In un primo articolo (clicca qui) abbiamo fotografato la situazione di disorientamento di tanti fedeli riguardo alle conclusioni del Sinodo straordinario sulla famiglia e in preparazione al prossimo Sinodo ordinario che si terrà in ottobre. Si tratta di un disorientamento causato soprattutto da chi cerca di approfittare dell’occasione per imporre cambiamenti dottrinali mascherati da aggiustamenti dottrinali.
Si tratta di una situazione che richiede una serie di distinzioni teoretiche e pratiche che vanno però riportate ai criteri della logica aletica, ossia a quelle esigenze fondamentali della razionalità che vigono per ogni ordine di discorsi che abbiano la pretesa della verità. Sono esigenze che non si possono trascurare quando si tratta della verità della dottrina professata dalla Chiesa (fides quae creditur), alla quale deve assentire in toto chiunque voglia appartenere alla Chiesa, Popolo di Dio, e ottenere da Cristo la salvezza.
La razionalità è infatti intrinseca al messaggio rivelato, in quanto comunicazione salvifica della stessa sapienza divina; e se “l’uditore della Parola” è chiamato a una libera risposta di fede (“rationabile obsequium”), è proprio perché gli è sempre possibile rilevare nel messaggio rivelato degli adeguati “motivi razionali di credibilità”.
La Chiesa cattolica ha sempre difeso, contro il fideismo, il carattere intrinsecamente razionale della fede nella rivelazione: prima, solennemente, con la costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I, poi con il suo magistero ordinario e universale (costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II, enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II); e va notato che tutti questi documenti del Magistero riconoscono, con perfetta coerenza logica, che i “motivi razionali di credibilità” della divina rivelazione presuppongono quelle certezze indubitabili che ogni uomo possiede come premessa di ogni possibile assenso, certezze che la filosofia moderna chiama “senso comune” e che la teologia, con san Tommaso d’Aquino, qualifica come “praeambula fidei”.
In rapporto alla questione che sto affrontando, il primo ed essenziale criterio logico è la distinzione, in materia de fide et
moribus, tra: (a) ciò che può e deve essere creduto fermamente e irrevocabilmente in quanto proposto dalla Chiesa come rivelato da Dio, e (b) ciò che invece può essere solamente ammesso in via ipotetica, come opinione umana, in quanto mera tesi teologica.
La teologia è infatti essenzialmente “interpretazione privata del dogma”, e come tale non introduce nella dottrina cattolica nuove verità da credere, non aumenta “in estensione” la fede della Chiesa, anche se mira ad arricchirla “in profondità”. Ora, una tesi teologica risulta più o meno plausibile, può cioè essere ammessa dai credenti solo se consiste in un’ipotesi di interpretazione del dogma, ossia se viene argomentata a partire da dati di fede. Invece, va sempre respinta come inammissibile qualsiasi tesi teologica che a un’attenta analisi (per la quale sono utili i criteri di discernimento qui proposti) risulti argomentata a partire da premesse di scienza meramente umana. Di conseguenza, è lecito, anzi doveroso verificare le premesse logiche di ogni tesi teologica proposta all’opinione pubblica cattolica come un approfondimento o un’applicazione delle verità che costituiscono il depositum fidei.
Quanti hanno la responsabilità, per dovere di ufficio ecclesiastico, di evitare il disorientamento dottrinale tra i fedeli devono saper rifiutare ogni opinione che abusivamente si presenti come teologica, quando in realtà è meramente umana. Non si tratta quindi di criticare un’opinione umana a partire da un’altra opinione umana, né si tratta di contrapporre a un’ideologia un’altra ideologia: si tratta piuttosto della necessità pastorale di non riconoscere come “teologica” una tesi che, quale che sia l’autorità scientifica (filosofica, esegetica, sociologica, psicologica, storiografica) di chi la propone, risulti basata su presunte verità umane e non sulle verità rivelate da Dio.
Un caso frequente di presunte verità umane che servono da premesse di false argomentazioni teologiche miranti a cambiare la dottrina della fede è la categoria immaginaria del cosiddetto “uomo di oggi”, categoria basata su superficiali analisi psicologiche o socioculturali che ignorano le sostanziali differenze tra la cultura occidentale e quella orientale o africana, e identifica ingenuamente l’uomo di oggi con le manifestazioni esteriori della coscienza umana quali sono elaborate dall’industria dei media. Le congetture circa ciò che dovrebbero essere le aspettative e le pretese del cosiddetto “uomo di oggi” non possono portare il teologo a ignorare quello che ha detto Cristo stesso, redentore dell’uomo, stabilendo i principi morali fondamentali sulla sessualità e sul matrimonio, principi che la Chiesa non può che considerare come assolutamente validi per gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.
Il secondo criterio logico è la distinzione che occorre sempre fare, in materia de fide et moribus, tra: (a) gli enunciati che costituiscono il “dogma”, da intendersi come l’essenza della verità rivelata, che resta immutabile anche nei suoi sviluppi omogenei, e (b) gli enunciati che costituiscono invece una possibile “interpretazione” del dogma stesso che l’autorità ecclesiastica ha fatto propria, inserendola in un testo del Magistero.
La distinzione comporta due diversi livelli di irriformabilità degli enunciati dogmatici e di immutabilità delle prescrizioni morali, ma non comporta diversi livelli di obbligatorietà nell’assenso dei fedeli; essa è comunque necessaria proprio perché il discernimento dei due diversi livelli epistemici consente di percepire l’unità e la continuità della Tradizione anche nel contesto storico dei continui mutamenti che si verificano nella vita della Chiesa.
Infatti, le verità che costituiscono gli “articuli fidei” in senso stretto, come oggetto primario di quell’atto di fede divina ed ecclesiastica che è necessario per appartenere alla Chiesa e avere la promessa della salvezza e la vita eterna, sono sempre insegnate esplicitamente dal Magistero come tali, tanto da essere tradizionalmente inserite come “simboli della fede” nella celebrazione eucaristica e provocare così il Popolo di Dio alla “professione di fede” comunitaria. Queste verità fondamentali (che io, per chiarezza logica, preferisco chiamare “nucleo dogmatico” della dottrina della fede) esprimono il contenuto esplicito e la formalizzazione magisteriale della Sacra Tradizione e della Sacra Scrittura, che formano un tutt’uno dal punto di vista epistemico, giacché è la Tradizione ecclesiastica che consegna ai fedeli la Sacra Scrittura, ne garantisce l’autenticità come Parola di Dio (con le note dell’ispirazione divina e dell’inerranza) e all’occorrenza ne interpreta autorevolmente il contenuto.
Si tratta di una situazione che richiede una serie di distinzioni teoretiche e pratiche che vanno però riportate ai criteri della logica aletica, ossia a quelle esigenze fondamentali della razionalità che vigono per ogni ordine di discorsi che abbiano la pretesa della verità. Sono esigenze che non si possono trascurare quando si tratta della verità della dottrina professata dalla Chiesa (fides quae creditur), alla quale deve assentire in toto chiunque voglia appartenere alla Chiesa, Popolo di Dio, e ottenere da Cristo la salvezza.
La razionalità è infatti intrinseca al messaggio rivelato, in quanto comunicazione salvifica della stessa sapienza divina; e se “l’uditore della Parola” è chiamato a una libera risposta di fede (“rationabile obsequium”), è proprio perché gli è sempre possibile rilevare nel messaggio rivelato degli adeguati “motivi razionali di credibilità”.
La Chiesa cattolica ha sempre difeso, contro il fideismo, il carattere intrinsecamente razionale della fede nella rivelazione: prima, solennemente, con la costituzione dogmatica Dei Filius del Vaticano I, poi con il suo magistero ordinario e universale (costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II, enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II); e va notato che tutti questi documenti del Magistero riconoscono, con perfetta coerenza logica, che i “motivi razionali di credibilità” della divina rivelazione presuppongono quelle certezze indubitabili che ogni uomo possiede come premessa di ogni possibile assenso, certezze che la filosofia moderna chiama “senso comune” e che la teologia, con san Tommaso d’Aquino, qualifica come “praeambula fidei”.
In rapporto alla questione che sto affrontando, il primo ed essenziale criterio logico è la distinzione, in materia de fide et
moribus, tra: (a) ciò che può e deve essere creduto fermamente e irrevocabilmente in quanto proposto dalla Chiesa come rivelato da Dio, e (b) ciò che invece può essere solamente ammesso in via ipotetica, come opinione umana, in quanto mera tesi teologica.
La teologia è infatti essenzialmente “interpretazione privata del dogma”, e come tale non introduce nella dottrina cattolica nuove verità da credere, non aumenta “in estensione” la fede della Chiesa, anche se mira ad arricchirla “in profondità”. Ora, una tesi teologica risulta più o meno plausibile, può cioè essere ammessa dai credenti solo se consiste in un’ipotesi di interpretazione del dogma, ossia se viene argomentata a partire da dati di fede. Invece, va sempre respinta come inammissibile qualsiasi tesi teologica che a un’attenta analisi (per la quale sono utili i criteri di discernimento qui proposti) risulti argomentata a partire da premesse di scienza meramente umana. Di conseguenza, è lecito, anzi doveroso verificare le premesse logiche di ogni tesi teologica proposta all’opinione pubblica cattolica come un approfondimento o un’applicazione delle verità che costituiscono il depositum fidei.
Quanti hanno la responsabilità, per dovere di ufficio ecclesiastico, di evitare il disorientamento dottrinale tra i fedeli devono saper rifiutare ogni opinione che abusivamente si presenti come teologica, quando in realtà è meramente umana. Non si tratta quindi di criticare un’opinione umana a partire da un’altra opinione umana, né si tratta di contrapporre a un’ideologia un’altra ideologia: si tratta piuttosto della necessità pastorale di non riconoscere come “teologica” una tesi che, quale che sia l’autorità scientifica (filosofica, esegetica, sociologica, psicologica, storiografica) di chi la propone, risulti basata su presunte verità umane e non sulle verità rivelate da Dio.
Un caso frequente di presunte verità umane che servono da premesse di false argomentazioni teologiche miranti a cambiare la dottrina della fede è la categoria immaginaria del cosiddetto “uomo di oggi”, categoria basata su superficiali analisi psicologiche o socioculturali che ignorano le sostanziali differenze tra la cultura occidentale e quella orientale o africana, e identifica ingenuamente l’uomo di oggi con le manifestazioni esteriori della coscienza umana quali sono elaborate dall’industria dei media. Le congetture circa ciò che dovrebbero essere le aspettative e le pretese del cosiddetto “uomo di oggi” non possono portare il teologo a ignorare quello che ha detto Cristo stesso, redentore dell’uomo, stabilendo i principi morali fondamentali sulla sessualità e sul matrimonio, principi che la Chiesa non può che considerare come assolutamente validi per gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.
Il secondo criterio logico è la distinzione che occorre sempre fare, in materia de fide et moribus, tra: (a) gli enunciati che costituiscono il “dogma”, da intendersi come l’essenza della verità rivelata, che resta immutabile anche nei suoi sviluppi omogenei, e (b) gli enunciati che costituiscono invece una possibile “interpretazione” del dogma stesso che l’autorità ecclesiastica ha fatto propria, inserendola in un testo del Magistero.
La distinzione comporta due diversi livelli di irriformabilità degli enunciati dogmatici e di immutabilità delle prescrizioni morali, ma non comporta diversi livelli di obbligatorietà nell’assenso dei fedeli; essa è comunque necessaria proprio perché il discernimento dei due diversi livelli epistemici consente di percepire l’unità e la continuità della Tradizione anche nel contesto storico dei continui mutamenti che si verificano nella vita della Chiesa.
Infatti, le verità che costituiscono gli “articuli fidei” in senso stretto, come oggetto primario di quell’atto di fede divina ed ecclesiastica che è necessario per appartenere alla Chiesa e avere la promessa della salvezza e la vita eterna, sono sempre insegnate esplicitamente dal Magistero come tali, tanto da essere tradizionalmente inserite come “simboli della fede” nella celebrazione eucaristica e provocare così il Popolo di Dio alla “professione di fede” comunitaria. Queste verità fondamentali (che io, per chiarezza logica, preferisco chiamare “nucleo dogmatico” della dottrina della fede) esprimono il contenuto esplicito e la formalizzazione magisteriale della Sacra Tradizione e della Sacra Scrittura, che formano un tutt’uno dal punto di vista epistemico, giacché è la Tradizione ecclesiastica che consegna ai fedeli la Sacra Scrittura, ne garantisce l’autenticità come Parola di Dio (con le note dell’ispirazione divina e dell’inerranza) e all’occorrenza ne interpreta autorevolmente il contenuto.
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