Appunti sull’Amoris Laetitia
Appunti di Costanza Miriano per l’intervento al IV Incontro dei guardiani e parroci CIFIS dal titolo “Collaboratori della gioia alla luce dell’Amoris Laetitia”, san Giovanni Rotondo 8 novembre 2016
di Costanza Miriano
Io vengo qui solo per raccontare una storia, anzi, molte storie. Dei fatti. Cioè, vengo qui a dire quello che ho vissuto, e le tante storie che ho intrecciato con la mia, in questi ultimi cinque anni in cui sono andata in giro a parlare di matrimonio, in tutta Italia, e anche all’estero.
Non ho nessuna autorevolezza, nessun titolo accademico, se non la vagonata di affetto con cui vengo ricoperta ogni volta, le torte, i profumi, i ricami, gli orecchini, i regali anche molto importanti, fin le vacanze offerte, oppure piccoli gesti, che mi dicono che quello che vado a raccontare, che non è mio, ma, spero, della Chiesa, risponde a un bisogno, corrisponde a molti cuori. Posso vantare, come titolo accademico, qualche piccola Costanza in giro per l’Italia, e qualche altro bambino che è nato anche un po’ perché la rete di famiglie che si è formata si è fatta coraggio a vicenda, poiché tutti abbiamo bisogno di una compagnia. Ho anche scatole piene di partecipazioni di matrimonio, richieste di fare da testimone, sono madrina di un figlio che mi è carissimo, per quanto voglio bene alla sua mamma, con cui siamo diventate amiche in questa rete di bene che si è messa in moto. Questi sono i fatti che porto, e i fatti, come dice un cardinale a me caro citando Hume, sono testardi. C’è una rete di cui io sono stata magari in qualche modo uno dei fattori scatenanti, ma solo come un enzima che innesca reazioni, che poi procedono per conto loro, indipendentemente da me. E così posso testimoniare di famiglie che si prestano case, che si aiutano anche economicamente, che portano i pesi le une delle altre.
Lo dico senza paura di essere presuntuosa perché mi è chiarissimo che tutto questo bene innescato ha preso me solo come scusa, ma quello che ci unisce tutti è il desiderio di vivere la famiglia come luogo in cui possiamo diventare cristiani seri, vivere la vita del battesimo in questa che noi chiamiamo la Compagnia dell’Agnello.
Ecco, dette le mie credenziali, posso cercare di dire cosa secondo me aiuta le famiglie nella sfida e nella fatica che è ogni vita matrimoniale, anche le più riuscite.
L’uomo e la donna sono feriti dal peccato originale, non vengo a insegnarlo a voi, che lo avete insegnato a me, quello che la Chiesa ci annuncia. Il battesimo ci toglie la macchia del peccato, ma non la conseguenza, non la cicatrice. L’uomo e la donna, due feriti, da innamorati si scelgono. Non sempre con un cammino di discernimento adeguato, ma anche quando questo discernimento c’è arriva sempre per loro il momento della seconda vocazione. Il momento in cui bisogna scegliersi di nuovo. Scegliere di rimanere, scegliere di imparare ad amarsi è un passo successivo, e arduo, per una serie di motivi, prima di tutto come dicevo la nostra natura ferita dal peccato. Amare l’altro come vuole essere amato, secondo il suo linguaggio dell’amore, in modo che possa capirlo e tradurlo. Contrariamente a quanto ci vuole far credere l’idea contrabbandata per amore in Occidente, che è solo l’amore romantico, o come diceva Groucho Marx, gastrite, amare è un lavoro artigianale, di trincea, che richiede intelligenza, creatività, impegno, fantasia, dedizione, decisione di morire a sé. Per uno sposato la famiglia è il monastero, l’amore ai suoi membri una regola monastica alla quale dedicarsi con serietà a volte eroica. Perché non puoi dire di amare Dio se non ami colui che hai vicino. Dio per noi sposati ha il volto del coniuge. A partire da quella relazione che è immagine della relazione trinitaria – a sua immagine, a immagine di Dio siamo maschio e femmina, abbiamo questo regalo dalla nascita, ma la somiglianza ce la dà solo il cammino di conversione, di santificazione – si può poi essere fecondi, prima per i figli, poi per il mondo.
Il punto è che amare non è affatto scontato, come invece ci racconta la cultura che è prevalsa diciamo dal 68, e che tra l’altro è aggravata dal suo tendere alla negazione delle differenze, una delle conseguenze delle teorie del gender – quelle che il Papa definisce uno sbaglio della mente umana, il frutto di una colonizzazione ideologica. Così gli sposi oggi che pensavano di dividere tutto alla pari, dentro e fuori casa, scoprono che è difficile amare l’altro che è un essere appartenente a un’altra specie… scoprire che si è sposato un estraneo, che non parla neanche la nostra stessa lingua (…), che è fatto in modo diversissimo (…), che ha attese diverse sulla vita matrimoniale (…). Inoltre, ed è questo il tema a cui ho dedicato i miei primi due libri, l’uomo e la donna, sempre come dicevo feriti dal peccato, devono combattere in un vero e proprio cammino di ascesi, contro le loro tentazioni che sono, come bene riassunto da san Paolo in Efesini 5, per la donna la tentazione di manipolare, per l’uomo quella dell’egoismo (…).
E così questo lavoro di trincea che è il matrimonio richiede un giudizio su di sé, sulla propria storia, sulle emozioni, sulle vicende che ci capita di vivere, sulle prove (una malattia, un tradimento, l’incontro magari anche casto con una persona che sembra corrisponderci di più, i problemi economici, e poi semplicemente la fatica del quotidiano, la routine, la noia, lo smettere di lavorare su di sé e sulla relazione). L’Amoris Laetitia prende proprio le mosse dal constatare questi problemi, e non si può comprendere l’esortazione se ci si limita alla famigerata questione della comunione ai divorziati risposati, come dice per esempio il professor Stefan Kampowski. L’esortazione infatti individua sei nuclei problematici: l’individualismo, l’emotivismo, una non buona comunicazione della verità del matrimonio anche da parte della Chiesa (come se la questione si riducesse alla procreazione), l’inadeguato accompagnamento delle coppie, l’idealizzazione eccessiva del matrimonio, l’incapacità di risvegliare la fiducia nella grazia. Io, personalmente, trovo gli ultimi due i più importanti. Si idealizza il matrimonio se si aspira a un ideale di amore simbiotico. L’amore per lo sposo è preterintenzionale come dico io, cioè lo ami anche quando ti delude, non ti corrisponde, salvo poi scoprire che proprio nel momento in cui ti fa fare più fatica in realtà ti sta aiutando a convertirti, perché la conversione è sempre un lavoro per via di togliere, come per Michelangelo la scultura. Si dimentica poi che non c’è nessuno sposo e nessuna sposa che possano soddisfare nel profondo le nostre attese, è quella che Giovanni Paolo II chiama la solitudine originaria: l’uomo è fatto per Dio, e solo lui può soddisfare il suo cuore. E qui veniamo all’ultimo punto sollevato dal Papa: l’incapacità di risvegliare la grazia. Quando nei miei incontri pubblici arriviamo a questo, che è al fondo della questione, io capisco che sto annunciando qualcosa che tocca nel profondo il cuore delle persone che sono lì. Perché il punto centrale del matrimonio è che oggi, in un contesto che ha fatto cadere tutti gli esoscheletri, lo puoi vivere solo entrando nella vita della grazia, nella vita del battesimo, una vita in cui affronti una morte, abbracci una croce, e decidi che non sei più tu che vivi ma è Cristo che vive in te, decidi che veramente Gesù è il Signore, e che tu gli affidi tutta la tua vita, e quindi su tutta la tua vita contano di più le sue parole che la tua. Perché Lui vive e regna.
A questo punto è evidente che il senso del matrimonio è l’incontro con Cristo, sacramento del Padre, nello Spirito. E alle amiche che magari mi chiedono consiglio perché stanno combattendo in un matrimonio ferito, faticoso, io dico che in gioco c’è l’amore a Cristo, e che indissolubile per noi non è questione di tempo, non è questione di durata, ma di natura, nasce esclusivo e così rimane, perché prende tutto, come tutto intero è l’amore che ci ha dato Cristo, per salvarci tutti interi, e redimerci. E così la scelta non è fra dovere – fedeltà – e piacere – una nuova relazione, o magari una pacificante solitudine. Ma fra piacere – una nuova storia d’amore – e piacere più grande – la storia d’amore con Dio. Dobbiamo comunicare questo, la pienezza e la gioia di un amore totale che supera la fatica e l’egoismo, che non sono segno che abbiamo sbagliato matrimonio, ma sono la materia prima del matrimonio. Dobbiamo credere noi per primi che il Signore è il bene più grande, e che per amare e seguire lui nulla è troppo, dobbiamo crederci e comunicarlo, ma dobbiamo essere convinti noi per primi, voi per primi, che c’è una bellezza più grande. Dobbiamo però essere credibili, sedurre, attrarre a questa intimità con il Signore, e quindi dobbiamo viverla noi per primi.
Quanto all’Amoris Laetitia, e soprattutto al famigerato capitolo 8, qui voi tutti siete più titolati di me per parlarne. Voglio solo parlare da moglie, da donna che ha incontrato migliaia di coppie in questi anni, e anche un po’ da giornalista, con quindici anni di telegiornale nazionale alle spalle, e adesso tre di Rai Vaticano. Io ero in Sala Stampa della Santa Sede quando è stata distribuita la relatio finalis del Sinodo, e anche per l’uscita dell’esortazione. Circa venti secondi dopo che i fogli ci sono stati dati in mano, mentre ancora io cercavo i paragrafi decisivi, i giornali online titolavano “il Papa apre alla comunione ai divorziati risposati”, dando una notizia falsa e in mala fede, che però rimarrà ciò che il 99% della gente leggerà dell’Amoris Laetitia. Ripeto, non voglio entrare nei tecnicismi del paragrafo 305 e della nota 351, non ne ho gli strumenti. Ma da fedele e da giornalista dico con certezza che la Chiesa non si può permettere di non tenere conto di come le sue posizioni vengono comunicate dai miei colleghi (spessissimo in mala fede) e recepite dal mondo.
In questo clima culturale che io definisco la palude dell’inconscio, l’ultima cosa di cui i fedeli avessero bisogno era la percezione di qualcosa che abbassasse il livello dell’impresa che ci viene chiesta con la fedeltà matrimoniale, qualcosa che relativizzasse, o velocizzasse (Giovanni Paolo II diceva ai giudici della Sacra Rota “non siate veloci nel concedere la nullità perché spesso per un uomo di oggi la sua fedeltà al matrimonio sarà l’unica occasione che avrà per diventare cristiano”). Non ho dunque nessuna pretesa di criticare i contenuti, ma sono certa di come sono stati recepiti, e cioè nel modo totalmente laico e malizioso, tradotto nell’espressione “non c’è più l’indissolubilità”. Così togliamo, come diceva GPII, a tante persone l’unica possibilità che avranno di incontrare veramente intimamente profondamente Cristo. In un mondo di caos serviva più chiarezza, e anche se sono certa che l’AL sia il giusto tentativo di riformare tra gli eccessi lassisti e quelli di troppa durezza, credo che la Chiesa non possa permettersi il lusso di ignorare come viene percepita la sua parola, rischiando di aggiungere caos a caos.
Per esempio, se il ministro della salute cominciasse a parlare a tutti indiscriminatamente dei casi particolari e di tutte le eccezioni in cui non è bene vaccinarsi, nessuno più farebbe vaccinare i propri figli, e scoppierebbe un’epidemia. Invece un singolo medico che conosce il singolo bambino che ha in cura potrà valutare la sua situazione specifica e speciale, e sconsigliare il vaccino, ma la norma generale diffusa a tutti deve rimanere “bisogna vaccinarsi”. Io so, anche da vescovi e cardinali che me lo hanno raccontato, che già da prima dell’AL i criteri in essa esposti venivano applicati ai singoli casi, e veniva concessa la comunione in casi specialissimi, in un cammino spirituale, un discernimento, una paternità spirituale molto accurata da parte di alcuni pastori.
Credo pertanto che fosse bene fornire una piattaforma comune a tutti i pastori, che mediasse tra gli opposti eccessi del lassismo e della rigidità. Ma doveva rimanere un documento interno. Non credo che fosse bene diffonderla a tutti, dandola in pasto a chiunque, perché nella palude attuale, ne abbiamo parlato, che ha come conseguenza pochissimi matrimoni, ancora meno quelli che durano, pochissimi figli, bisognava continuare ad annunciare punti di riferimento fermi e solidi. La Chiesa è madre, e deve conoscere i suoi figli. Alcuni sono adulti, la maggioranza sono infanti nella fede. Io ai miei figli piccoli davo regole ferme, ai grandi spiego le cose provocando la loro libertà. Infatti se spieghi l’ecumenismo a un bambino ti farà il disegno con Gesù che dà la mano a Buddha e ad Allah. Il bambino non è capace di distinguere e quello che recepirà è che tutte le religioni sono sullo stesso piano.
Probabilmente di questo papa Francesco non è pienamente consapevole, anche perché viene da un altro paese, ha ancora negli occhi Videla che ordinava stragi e poi faceva la comunione, mentre dall’altra parte i poveracci morivano di fame, sta ancora combattendo con un cristianesimo bigotto e di potere, che però non è la realtà in Occidente. Nell’Occidente nichilista e pazzo e individualista la povertà su cui chinarsi è anche e direi soprattutto il bisogno di senso, è la ricerca di Dio, è la solitudine dei figli lasciati soli da genitori che non si vogliono più bene, è il dolore di non essere riusciti ad amarsi, è il dolore di una sconfitta e di una mancanza di senso. Di questo bisogno io sono stata testimone tante volte andando in giro per l’Italia. È su queste ferite che voi sacerdoti dovete chinarvi nei confessionali, dicendo che il Signore può tutto, a patto che noi gli consegniamo la nostra vita nell’obbedienza, e la smettiamo di ascoltare questo io pazzo ed egoista che sembra il signore assoluto delle nostre vite.
Non ho nessuna autorevolezza, nessun titolo accademico, se non la vagonata di affetto con cui vengo ricoperta ogni volta, le torte, i profumi, i ricami, gli orecchini, i regali anche molto importanti, fin le vacanze offerte, oppure piccoli gesti, che mi dicono che quello che vado a raccontare, che non è mio, ma, spero, della Chiesa, risponde a un bisogno, corrisponde a molti cuori. Posso vantare, come titolo accademico, qualche piccola Costanza in giro per l’Italia, e qualche altro bambino che è nato anche un po’ perché la rete di famiglie che si è formata si è fatta coraggio a vicenda, poiché tutti abbiamo bisogno di una compagnia. Ho anche scatole piene di partecipazioni di matrimonio, richieste di fare da testimone, sono madrina di un figlio che mi è carissimo, per quanto voglio bene alla sua mamma, con cui siamo diventate amiche in questa rete di bene che si è messa in moto. Questi sono i fatti che porto, e i fatti, come dice un cardinale a me caro citando Hume, sono testardi. C’è una rete di cui io sono stata magari in qualche modo uno dei fattori scatenanti, ma solo come un enzima che innesca reazioni, che poi procedono per conto loro, indipendentemente da me. E così posso testimoniare di famiglie che si prestano case, che si aiutano anche economicamente, che portano i pesi le une delle altre.
Lo dico senza paura di essere presuntuosa perché mi è chiarissimo che tutto questo bene innescato ha preso me solo come scusa, ma quello che ci unisce tutti è il desiderio di vivere la famiglia come luogo in cui possiamo diventare cristiani seri, vivere la vita del battesimo in questa che noi chiamiamo la Compagnia dell’Agnello.
Ecco, dette le mie credenziali, posso cercare di dire cosa secondo me aiuta le famiglie nella sfida e nella fatica che è ogni vita matrimoniale, anche le più riuscite.
L’uomo e la donna sono feriti dal peccato originale, non vengo a insegnarlo a voi, che lo avete insegnato a me, quello che la Chiesa ci annuncia. Il battesimo ci toglie la macchia del peccato, ma non la conseguenza, non la cicatrice. L’uomo e la donna, due feriti, da innamorati si scelgono. Non sempre con un cammino di discernimento adeguato, ma anche quando questo discernimento c’è arriva sempre per loro il momento della seconda vocazione. Il momento in cui bisogna scegliersi di nuovo. Scegliere di rimanere, scegliere di imparare ad amarsi è un passo successivo, e arduo, per una serie di motivi, prima di tutto come dicevo la nostra natura ferita dal peccato. Amare l’altro come vuole essere amato, secondo il suo linguaggio dell’amore, in modo che possa capirlo e tradurlo. Contrariamente a quanto ci vuole far credere l’idea contrabbandata per amore in Occidente, che è solo l’amore romantico, o come diceva Groucho Marx, gastrite, amare è un lavoro artigianale, di trincea, che richiede intelligenza, creatività, impegno, fantasia, dedizione, decisione di morire a sé. Per uno sposato la famiglia è il monastero, l’amore ai suoi membri una regola monastica alla quale dedicarsi con serietà a volte eroica. Perché non puoi dire di amare Dio se non ami colui che hai vicino. Dio per noi sposati ha il volto del coniuge. A partire da quella relazione che è immagine della relazione trinitaria – a sua immagine, a immagine di Dio siamo maschio e femmina, abbiamo questo regalo dalla nascita, ma la somiglianza ce la dà solo il cammino di conversione, di santificazione – si può poi essere fecondi, prima per i figli, poi per il mondo.
Il punto è che amare non è affatto scontato, come invece ci racconta la cultura che è prevalsa diciamo dal 68, e che tra l’altro è aggravata dal suo tendere alla negazione delle differenze, una delle conseguenze delle teorie del gender – quelle che il Papa definisce uno sbaglio della mente umana, il frutto di una colonizzazione ideologica. Così gli sposi oggi che pensavano di dividere tutto alla pari, dentro e fuori casa, scoprono che è difficile amare l’altro che è un essere appartenente a un’altra specie… scoprire che si è sposato un estraneo, che non parla neanche la nostra stessa lingua (…), che è fatto in modo diversissimo (…), che ha attese diverse sulla vita matrimoniale (…). Inoltre, ed è questo il tema a cui ho dedicato i miei primi due libri, l’uomo e la donna, sempre come dicevo feriti dal peccato, devono combattere in un vero e proprio cammino di ascesi, contro le loro tentazioni che sono, come bene riassunto da san Paolo in Efesini 5, per la donna la tentazione di manipolare, per l’uomo quella dell’egoismo (…).
E così questo lavoro di trincea che è il matrimonio richiede un giudizio su di sé, sulla propria storia, sulle emozioni, sulle vicende che ci capita di vivere, sulle prove (una malattia, un tradimento, l’incontro magari anche casto con una persona che sembra corrisponderci di più, i problemi economici, e poi semplicemente la fatica del quotidiano, la routine, la noia, lo smettere di lavorare su di sé e sulla relazione). L’Amoris Laetitia prende proprio le mosse dal constatare questi problemi, e non si può comprendere l’esortazione se ci si limita alla famigerata questione della comunione ai divorziati risposati, come dice per esempio il professor Stefan Kampowski. L’esortazione infatti individua sei nuclei problematici: l’individualismo, l’emotivismo, una non buona comunicazione della verità del matrimonio anche da parte della Chiesa (come se la questione si riducesse alla procreazione), l’inadeguato accompagnamento delle coppie, l’idealizzazione eccessiva del matrimonio, l’incapacità di risvegliare la fiducia nella grazia. Io, personalmente, trovo gli ultimi due i più importanti. Si idealizza il matrimonio se si aspira a un ideale di amore simbiotico. L’amore per lo sposo è preterintenzionale come dico io, cioè lo ami anche quando ti delude, non ti corrisponde, salvo poi scoprire che proprio nel momento in cui ti fa fare più fatica in realtà ti sta aiutando a convertirti, perché la conversione è sempre un lavoro per via di togliere, come per Michelangelo la scultura. Si dimentica poi che non c’è nessuno sposo e nessuna sposa che possano soddisfare nel profondo le nostre attese, è quella che Giovanni Paolo II chiama la solitudine originaria: l’uomo è fatto per Dio, e solo lui può soddisfare il suo cuore. E qui veniamo all’ultimo punto sollevato dal Papa: l’incapacità di risvegliare la grazia. Quando nei miei incontri pubblici arriviamo a questo, che è al fondo della questione, io capisco che sto annunciando qualcosa che tocca nel profondo il cuore delle persone che sono lì. Perché il punto centrale del matrimonio è che oggi, in un contesto che ha fatto cadere tutti gli esoscheletri, lo puoi vivere solo entrando nella vita della grazia, nella vita del battesimo, una vita in cui affronti una morte, abbracci una croce, e decidi che non sei più tu che vivi ma è Cristo che vive in te, decidi che veramente Gesù è il Signore, e che tu gli affidi tutta la tua vita, e quindi su tutta la tua vita contano di più le sue parole che la tua. Perché Lui vive e regna.
A questo punto è evidente che il senso del matrimonio è l’incontro con Cristo, sacramento del Padre, nello Spirito. E alle amiche che magari mi chiedono consiglio perché stanno combattendo in un matrimonio ferito, faticoso, io dico che in gioco c’è l’amore a Cristo, e che indissolubile per noi non è questione di tempo, non è questione di durata, ma di natura, nasce esclusivo e così rimane, perché prende tutto, come tutto intero è l’amore che ci ha dato Cristo, per salvarci tutti interi, e redimerci. E così la scelta non è fra dovere – fedeltà – e piacere – una nuova relazione, o magari una pacificante solitudine. Ma fra piacere – una nuova storia d’amore – e piacere più grande – la storia d’amore con Dio. Dobbiamo comunicare questo, la pienezza e la gioia di un amore totale che supera la fatica e l’egoismo, che non sono segno che abbiamo sbagliato matrimonio, ma sono la materia prima del matrimonio. Dobbiamo credere noi per primi che il Signore è il bene più grande, e che per amare e seguire lui nulla è troppo, dobbiamo crederci e comunicarlo, ma dobbiamo essere convinti noi per primi, voi per primi, che c’è una bellezza più grande. Dobbiamo però essere credibili, sedurre, attrarre a questa intimità con il Signore, e quindi dobbiamo viverla noi per primi.
Quanto all’Amoris Laetitia, e soprattutto al famigerato capitolo 8, qui voi tutti siete più titolati di me per parlarne. Voglio solo parlare da moglie, da donna che ha incontrato migliaia di coppie in questi anni, e anche un po’ da giornalista, con quindici anni di telegiornale nazionale alle spalle, e adesso tre di Rai Vaticano. Io ero in Sala Stampa della Santa Sede quando è stata distribuita la relatio finalis del Sinodo, e anche per l’uscita dell’esortazione. Circa venti secondi dopo che i fogli ci sono stati dati in mano, mentre ancora io cercavo i paragrafi decisivi, i giornali online titolavano “il Papa apre alla comunione ai divorziati risposati”, dando una notizia falsa e in mala fede, che però rimarrà ciò che il 99% della gente leggerà dell’Amoris Laetitia. Ripeto, non voglio entrare nei tecnicismi del paragrafo 305 e della nota 351, non ne ho gli strumenti. Ma da fedele e da giornalista dico con certezza che la Chiesa non si può permettere di non tenere conto di come le sue posizioni vengono comunicate dai miei colleghi (spessissimo in mala fede) e recepite dal mondo.
In questo clima culturale che io definisco la palude dell’inconscio, l’ultima cosa di cui i fedeli avessero bisogno era la percezione di qualcosa che abbassasse il livello dell’impresa che ci viene chiesta con la fedeltà matrimoniale, qualcosa che relativizzasse, o velocizzasse (Giovanni Paolo II diceva ai giudici della Sacra Rota “non siate veloci nel concedere la nullità perché spesso per un uomo di oggi la sua fedeltà al matrimonio sarà l’unica occasione che avrà per diventare cristiano”). Non ho dunque nessuna pretesa di criticare i contenuti, ma sono certa di come sono stati recepiti, e cioè nel modo totalmente laico e malizioso, tradotto nell’espressione “non c’è più l’indissolubilità”. Così togliamo, come diceva GPII, a tante persone l’unica possibilità che avranno di incontrare veramente intimamente profondamente Cristo. In un mondo di caos serviva più chiarezza, e anche se sono certa che l’AL sia il giusto tentativo di riformare tra gli eccessi lassisti e quelli di troppa durezza, credo che la Chiesa non possa permettersi il lusso di ignorare come viene percepita la sua parola, rischiando di aggiungere caos a caos.
Per esempio, se il ministro della salute cominciasse a parlare a tutti indiscriminatamente dei casi particolari e di tutte le eccezioni in cui non è bene vaccinarsi, nessuno più farebbe vaccinare i propri figli, e scoppierebbe un’epidemia. Invece un singolo medico che conosce il singolo bambino che ha in cura potrà valutare la sua situazione specifica e speciale, e sconsigliare il vaccino, ma la norma generale diffusa a tutti deve rimanere “bisogna vaccinarsi”. Io so, anche da vescovi e cardinali che me lo hanno raccontato, che già da prima dell’AL i criteri in essa esposti venivano applicati ai singoli casi, e veniva concessa la comunione in casi specialissimi, in un cammino spirituale, un discernimento, una paternità spirituale molto accurata da parte di alcuni pastori.
Credo pertanto che fosse bene fornire una piattaforma comune a tutti i pastori, che mediasse tra gli opposti eccessi del lassismo e della rigidità. Ma doveva rimanere un documento interno. Non credo che fosse bene diffonderla a tutti, dandola in pasto a chiunque, perché nella palude attuale, ne abbiamo parlato, che ha come conseguenza pochissimi matrimoni, ancora meno quelli che durano, pochissimi figli, bisognava continuare ad annunciare punti di riferimento fermi e solidi. La Chiesa è madre, e deve conoscere i suoi figli. Alcuni sono adulti, la maggioranza sono infanti nella fede. Io ai miei figli piccoli davo regole ferme, ai grandi spiego le cose provocando la loro libertà. Infatti se spieghi l’ecumenismo a un bambino ti farà il disegno con Gesù che dà la mano a Buddha e ad Allah. Il bambino non è capace di distinguere e quello che recepirà è che tutte le religioni sono sullo stesso piano.
Probabilmente di questo papa Francesco non è pienamente consapevole, anche perché viene da un altro paese, ha ancora negli occhi Videla che ordinava stragi e poi faceva la comunione, mentre dall’altra parte i poveracci morivano di fame, sta ancora combattendo con un cristianesimo bigotto e di potere, che però non è la realtà in Occidente. Nell’Occidente nichilista e pazzo e individualista la povertà su cui chinarsi è anche e direi soprattutto il bisogno di senso, è la ricerca di Dio, è la solitudine dei figli lasciati soli da genitori che non si vogliono più bene, è il dolore di non essere riusciti ad amarsi, è il dolore di una sconfitta e di una mancanza di senso. Di questo bisogno io sono stata testimone tante volte andando in giro per l’Italia. È su queste ferite che voi sacerdoti dovete chinarvi nei confessionali, dicendo che il Signore può tutto, a patto che noi gli consegniamo la nostra vita nell’obbedienza, e la smettiamo di ascoltare questo io pazzo ed egoista che sembra il signore assoluto delle nostre vite.
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