Forse anche oggi ci sentiamo “affaticati e oppressi” dalla stessa Parola di Dio alla quale non possiamo obbedire perché, come Esaù, “uomo della steppa”, abbiamo perduto la primogenitura della vita divina che, invece, ha acquistato Giacobbe, “uomo tranquillo che dimorava sotto le tende”. Quando, infatti, “Esaù arrivò sfinito dalla campagna”, di fronte alla minestra di lenticchie cotta dal fratello, pur di mangiare e ritemprarsi, non ci pensò due volte a vendere quanto di più caro avesse, la sua stessa identità e dignità: “Lasciami mangiare un pò di questa minestra rossa, perché io sono sfinito. Giacobbe disse: "Vendimi subito la tua primogenitura". Rispose Esaù: "Ecco sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?". Giacobbe allora disse: "Giuramelo subito". Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe. A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura”. Il Targum (traduzione in aramaico della Bibbia ebraica) ci rivela come l’Israele contemporaneo di Gesù comprendeva questo testo: “Esaù era estenuato perché aveva commesso, in quel giorno, cinque peccati: si era abbandonato all’idolatria, aveva versato sangue innocente, si era accostato a una giovane fidanzata, aveva negato la vita del mondo avvenire e aveva disprezzato il diritto di primogenitura” (Targum Pseudo Jonathan). Commenti rabbinici successivi hanno interpretato così questo pensiero di Esaù “ecco, sto per morire”: “Il significato semplice è che Esaù andava tutti i giorni per i campi a caccia di selvaggina, e metteva la sua vita in pericolo; quindi pensò: come faccio a sapere che erediterò da mio padre? Si può invece essere sicuri che tu (Giacobbe), seduto serenamente nella casa di studi, vivrai ed erediterai. A cosa mi serve la primogenitura?”. Ecco la stoccata finale del demonio! Dopo aver vagato e peccato molto, come un toro ormai sfinito, siamo preparati ad essere infilzati con un colpo secco che scende dritto fin dentro il cuore: che mi importa della vita eterna e del paradiso, ora sono “affaticato” e sto morendo sfinito accidenti! A che mi serve continuare ad andare in chiesa e partecipare alle liturgie? Mi sazierà ora che sono “oppresso” da mille problemi ascoltare, pregare e accostarmi ai sacramenti? E così, dopo una lunga serie di passi posati nella “steppa”, vendiamo per un piatto di lenticchie la nostra chiamata. Cadiamo nella trappola del demonio come accadde ad Esaù che, vedendo quelle lenticchie “rosse” come i suoi capelli credette fossero proprio quelle ciò che avrebbe potuto saziarlo, l’unico cibo adeguato a lui. Come lo sono per noi il farci giustizia, serbare un rancore e rifiutare il perdono, chiuderci alla vita e molte altre attitudini che ci sembrano dare “ristoro” alle nostre forze e “riposo” alle nostre anime inquiete. E invece sperimentiamo il vuoto assoluto e la morte interiore perché abbiamo “imparato” dal maestro della menzogna che ci ha insegnato a disprezzare l’amore e la Grazia con la quale il Padre ci ha creati come i suoi primogeniti. Ventiquattro ore al giorno per 365 giorni all'anno infatti, una voce fastidiosa ma così suadente ci ripete: no! Perché devi obbedire, piegarti, sottometterti al giogo e servire? E' un vero e proprio stress. La ascoltiamo, e soccombiamo, perché in fondo va a toccare sempre i nervi scoperti dalle piccole e grandi ingiustizie che subiamo o crediamo di subire: la frecciata insolente, lo sguardo ironico, il letto dei bambini da rifare mentre stai già per uscire, il dentista sadico, o l'amministratore di condominio che ti viene a chiedere i soldi giusto quando avevi dimenticato la sua esistenza e già stavi pensando di cambiare finalmente il frigorifero. L'orgoglio ci ha gettato fuori di casa, e, come il figlio prodigo, ci siamo inselvatichiti. Per noi esistono ormai solo i bisogni primari, mangiare, bere, dormire, fare sesso e soddisfare tutto ciò che, istintivamente, stuzzica la carne. Vaghiamo lontano, proprio come animali allo stato brado: cerchiamo nutrimento ovunque, e non ci rendiamo conto che stiamo rovistando tra i rifiuti, incapaci di ascoltare e obbedire.
Gesù sa che siamo morti dentro e che per questo la Legge non può salvarci, anzi, essa diventa per lui un giogo insopportabile. Non ti meravigliare dunque se tuo figlio sembra uno yeti, incapace di stare fermo, ascoltare e obbedire: è inutile ripetergli come un mantra la lista dei doveri che neanche tu puoi adempire. Abbiamo tutti bisogno di ascoltare una voce che abbia il potere di destarci dal sonno della morte, di farci rientrare in noi stessi, ci rialzi per fare ritorno a casa, il luogo dove imparare a custodire e a vivere la nostra primogenitura. Abbiamo bisogno ogni giorno di ascoltare la voce del Maestro buono che ha il potere di far tacere quella del cattivo maestro. Il “giogo” della Torah, che non a caso significa “insegnamento”, si fa leggero e dolce solo portandolo con Cristo: saremo liberi dal “giogo del regno terreno e dal giogo delle occupazioni mondane” (Avot III,5) solo "imparando" da Lui nella Chiesa, la casa dove la ascoltare la Torah con la quale Dio si è legato a noi come già a Israele, e dove, passo dopo passo, sperimentare come Lui la incarni e la compia in noi. L'umiltà e la mitezza, infatti, si "ascoltano" nella storia. Per questo oggi Gesù ci dice di “imparare da Lui” che è “mite e umile di cuore”. Etimologicamente, la “mansuetudine” o mitezza è la caratteristica dell'animale “ammansito” perché sia docile nel sottoporsi al giogo. La carne di Gesù è l’unica “domata” perché ha "imparato ad obbedire dalle cose che ha patito”. Per questo Gesù non ci impone nulla, non insegna dall'alto della sicumera. Il cuore “umile” di Gesù ha “umiliato” la sua carne per deporla accanto alla nostra, senza scandalizzarsi della nostra, schiava della superbia."Imparate da me": il termine adottato rimanda a un rapporto, a una relazione profonda, quella tra Didaskalo e Discepolo. “Imparare” dunque è la coniugazione di un'intimità. E' conoscersi, secondo l’etimologia biblica del termine; è donare e ricevere, è amare nell'amore con cui si è amati. E’, ad ogni passo, “nascere con” Cristo come creature nuove dal suo fianco squarciato per amore nelle viscere di misericordia della Chiesa. E’ camminare sulle sue orme, dove e come Lui ha imparato, ovvero dalle cose che patì. Per questo ci invita a “prendere su di noi il suo giogo”, la Torah che proprio su di esso Egli ha compiuto. La sua carne accanto alla nostra per abbracciarci e accoglierci sulla Croce che distrugge il peccato e ci rende “miti e umili di cuore”. La Croce con la quale ci ammaestra, infatti, ha le nostre misure: è adatta a tutte le manifestazioni del nostro orgoglio, parole, progetti, schemi, atteggiamenti, per potarle dolcemente nel suo amore. Se Lui è accanto a noi portando il giogo con noi, significa che ogni passo che faremo sarà immerso nella misericordia e nell'amore. La Croce è l'unica scuola adatta a noi; ciò che ci umilia e ci sembra assurdo e inaccettabile nella nostra vita è l'unico “giogo” adeguato a noi, per mezzo del quale imparare l'obbedienza, unica porta al vero “riposo”. Diversamente saremo sempre assaliti da scrupoli e dubbi. Chi non obbedisce non è mai certo di fare la cosa giusta, perché solo chi obbedisce ama. Il “suo giogo” abbassato anche oggi sul nostro collo è “leggero e soave” perché solo in esso troviamo la nostra realizzazione che è compiere la volontà di Dio, l'unica pace. Abbracciati da Cristo sapremo distendere liberi le nostre braccia per la moglie, il marito, i figli e per ogni uomo. E’ nella nostra vita concreta, infatti, che Gesù viene a farsi carne. Per questo, l’Avvento ci chiama a offrire il “giogo” di Gesù a chi ci è accanto, scendendo ovunque si trovi, per adattarlo alle sue misure. A “imparare” da Gesù nell’intimità della comunità cristiana per uscire con Lui da noi stessi e donarci all’altro. Come il Cireneo porteremo la Croce con Cristo. Forse inconsapevoli, ma aggrappati alla sua Croce; mentre crediamo di portarla scopriremo che è proprio essa a portarci alla pace e al riposo
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