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sabato 3 dicembre 2016

San Francesco Saverio.





In Navarra, nel castello della famiglia Xavier, il 7 aprile 1506 nasce il quinto e ultimo figlio di Giovanni de Jassu e di Maria de Azpilcueta. Si chiama Francesco. Arrivato a diciotto anni, è un giovanotto atletico, di forte temperamento e dotato di un certo fascino. Ottiene buoni risultati nello studio e così la famiglia decide - pur con mille sacrifici - di mandarlo a frequentare l’università più autorevole del tempo, quella di Parigi.Il giovane navarrino arriva nel 1525 a Parigi, che è un focolaio delle nuove idee riformatrici e contestatrici. E si trova subito a gravitare attorno a tali ambienti.In questi anni la Chiesa è al centro di un ciclone. Adriano VI, che fu papa mentre la bomba protestante stava esplodendo e stava devastando la Chiesa, scrisse: «Noi sappiamo bene che anche in questa Santa Sede, fino ad alcuni anni or sono, sono accadute cose abbominevolissime». Le condizioni della cristianità appaiono gravi. E d’altronde certi rigoristi che lamentano la dilagante corruzione ecclesiastica (intellettuali umanisti impregnati di culture neopagane) rappresentano evidentemente per la Chiesa una sciagura ben più grande di quella che si suole vedere in papati come quello del Borgia.Eppure oggi, a distanza di quasi cinque secoli, sappiamo che anche in quella situazione, che a uno sguardo puramente umano poteva sembrare disperata per le sorti del cristianesimo, erano presenti piccoli "semi" da cui si sarebbe sprigionata una rinascita cristiana stupefacente, una sorta di nuovo inizio.Ma un osservatore che avesse attraversato la cristianità in quegli anni dove avrebbe dovuto guardare per vedere quei semi?Un osservatore che si fosse trovato nella cripta della piccola chiesa di Montmartre, a Parigi, il 15 agosto 1534, avrebbe visto una scena del tutto normale: sette uomini che parlavano fra loro. Niente di speciale. Se non il motivo del loro convenire, che traspariva dal loro comportamento. Un casuale osservatore sarebbe rimasto incuriosito dalle loro facce che mostravano una determinazione, un’intensità e una sorta di unità d’intenti inconsuete: si sarebbe detto - a guardarli bene - che fossero molto legati l’uno all’altro. Inusuale - a voler capire fino in fondo il mistero che li univa e li aveva fatti convenire lì - era quello che si stavano dicendo. 

Quei sette "compagni" stavano pronunciando una specie di voto, s’impegnavano a servire Gesù Cristo in castità e povertà, ad andare in pellegrinaggio in Terra Santa o - se non fosse stato possibile - ad andare a Roma mettendosi a disposizione totale del Papa. Era il giorno dell’Assunta. Questo gruppo di sette uomini si chiamerà Compagnia di Gesù. Resta un interrogativo storico irrisolto perché contro questi uomini disarmati si siano poi coalizzati e scatenati i più formidabili poteri, anche occulti, politici ed economici del mondo. Che cosa trovarono in loro di così minaccioso re, governi, corti, imperi finanziari e lobbies commerciali?Forse quella loro "unità", che neanche le migliori compagnie di ventura conoscevano? O la loro audacia? O la capacità (politica?) di farsi stimare e aiutare da singoli personaggi potenti che da loro rimanevano colpiti?Francesco Saverio, che avevamo lasciato a Parigi, dov’era appena arrivato nel 1525, lo ritroviamo il 15 agosto 1534 proprio in questa cripta parigina: è uno dei sette compagni. Com’è finito lì? Che cosa è accaduto nel corso di questi nove anni di tanto speciale da aver toccato una vita che sembrava dover anticipare quella di un Voltaire, di un Casanova o di un D’Artagnan?Francesco, da studente, alloggiava nel collegio di Santa Barbara. Suo compagno di camera e di studi è un giovane della Savoia, Pietro Favre. Francesco è esuberante e coltiva grandi ambizioni. Pietro, suo coetaneo, ha un carattere buono e paziente. Diventano subito amici. E come accade di solito in questi casi le conoscenze dell’uno si comunicano all’altro.Pietro un giorno presenta a Francesco un suo amico, uno studente per la verità abbastanza particolare, perché è sulla quarantina: oggi si direbbe un fuori corso. Si chiama Ignazio, ha un volto magro e un passo vistosamente claudicante. Prima infatti faceva il soldato: durante l’assedio di Pamplona si è preso una palla di cannone sulla gamba e adesso ne porta le conseguenze.Ignazio esercita un certo ascendente su Pietro e su molti altri studenti. Francesco, che intanto nel 1530 ha preso il diploma di maestro e ha cominciato a insegnare, è dapprima scontroso e diffidente. Con lui è «duro e difficoltoso», forse proprio perché sente sempre più forte la curiosità e l’attrazione nei confronti di una personalità potente come quella di Ignazio. A poco a poco cambierà.Ignazio, che ne capisce il carattere audace e le grandi ambizioni, lo vincerà definitivamente ripetendogli una frase del Vangelo: «Che giova all’uomo conquistare il mondo intero se poi perde se stesso?». 

Da qui comincia la conversione di Francesco, cioè la sua adesione alla compagnia di Ignazio, di Pietro e degli altri convenuti quel 15 agosto nella cappella di Montmartre.Francesco ha 28 anni. Ancora vivente diventerà una leggenda. Non perché cercò l’avventura. Ma perché visse l’obbedienza cercando di far sue la fede, la speranza e la carità di Ignazio. Prima servendo per tre anni insieme ai compagni negli ambienti fetidi delle prigioni e degli ospedali del tempo. Poi a Roma, facendo il segretario di Ignazio, Generale della Compagnia.E infine partendo, nel volgere di ventiquattro ore, da Roma, per sempre, verso gli estremi confini del mondo perché richiestogli da Ignazio. Era accaduto che nel 1539 il re del Portogallo aveva chiesto sei gesuiti per le Indie orientali. Ignazio aveva risposto: «Signor ambasciatore, se su dieci ne partono sei, per il resto del mondo che cosa rimarrà?».Ne manda due. Ma accade l’imprevisto. Uno dei due muore arrivando a Lisbona, l’altro arriva solo alla vigilia della partenza, oltretutto con un terribile attacco di sciatica. Così all’ultimo momento Ignazio chiama Francesco e gli dice: «Non può partire nessuno, Francesco, devi andare tu». Il Saverio non ha incertezze, in pochi minuti raccoglie le sue povere cose e parte per sempre, sapendo (lo scrive nella sua prima missiva) «che in questa vita ci "vedremo" ormai solo per lettera». Un giovane addetto all’ambasciata, fino ad allora dedito alla dolce vita di corte, colpito da Francesco confessò: «Per la prima volta in vita mia compresi che cosa vuol dire essere un cristiano». 

Come un conquistatore disarmato dominerà gli eventi. Sia quando si trova con il mal di mare sulle navi della peggiore feccia. Sia fra i poverissimi pescatori di perle del Paravar, di Ceylon o della Malacca. Sia in guerra con i pirati, e ancor più con mille malattie e morbi tropicali, con la fame e la sete, con le autorità portoghesi, alle prese con mercanti e negrieri senza scrupoli. Intento a battezzare bambini e adulti, a migliaia per volta. A radicare le sue missioni impiantando scuole, collegi, organizzando ospedali, imparando decine di strane lingue… Attraversa tutti i mari, verso Giava, il Borneo, le Isole del Moro, poi su su verso Formosa, passando dalle feroci tribù dei tagliatori di teste alla raffinata civiltà giapponese che per primo racconterà agli europei. Fa tre volte naufragio, sfugge a decine di attentati, ai musulmani, talvolta nascosto nella foresta.Migliaia e migliaia di chilometri in nave, stringendo amicizie con mercanti e gente di tutti i tipi per far conoscere Gesù Cristo. Ai suoi amici scriveva: «Vivere senza godere di Dio non sarebbe una vita, ma una morte continua».E nel gennaio 1552, alla fine di questa incredibile avventura durata dieci anni, annotò: «Mi sembra veramente di poter dire che nella mia vita non ho mai ricevuto tanta gioia e allegrezza».Un giornalista francese, Jean Lacouture, ha scritto un libro, dove racconta l’audacia dei gesuiti. Lacouture ha dichiarato: «Sì, hanno scelto la vita, con tutti i suoi compromessi. […] Hanno scelto di andare nel mondo per insegnare il Vangelo, di affrontare il quotidiano, con quanto implica di tragico, di corrotto, di menzognero». 
Da dove nasce tanta audacia? Francesco continuamente tiene presente il ricordo struggente dei volti degli amici che si confondono con il volto e il nome di Gesù Cristo. Non fa che ricordarli, chiede a Ignazio che gli scriva «una lettera così lunga che io impieghi tre giorni a leggerla». Vuole sapere tutto di tutti i compagni. Notte e giorno pensa a loro, parla di loro, scrive loro e il suo cuore s’infiamma, la sua gratitudine arriva alle lacrime. Quando muore, a 46 anni, dentro una capanna di foglie, sull’Isola di Sancian, davanti alla Cina (dove voleva arrivare), nella notte del 2 dicembre 1552, sembra avere solo la compagnia di un crocifisso e di un cinese che aveva convertito e che doveva fargli da interprete. Ma si scoprirà al suo collo un piccolo contenitore: dentro c’era una reliquia dell’apostolo san Tommaso, la formula della sua professione e le firme autografe dei suoi amici ritagliate dalle loro lettere. Non erano lontani. Li aveva sul suo cuore.
Antonio Socci

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