Con la lettera del Pontefice sull’aborto, si è detto che la Chiesa apre o si apre al mondo. Ma cos’è questo Mondo il cui ingresso finalmente concesso sarebbe un grande passo in avanti?
C’è una frase stereotipa che molti hanno ripetuto banalmente, commentando la decisione del Papa di accomunare agli altri peccati gravi l’aborto, la cui assoluzione — previo ovviamente il reale pentimento e il proposito di non commetterlo ulteriormente — può ora venire impartita da qualsiasi sacerdote e non più, come in precedenza, solo dal vescovo.
La soppressione di un individuo nelle primissime fasi della sua esistenza è e rimane una colpa grave, ma non è più colpita da scomunica, da cui peraltro non erano e non sono colpiti peccati anche più gravi.
La decisione del Pontefice è perfettamente in linea con la dottrina della Chiesa e con lo spirito del Cristianesimo, il quale, prima di essere una religione, è un cambiamento della vita, è la promessa e la possibilità di rinascita, di resurrezione non solo di Cristo ma — cosa non meno importante — dell’uomo, la sua capacità di « metanoia », ossia di ricreare la propria vita. Fra l’altro, la tetra ritualità della scomunica e dell’assoluzione speciale solo da parte del vescovo poteva facilmente produrre un’atmosfera angosciosa, atta a provocare non la libertà della rinascita spirituale, quanto piuttosto oscuri e vaghi sensi di colpa, che la Chiesa saggiamente condanna perché li sa legati più a coatte tortuosità psicologiche che non a valori e a sentimenti morali. Chi insinua — per lodarlo o attaccarlo, in entrambi i casi ipocritamente — che il Papa abbia inteso minimizzare l’aborto mente, sapendo — o, peggio ancora, non sapendo — di mentire.
Si è detto, da molti, che con questa decisione la Chiesa «apre» o «si apre» al mondo. Anzitutto la frase non ha senso, perché tutti siamo nel mondo, il mondo siamo anche noi, Chiese comprese. Il mondo non è fuori e nemmeno noi — individui, Stati o istituzioni — ne siamo fuori ; il mondo è il nostro incontrarci, scontrarci, comprenderci, fraintenderci, amarci, odiarci, farci del bene o del male. Il mondo siamo noi, è in noi, nelle nostre vene e nei nostri pensieri, e noi siamo nel mondo anche quando, secondo il monito di Cristo, non siamo «del» mondo. Ma la frase ripetuta come una pappagallesca giaculatoria sembra voler dire che il mondo, esterno alla Chiesa, è il bene, il giusto, il progresso e che finalmente la Chiesa — o anche altre istituzioni o individui — migliora, si eleva, si libera aprendogli le porte e facendolo entrare.
Ma cos’è questo mondo il cui ingresso finalmente concesso sarebbe un grande passo in avanti? Il mondo, con le sue parole d’ordine imperiosamente obbligatorie per ognuno, è tante cose diverse. Il mondo — il nostro mondo, il nostro Tempo — è progresso ma anche regressione; è la crescente liberazione di popoli e classi sociali ed è pure la crescente inumana schiavitù di altri popoli e di altre genti; è l’orrore della guerra che divampa ovunque e sempre più. È la liberazione della donna ed è il diffuso femminicidio; è la nobiltà di tanti che si sacrificano per lenire sofferenze e feroci ingiustizie inflitte a milioni di dannati della terra ed è l’abiezione del mercato di organi che regola l’uccisione di bambini in nome del profitto procurato dalla vendita degli organi strappati ai loro cadaveri. Le «pompe» del mondo cui si rinuncia nel battesimo sono anche le stragi, le bestiali condizioni di vita (o meglio non vita) imposte a milioni di persone per il pomposo benessere di pochi. Certo, il Cristianesimo offre pure agli assassini, ai serial killer, alla delinquenza organizzata che fa sparire i bambini nel calcestruzzo, la possibilità di pentirsi, di rinascere spiritualmente, di essere assolti — anche se spesso vorremmo, comprensibilmente, mettere loro una corda al collo.
Nemmeno le parole d’ordine correnti e dominanti sono sempre verità cui bisognerebbe adeguarsi, «aprirsi». Il mondo ovvero l’ideologia in quel momento sovrana può essere verità o menzogna generalizzata e sta ad ognuno, Papa o non Papa, valutare liberamente, e soprattutto con autonomia di giudizio e di pensiero, cosa accettare e cosa respingere, a che cosa «aprire» e a che cosa sbattere la porta in faccia. Il senso della vita, come dice il titolo di un libro di Camus, è quello di «resistere all’aria del tempo», agli idoli in quel momento regnanti. Resistere senza pregiudizi e senza rifiuti aprioristici; resistere elasticamente, criticamente e autocriticamente, cercando di capire quando il mondo ci fa più liberi e intelligenti e quando ci fa più beoti e più schiavi. Molte opinioni, gusti, scelte e convenzioni oggi prevalenti sono inganni, a cominciare dallo stupido e tirannico pensiero unico il quale ribadisce che l’attuale ordine — o disordine — che regge il mondo sia l’unico sistema possibile, destinato a durare per sempre, e che le innominabili diseguaglianze tra gli uomini siano immutabili.
Non è detto che sia sempre bene — né sempre male — aprirsi, inchinarsi al mondo. Se proprio si è costretti, si può farlo come Bertoldo dinanzi alla Regina; Bertoldo obbligato ad avvicinarsi al suo trono passando sotto un basso arco e dunque inchinato fin quasi a terra, ma che lo fa entrando a ritroso e mostrando quindi, inchinato, alla Regina il sedere. In una storiella ebraica un pio sarto ebreo, accurato ma lento nel lavoro, a chi gli rimprovera di metterci più tempo per fare un paio di pantaloni di quanto ne abbia messo Dio per creare il mondo, risponde: «Sì, ma guardate com’è fatto il mondo e come invece, modestamente, sono fatti i miei pantaloni».
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