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martedì 27 dicembre 2016

I martiri segnano la fine del paganesimo

di Giovanni Fighera                                      27-12-2016

Il martirio di Santo Stefano
Il martirio di Santo Stefano
Un’epoca nuova si apre con la buona novella di Cristo, un messaggio di salvezza per tutti, non più solo per il popolo eletto, non più per il trionfatore e il vincitore, non per quanti si sono messi in rilievo nell’esercizio dell’attività politica, ma per tutti coloro che hanno accolto il Regno di Dio, cioè Cristo stesso. Il centuplo quaggiù e l’eternità sono il premio per coloro che perdono se stessi per seguire Gesù o, in altre parole, ritrovano pienamente se stessi, si scoprono pienamente uomini, perché hanno incontrato ciò che il loro cuore ha sempre desiderato.
Il martire è il testimone (questo significa la parola greca) del messaggio di salvezza, della morte e della resurrezione di Cristo. Martiri sono quanti, nei secoli, hanno accolto l’invito di Gesù e hanno testimoniato l’amore nella vita  e nelle opere prima ancora che con la predicazione. Il martirio (cioè testimonianza) fu spesso accolto fino al sacrificio della morte, fin dai primi secoli dell’era cristiana quando era proibito professare pubblicamente la fede in Cristo. Dal primo martire della storia cristiana, santo Stefano, agli Apostoli, morti secondo la tradizione nell’ardore della predicazione del Vangelo, alle migliaia di martiri dei nostri decenni il sangue dei cristiani, come scrive Tertulliano nel III secolo, è seme, cioè la professione dei fedeli fino alla morte è segno per molti dell’autenticità della loro fede ed è già espressione della vittoria di Cristo sulla morte.
Negli Atti di santa Felicita e Perpetua Felicita viene accusata di essere cristiana sotto l’imperatore Settimio Severo e le
viene chiesto di abiurare la propria fede. Anche il padre le mostra il figlio appena nato e le chiede l’apostasia. Ma Felicita rimane fedele a Cristo. Il 7 marzo del 211 viene condannata a morire nel circo, assieme ad altri cristiani, colpevoli di aver professato la loro fede nel Signore. La morte non è l’ultima parola. Una nuova vita si apre per quanti credono in Cristo già su questa Terra e, poi, nell’aldilà. Per questo il santo è celebrato nella tradizione cristiana nel suo dies natalis, il giorno della morte terrena e della nascita alla nuova vita in Cielo.
Nella visione medioevale l’uomo è un peccatore che dipende da Dio. Questo svelerà il santo eremita nel Perceval di Chrétien de Troyes o, se vogliamo, con definizione altrettanto felice, un «nulla capace di Dio», secondo la bellissima espressione del romanziere e saggista francese Daniel Rops. Tanta letteratura successiva al Medioevo ha diffuso lo stereotipo secondo il quale nell’epoca medioevale l’uomo fosse in secondo piano, schiacciato e oppresso dalla divinità e solo il Rinascimento avrebbe scoperto il valore centrale dell’uomo, lo avrebbe riposizionato al centro del cosmo.
A sfatare questo pregiudizio infausto sul Medioevo ci soccorre una miniatura di santa Ildegarda di 0. Bingen, realizzata nel 1163. Inscritta in una Terra compare la figura di un uomo, circondato da Dio con il suo abbraccio misericordioso. Evidente è la somiglianza con l’uomo vitruviano realizzato da Leonardo da Vinci più di trecento anni più tardi (ca 1490). Anche lì un uomo è iscritto in una circonferenza, ma è scomparsa la presenza di Dio. Questo è il cambiamento epocale tra Medioevo e Rinascimento: non tanto l’introduzione della centralità dell’uomo, fatto già pienamente riconosciuto nel Medioevo cristiano, quanto la scomparsa della pertinenza di Dio con le vicende umane. Cerchiamo di chiarire meglio questa affermazione. L’uomo medioevale concepisce ciò che accade in rapporto con la dimensione ultraterrena, con il Mistero, con l’Infinito, in una prospettiva escatologica. Se pecca, ha coscienza, così, di aver peccato.
La coscienza del peccato può esistere solo in una civiltà che coglie e percepisce la presenza del Mistero. L’uomo medioevale non è meno peccatore dell’uomo delle altre epoche, ma ha più chiara la consapevolezza di esserlo e di aspettare la propria salvezza da un Altro. Quest’Altro è quel Dio che si è incarnato e a cui noi siamo guidati attraverso la compagnia della Chiesa, che risollecita e mantiene sempre sveglia la nostra domanda religiosa. Il termine «mendicanza» ben descrive l’atteggiamento di umile richiesta di aiuto nella consapevolezza della pochezza della capacità umana e della necessità che sia Dio a soccorrerci e salvarci. Per questo l’uomo cresce in un percorso guidato, in una compagnia. Il pellegrinaggio ben rappresenta l’immagine dell’homo viator, del viandante che si affida ad una guida e a un maestro, mentre il termine «avventura» descrive appropriatamente la dimensione di scoperta del mistero nella realtà. «Advenio» significa in latino «mi imbatto in», «incontro», «trovo qualcosa sulla strada, lungo il cammino». La vita dell’uomo, ne è ben consapevole l’uomo medioevale, è irta di avventure, di imprevisti, di irruzione sorprendente del soprannaturale e del Mistero nella realtà.
Perceval è uno dei tanti cavalieri le cui gesta sono state  esaltate nei poemi avventurosi e cavallereschi. Chrétien de Troyes dedica attenzione nei suoi romanzi anche a Tristano, a Lancillotto e a Erec, mescolando duelli  e avventure pericolose, fedeltà al signore e tradimenti, amori infelici e storie matrimoniali.
Nella produzione d’oil accanto alla figura di Perceval si distingue il personaggio di Orlando, uno dei miti fondanti della cultura medioevale, immortalato per la prima volta nella Chanson de Roland (la cui versione scritta è risalente all’XI secolo) e ripreso poi in chiave parodistica e grottesca in epoca rinascimentale. Il valoroso paladino di Carlo Magno muore sui Pirenei, in seguito ad un’imboscata ordita dal traditore Gano. In maniera impavida combatte rifiutandosi di suonare l’olifante fino all’ultimo. Prima di esalare l’ultimo respiro «recita il suo Mea culpa e chiede a Dio mercé:/ «Verace Padre, che mai non mentisti,/ san Lazzaro dai morti resuscitasti/ e Daniele dai leoni salvasti,/ salva la mia anima da tutti i pericoli/ dei peccati che in vita mia feci!». Mendicanza umile e cosciente della propria miseria è quella che mostra il prode Orlando, non un eroe che si salva con le proprie azioni, ma un cavaliere che, commosso, riconosce il proprio male e prega perché la misericordia di Dio lo salvi. 

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