato, e bello!
Se infatti permetteremo direttamente o indirettamente che la famiglia sia legalmente destrutturata e decostruita, come chiedevano Engels o la de Beauvoir e oggi chiedono la Butler e Obama, e la Clinton e Hollande e molti altri di casa nostra, poi con le politiche fiscali ci faremo la birra. In Francia il 54% dei figli nasce fuori dal matrimonio e il trend è in crescita. Nel Canada – modello di welfare – i bambini si comprano liberamente su cataloghi on-line. Nella provvida Svezia la famiglia è destrutturata a tal punto che il 50% degli abitanti vivono soli…
Una volta che verrà uccisa nel vissuto dei bambini l’immagine stessa della famiglia naturale, il destino della comunità sarà segnato. Noi che vogliamo fare?
Che ci piaccia o no oggi questa è la posta in gioco. La vita è fatta di priorità. Possiamo trovare insieme strategie diverse – ognuno secondo la propria sensibilità – e giocare tutti in una grande squadra, qualcuno in attacco, qualcuno in difesa e qualcuno in porta, sapendo che stiamo tutti impegnandoci nella stessa direzione. Oppure possiamo passare il tempo a scomunicarci a vicenda, lasciando che l’eccezione italiana sia travolta e porti con sé larga parte del mondo.
Il 26 gennaio il DDL sulle unioni civili e la stepchild adoption andrà in discussione al Senato. E non si tratta – purtroppo – di un rigore da parare. Sarà una bomba capace di distruggere la porta, il campo da gioco, lo stadio e l’intera città.
Potrà essere una discussione molto breve, coronata dall’approvazione. A quel punto inutile invocare il referendum. Sarà legge dello Stato per almeno cinquant’anni, con tutte le conseguenze sociali economiche e antropologiche di cui sopra…
Oppure il DDL potrà finire nei polverosi archivi del Parlamento, a far compagnia ai DiCo, ma ciò dipenderà in larga parte da noi: chi è oggi al governo non pare voler noie: se capirà di aver di fronte uno schieramento compatto e determinato come nel 2007 non avrà problemi a lasciar cadere la proposta nel dimenticatoio.
Ma se intuirà margini di esitazione o peggio possibili contropartite in denaro da offrire sul tavolo della mediazione politica, farà della famiglia un sol boccone.
Dobbiamo ritrovare insieme il coraggio dell’unità. Probabilmente anche in piazza.
Coraggio!
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