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sabato 3 dicembre 2016

S. Francesco Saverio. La lettera più bella. (Lettera n. 90)





È questa la prima, grande lettera che il Saverio spedisce ai Compagni di Goa dopo il suo arrivo in Giappone, avvenuto a Kagoshima il 15 agosto 1549. Il Santo era partito da Malacca il 24 giugno 1549 in compagnia del padre Cosma de Torres, del fratello coadiutore Giovanni Femandez e di tre giapponesi fra i quali era Paolo di Santa Fé (vale a dire il samurai Anjirò) che, essendo nativo di Kagoshima, gli sarà adesso insostituibile compagno e prezioso interprete. Il viaggio non è stato facile e nella prima parte della lettera il Saverio descrive le disavventure occorsegli sulla giunca cinese, il cui poco raccomandabile capitano minacciava di tornare indietro qualora non fossero stati favorevoli i responsi di un idolo, situato a poppa della scomoda imbarcazione e decisamente aborrito dal Santo. Adesso finalmente il suolo giapponese è raggiunto da neanche tre mesi e ilSanto è già in grado di fornire le prime, vivaci impressioni su questo paese del tutto sconosciuto fino a pochi anni prima. In effetti dell'Arcipelago giapponese, indicato col nome di Zipagu (o Cipangu), aveva parlato, in termini quasi fiabeschi e solo per sentito dire, il celebre Marco Polo nel capitolo 142 del suo libro «II Milione». Fu soltanto nel 1542 che i portoghesi giunsero alle isole Ryùkyù e, nell'anno successivo, sbarcarono per la prima volta nella parte meridionale del Giappone.
Tocca ora al Saverio il compito di fornire la prima, dettagliata descrizione, destinata all'Occidente, di questo mondo giapponese cosi nuovo e diverso da tutto quanto aveva visto finora. Tra l'altro è interessante notare che è stato proprio il Saverio il primo ad adoperare e a far conoscere la parola «bonzo». Comunque la prima impressione è nel complesso favorevole e il Giappone appare al Santo come la migliore delle tene finora scoperte: merito soprattutto della gente che è senz 'altro cortese, di buona conversazione, molto onesta e non maliziosa e soprattutto amante delle armi e del proprio onore. Vi sono differenze di casta, ma in compenso è gente che in genere sa leggere e scrivere ed è piena di interesse per le cose di Dio che il Saverio e i suoi compagni sono pronti ad insegnare. Vi sono anche i bonzi, è vero, e questi non sembrano promettere niente di buono perché vivono nei loro monasteri in strana promiscuità con monache e ragazzi. Il Saverio rimane infatti molto stupito nel vedere che anche i peggiori peccati contro natura non sono tenuti in alcun conto e che la condotta di vita dei laici è senz'altro migliore di quella dei bonza. Vi è però qualche fortunata eccezione, come il caso dell'anziano e venerato bonzo Ninjitsu che, nonostante i suoi dubbi sull'immortalità dell'anima, viene chiamato «amico mio» dal Santo. Inoltre le accoglienze della popolazione e delle persone più influenti di Kagoshima sono più che buone e lo stesso «duca» della città si mostra particolarmente benevolo e interessato verso gli straordinarì pellegrini. In un primo momento il «duca» non ha nemmeno impedito le conversioni dei suoi sudditi al cristianesimo, le quali erano cominciate subito con la conversione di tutti i parenti e gli amici di Anjiró. Il Saverio, intanto, si è immediatamente informato circa le principali Università del Giappone e, nell'attesa dei venti favorevoli per recarsi all'Università di Miyako (Kyóto), si rende conto della necessità di apprendere la lingua e di far tradune in giapponese i testi essenziali per la conoscenza della religione cristiana.

Tutte queste prime e appassionanti notizie sul Giappone sono inserite in un ampio contesto di considerazioni e di riflessioni di ordine spirituale, le quali devono servire a spronare i deboli e i pusillanimi e a incoraggiare i futuri missionari, ma in pari tempo aprono un largo spiraglio su quelle che possono essere le grazie concesse a chi, sentendo fino in fondo la propria nullità, ripone in Dio ogni sua fiducia e speranza. «Io conosco una persona — dice ad un certo punto il Saverio parlando chiaramente di se stesso — alla quale il Signore ha concesso molte grazie», ma poi preferisce sorvolare e, da vero figlio di sant'lgnazio, finisce col concludere che «vivere in questa vita così travagliata senza godere Dio, non è una vita, ma una morte continua» (par. 26). Per ben servire Dio occorre inoltre essere obbedienti: «nessuno pensi di segnalarsi nelle cose grandi se prima non si segnala nelle cose piccole!» esclama il Santo (par. 34) e subito dopo mette in guardia tutti coloro, che dal collegio di Coimbra verranno in India, di non cadere in tutti quegli eccessivi «fervori» di fare solo cose grandi e difficili, perché non si tratta di «fervori», ma di autentìche tentazioni (par. 35). Da parte sua il Saverio appare profondamente convinto che la sua venuta in Giappone sia davvero una grande grazia concessagli dal Signore e desidera che i Compagni lontani lo aiutino a ringraziare la bontà divina per un dono così immenso.
Circa le vicende di questa importante lettera, occorre aggiungere che il Saverio era stato scortato in Giappone dal portoghese Domenico Diaz il quale il 5 novembre 1549 ripartì da Kagoshima recando le prime quattro lettere saveriane. Tuttavia la giunca, il cui capitano era morto in Giappone, impiegò ben sei mesi per arrivare a Malacca, dove però la bella notizia del felice arrivo del Santo in Giappone era stata portata già da tempo da alcuni mercanti cinesi. Fu cosi che sin dalla fine di gennaio del 1550 l'ottimo padre Pérez aveva potuto comunicare a Roma il lieto annuncio riguardante il Saverio. Quando poi la lettera arrivò a Malacca, il padre Pérez ne fece fare subito due copie per i Compagni di Europa che le attendevano con ansia. Il testo saveriano ebbe così un'enorme diffusione e, a partire dal 1552, se ne stamparono diverse edizioni, spesso in forma ridotta.

(Traduzione dallo spagnolo secondo una copia scritta a Malacca nel 1550. Edizione Schurhammer, n. 90).

Jesus

La grazia e l'amore di Cristo Nostro Signore sia sempre in nostro aiuto e favore. Amen.

1. Da Malacca vi scrissi molto a lungo circa tutto il nostro viaggio, da quando siamo partiti dall'India fino all'arrivo a Malacca e quello che abbiamo fatto durante il tempo che siamo stati laggiù *. Ora vi faccio sapere in qual modo Dio nostro Signore, per la sua infinita misericordia, ci condusse in Giappone. Il giorno di San Giovanni2 dell'anno 1549, di pomeriggio, ci imbarcammo a Malacca per venire in questi luoghi, sulla nave di un mercante pagano cinese * il quale si era offerto al capitano di Malacca per portarci in Giappone; dopo partiti, avendoci concesso Diomolta grazia nel darci buonissimi il tempo e il vento, tuttavia poiché fra i pagani regna molto l'incostanza, il capitano cominciò a mutare parere nel non voler più venire in Giappone, fermandosi senza necessità nelle isole che trovavamo.

2. Ma ciò per cui più soffrivamo nel nostro viaggio erano due cose: la prima, vedere che non approfittavano del buon tempo e vento che Dio nostro Signore ci dava e che, se ci finiva il monsone per venire in Giappone, eravamo costretti ad attendere un anno, svernando nella Cina, nell'attesa dell'altro monsone; e la seconda erano le continue e molte idolatrie e i sacrifici che, senza poterlo impedire, facevano il capitano e i pagani all'idolo che portavano sulla nave, mentre tiravano molte volte a sorte e gli chiedevano se potevamo o no andare in Giappone e se ci sarebbero durati i venti necessari per la nostra navigazione: certe volte le sorti uscivano bene, a volte cattive, secondo quello che essi ci dicevano e credevano.

3. A cento leghe da Malacca, sulla strada della Cina, approdammo in un'isola nella quale ci rifornimmo di timoni e di altro legname necessario per le grandi tempeste e i mari della Cina. Fatto questo, tirarono le sorti, facendo prima molti sacrifici e feste all'idolo, adorandolo molte volte e chiedendogli se avremmo avuto buon vento oppure no, e venne fuori la sorte che avremmo avuto buon tempo e che non aspettassimo oltre. Cosi salpammo e sciogliemmo la vela tutti quanti con molta allegria: i pagani confidando nell'idolo che portavano con grande venerazione sulla poppa della nave con candele accese, profumandolo con effluvi di legno di «aguila» (L'«aguila» era u come incenso. in legno odoroso, proveniente dalla Cochinchina) e noialtri confidando in Dio, creatore del ciclo e della terra, e in Gesù Cristo, suo Figlio, per il cui amore e servizio venivamo in questi luoghi onde accrescere la Sua santissima fede.

4. Durante il nostro viaggio cominciarono i pagani a tirare le sorti e a fare domande all'idolo se la nave, con cui andavamo, sarebbe tornata dal Giappone a Malacca: usci il responso che sarebbe andata in Giappone, ma che non sarebbe ritornata a Malacca. E allora entrò in essi la sfiducia e non volevano andare in Giappone, ma piuttosto svernare nella Cina e aspettare un altro anno. Vedete lo sforzo che dovevamo sopportare in questa navigazione, dovendo sottostare al parere del demonio e dei suoi servi se dovevamo o no venire in Giappone, poiché coloro che guidavano e governavano la nave non facevano niente più di quello che il demonio diceva loro con i suoi responsi.

5. Procedendo adagio il nostro viaggio prima di arrivare in Cina, essendo vicini ad una terra che si chiama Cochinchina ', la quale è già vicino alla Cina, ci accaddero due disastri in un giorno, alla vigilia della Maddalena 6. Essendo il mare grosso e in grande tempesta, mentre eravamo ancorati, capitò, per una distrazione, che la stiva della nave rimanesse aperta mentre Manuel il cinese, nostro compagno, passava vicino ad essa; e al grande rullio che diede la nave a causa del mare che era agitato, non potendosi egli tenere, cadde giù nella stiva. Tutti pensavamo che fosse morto per la grande caduta che fece e anche per la molta acqua che era nella stiva. Dio nostro Signore non volle che morisse. Egli stette per un gran spazio di tempo con la testa e pili della metà del corpo sotto l'acqua, e per molti giorni fu sofferente al capo per una grande ferita che si fece, di modo che lo tirammo fuori con molta fatica dalla stiva ed egli non riprese i sensi per lungo tempo. Dio nostro Signore volle ridargli la salute. Mentre finivamo di curarlo e continuava la grande burrasca che c'era, essendo molto agitata la nave accadde che una figlia del capitano cadesse in mare. Poiché il mare era tanto infuriato noi non potemmo aiutarla e cosi, alla presenza di suo padre e di tutti, affogò vicino alla nave. Furono tanti i pianti e i lamenti in quel giorno e [quella] notte, che era una pena grandissima vedere tanto travaglio nelle anime dei pagani, e il pericolo per la vita di tutti noi che stavamo su quella nave. Passato ciò, senza riposare tutto quel giorno e la notte, i pagani fecero grandi sacrifici e feste all'idolo, ammazzando molti uccelli e offrendogli da mangiare e da bere. Quando tirarono gli oracoli gli chiesero il motivo per cui era morta la figlia [del capitano]: usci il responso che non sarebbe né morta né caduta in mare se fosse morto il nostro Manuel che era caduto nella stiva.

6. Vedete da che dipendevano le nostre vite: nei responsi dei demoni e nel potere dei suoi servi e ministri. Che sarebbe stato di noialtri se Dio avesse permesso al demonio di farci tutto il male che desiderava? Nel vedere le offese cosi grandi e palesi che con la devozione a tante idolatrie si facevano a Dio nostro Signore e non avendo possibilità di impedirle, molte volte io chiesi a Dio nostro Signore, prima che noi ci trovassimoin quella tormenta, di concederci la grazia particolarissima di non permettere tanti errori nelle creature che formò a sua immagine e somiglianzà; oppure, se li permetteva, che aumentasse al diavolo, cagione di queste stregonerie e idolatrie, grandi pene e tormenti maggiori di quelli che aveva, ogniqualvolta incitava e persuadeva il capitano a tirare le sorti e a credere in esse, facendosi adorare come Dio.

7. Nel giorno che ci accaddero questi disastri e per tutta quella notte, Dio nostro Signore volle farmi tanta grazia da volermi far sentire e conoscere per esperienza molte cose circa i terribili e spaventosi timori che il demonio suscita, quando Dio lo permette, ed egli trova molte occasioni per farli, e circa i rimedi che l'uomo deve usare quando si trova in simili difficoltà contro le tentazioni del nemico: essendo queste troppo lunghe da raccontare, tralascio di scriverle, e non perché esse non siano notevoli. Alla fin dei conti il miglior rimedio, durante questi momenti, è di mostrare di fronte al nemico un coraggio assai grande, diffidando completamente di sé e fidano moltissimo in Dio, riponendo in Lui tutta la forza e la speranza, e, con un tale difensore e protettore, ognuno deve guardarsi dal mostrare viltà, non dubitando di riuscire vincitore. Molte volte pensai che, se Dio nostro Signore aumentò al demonio alcune pene, maggiori di quelle che aveva, questi si volle ben vendicare durante quel giorno e quella notte, poiché molte volte mi si poneva davanti, dicendomi che eravamo giunti al momento in cui si sarebbe vendicato.

8. E siccome il demonio non può mal fare più di quanto Dio conceda in tali momenti, si deve temere più per la sfiducia in Dio che non per il timore del nemico. Dio permette al demonio di affliggere e tormentare quelle creature che, da pusillanimi, cessano di confidare nel loro Creatore e non attingono forza nello sperare in Lui. Per questo male tanto grande della pusillanimità, molti di coloro che hanno cominciato col servire Dio, vivono desolati per non andare avanti, portando con perseveranza la soave croce di Cristo. La pusillanimità ha questa disgrazia tanto pericolosa e dannosa che, come l'uomo si dispone al poco e confida in sé trattandosi di una cosa tanto piccola, quando, invece si trova ad aver bisogno di maggiori forze di quelle che ha ed è costretto a confidare interamente in Dio, nelle cose grandi manca di coraggio in modo da non usare bene la grazia che Dio nostro Signore gli da per sperare in lui. Inoltre coloro che si ritengono qualcosa, facendo assegnamento su loro stessi più di quanto non valgano, disprezzando le cose umili senza essersi molto esercitati e avvantaggiati vincendosi in esse, sono più deboli dei pusillanimi durante i grandi pericoli e travagli perché, non portando a termine quello che avevano cominciato, perdono il caraggio per le piccole cose allo stesso modo con cui lo avevano perduto per le grandi.

9. E dopo sentono in sé tanta ripugnanza e vergogna ad esercitarsi in esse, che corrono gran pericolo di perdersi oppure di vivere desolati, non riconoscendo in sé le loro debolezze, che attribuiscono alla croce di Cristo, dicendo che è faticosa da portare avanti. O fratelli, che sarà di noialtri nell'ora della morte se nella vita non ci prepariamo e ci disponiamo a saper sperare e confidare in Dio, dato che in quell'ora noi ci troveremo in tentazioni, travagli e pericoli in cui non ci siamo mai visti, tanto dello spirito come del corpo? Pertanto, nelle cose piccole, coloro che vivono col desiderio di servire Dio, si devono impegnare nell'umiliarsi molto, sconfiggendo sempre se stessi, ponendo un grande e solido fondamento in Dio, affinchè nei grandi travagli e pericoli, tanto della vita come della morte, sappiano sperare nella somma bontà e misericordia del loro Creatore. Tutto ciò lo hanno appreso nel vincere le tentazioni nelle quali, per piccole che fossero, trovavano ripugnanza e diffidando di sé con molta umiltà e fortificando i loro animi avendo confidato molto in Dio, poiché nessuno è debole quando adopera bene la grazia che Dio nostro Signore gli da.

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