UNA RIFLESSIONE SUL MODERNISMO, NEI NOSTRI TEMPI DI VACCHE MAGRE
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il modernismo, oggi più che mai si sposa col più confusionario sincretismo, il quale, strombazzato da abili impostori, che sanno renderlo venerabile alle folle degli sprovveduti, va a mettere assieme e a raccattare in filosofia e teologia, nel più assoluto disprezzo del principio di non-contraddizione, magari con la scusa della dialettica, le più strampalate ed assurde teorie, che anche un seminarista della prima metà del secolo scorso, formato su San Tommaso e sul Gredt, avrebbe potuto facilmente confutare.
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La polemica contro il modernismo e il suo ricettacolo di eresie oggi si trova quasi esclusivamente negli ambienti tradizionalisti, i quali denunciano con acutezza il ritorno di questo fenomeno, per esempio nel rahnerismo; ma poi ci cadono le braccia quando alcuni di questi tradizionalisti accusano di modernismo il Concilio Vaticano II e tutti i Papi seguenti.
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È evidente allora che occorre con urgenza chiarire che cosa si deve intendere con questa parola. Essa ha un riferimento storico molto chiaro: la famosa enciclica Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. Lì si dà una definizione molto chiara ed articolata su cosa il Papa intende per “modernismo”. È un piccolo trattato sulla materia, nel quale però si evidenziano quasi esclusivamente gli errori, senza riconoscere alcuna istanza positiva, come capitava spesso nel Magistero della Chiesa del passato. La Chiesa, infatti, salvo eccezioni, appariva più che Mater et Magistra, una coscienziosa vigilessa sempre pronta a segnalare le multe.
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Tuttavia è bene notare che, come in molti fenomeni della storia dello spirito, per “modernismo” si possono intendere due cose: prima, il modernismo in senso storico, ormai racchiuso nei tempi di San Pio X e qui la storia non si ripete; questo modernismo è ben descritto dal Papa, per cui rimando all’enciclica e non c’è neanche bisogno di riassumerne qui la natura [cf. testo QUI].
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Seconda, una certa tendenza perenne e pertanto tuttora attuale dello spirito, la quale trae origine o spunto dalla descrizione fatta dall’enciclica, ma in fondo ne è indipendente, e trascende quelle contingenze storiche; per cui in qualche modo esisteva già prima, un modernismo in un senso più ampio, come idolatria della modernità o del tempo presente, come modo falso di essere moderni, in quanto effetto non di un vaglio critico della modernità alla luce del Vangelo, ma come vaglio critico — un certo “metodo storico-critico” in esegesi — del Vangelo alla luce di una vera o supposta modernità.
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Il modernista è un fenomenista storicista, un evoluzionista relativista al quale non interessa una verità oggettiva, universale, assoluta ed eterna, nella quale non crede e che giudica con disprezzo “astratta”, illusoria, nociva o quanto meno inutile. Per lui la verità è figlia del tempo e relativa al tempo. Non esiste la verità, ma solo varie verità concrete e mutevoli a seconda delle varie culture, dei punti di vista e dei diversi tempi.
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Il modernismo, oggi più che mai si sposa col più confusionario sincretismo che, strombazzato da abili impostori, che sanno renderlo venerabile alle folle degli sprovveduti, va a mettere assieme e a raccattare in filosofia e teologia, nel più assoluto disprezzo del principio di non-contraddizione, magari con la scusa della dialettica, le più strampalate ed assurde teorie [1], che anche un seminarista della prima metà del secolo scorso, formato su San Tommaso e sul Gredt, avrebbe potuto facilmente confutare.
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Così, se il modernismo dei tempi di San Pio X sorgeva da influssi soprattutto europei, empiristici, positivisti, vitalisti, immanentisti, kantiani e protestanti, quello di oggi arricchisce gli influssi occidentali da Hegel a Marx a Freud ad Husserl ad Heidegger, spaziando in tutto l’insieme del pensiero mondiale, antico e moderno, compresi gli errori delle altre religioni, concezioni settarie, bizzarre e superstiziose come la credenza negli extraterrestri, l’astrologia, l’ufologia, la divinazione e lo spiritismo, per non parlare del satanismo, e persino antiche visioni pagane del mondo come lo gnosticismo, l’ermetismo, la magia, l’esoterismo, i presocratici, l’induismo, il taoismo e il buddismo. C’è ancora poca simpatia per Maometto, ma presto possiamo attenderci una sintesi del Vangelo col Corano.
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L’operazione più importante ed ingannevole dei modernisti da cinquant’anni a questa parte, come è noto e come ho mostrato da molti anni nelle mie pubblicazioni, operazione condotta con estrema abilità, con l’impiego di dotti ma disonesti teologi e dovizia di mezzi anche economici, non senza la connivenza di certi ambienti della gerarchia ecclesiastica, è quella di presentarsi al pubblico con l’innocuo titolo di “progressisti”, come interpreti e fautori autentici, sicuri ed avanzati, delle dottrine nuove del Concilio, anche contro l’interpretazione ufficiale dei Papi e della Chiesa, la quale, da loro fatta credere come retriva, reazionaria e conservatrice, quasi sempre è rimasta come una vox clamantis in deserto. Anzi i modernisti hanno l’audacia di sostenere che le dottrine nuove del Concilio, da loro interpretate ad usum delphini, non sono abbastanza avanzate, e che il Concilio conserverebbe delle vedute superate, dalle quali essi, che si ritengono essere i cosiddetti i “protagonisti”[2] del Concilio, si sentono in dovere di liberarlo per un vero confronto col mondo moderno. Per questo essi si prendono la libertà di far valere le loro idee anche contro lo stesso Concilio, da loro inteso quasi fosse la palingenesi della Chiesa e la scoperta del vero Vangelo dopo 2000 anni di falsità e leggende raccontate dalla Chiesa preconciliare.
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Il Maritain, dal canto suo, affermò già nel 1966 in una sua famosa dichiarazione, che il modernismo di oggi è una polmonite a raffronto col raffreddore da fieno del modernismo dei tempi di San Pio X [3]. Se già dunque questi diceva che il modernismo è la somma di tutte le eresie, c’è da chiedersi che cosa il Santo Pontefice direbbe del modernismo, se vivesse oggi.
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Oggi infatti i modernisti, per i motivi suddetti, sono molto più numerosi, influenti e pericolosi di quelli dei tempi di San Pio X. Hanno raggiunto molti posti di potere e quindi sono spesso arroganti e prepotenti. Non hanno intaccato solo il basso clero, i laici e i teologi, ma anche la stessa gerarchia, ecclesiastica la Santa Sede e gli istituti ed organismi da essa dipendenti, inclusa la Curia Romana e soprattutto le Università Pontificie.
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Per questo, i Papi del postconcilio, fedeli ed infallibili maestri della fede, si sono trovati isolati, frenati e a volte osteggiati da parte di forze oscure presenti tra i loro stessi collaboratori, come si può ben dedurre da certi ritardi, mancanza di informazioni, reticenze, silenzi, tentennamenti, timidezze nella loro azione pastorale e disciplinare e nel loro stesso magistero dottrinale, in particolare per quanto riguarda la condanna degli errori e degli scandali. Chi, come me, ha lavorato per anni tra i collaboratori di San Giovanni Paolo II come consulente teologo presso la Segreteria di Stato, ne sa qualcosa.
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Con l’avvento del Sommo Pontefice Francesco, indubbiamente aperto alla modernità, i modernisti hanno cambiato tattica: non più accuse al Papa di conservatorismo o arretratezza, come avevano fatto sino a Benedetto XVI, ma uno sforzo estremo di accaparrarsi la figura del Pontefice, interpretando e strumentalizzando certe scelte, certi gesti o parole del Papa, che effettivamente, male interpretati o avulsi dal contesto, sembrerebbero giocare a loro favore.
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Il Papa, dal canto suo, per ora — salvo qualche richiamo significativo [4] — preferisce tacere e trattarli con molta benevolenza, recuperando i loro lati positivi, contando e facendo leva sulla loro coscienza, affinchè a un certo punto si accorgano essi stessi, per le conseguenze negative alle quali conducono le loro idee, di essersi messi in un vicolo cieco.
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Bisogna però dire, per dovere di onestà e di giustizia, che sia il sorgere del vecchio modernismo che di quello odierno non è privo di qualche istanza positiva, come avviene in tutti i fenomeni storici, anche i più aberranti. L’intervento di San Pio X fu certo una cura efficace, ma non affrontò seriamente l’istanza dei modernisti, che restava più che mai valida e ad un tempo irrisolta.
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Oggi tutti gli storici della Chiesa riconoscono che, se da una parte furono provvidi la rinascita tomista promossa da Leone XIII a fine Ottocento, nonchè il suo ricco umanesimo e le aperture di questo grande Papa — si pensi solo alla Rerum Novarum —, dall’altra, la teologia cattolica e lo stesso Magistero della Chiesa avevano bisogno di una maggiore attenzione, considerazione e benevolenza nei confronti della cultura moderna degli ultimi secoli, anche se nata al di fuori e magari anche contro la Chiesa, al fine di poter assumere nella sapienza cattolica, quanto di valido essa, pur tra tanti errori, aveva generato. Alcuni spiriti sensibili ai bisogni della Chiesa, ma indisciplinati, come Maurice Blondel [5], Lucien Laberthonnière [6], Eduard Le Roy [7], Alfred Loisy [8] e George Tyrrell [9] cominciarono a sentire più forte il dovere del pensiero cattolico di utilizzare le conquiste del pensiero moderno. Senonchè però, incapaci di comprendere ed apprezzare i valori già acquisiti della sapienza cristiana, li considerarono superati e credettero di poter esprimere o arricchire la verità cristiana in categorie desunte dalla modernità, in contrasto con quei valori. Era nato il modernismo [10].
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I provvedimenti presi da San Pio X furono molto energici e sul momento sembrarono aver vinto la corrente modernista. Accanto all’azione saggia e benefica del santo Pontefice funzionò però anche un organismo di informazione e di repressione, il Sodalitium Pianum, guidato da Mons. Umberto Benigni, il quale non sempre seppe condursi con la dovuta moderazione, per cui furono colpiti anche personaggi innocenti, oggi venerati nella Chiesa, come il Beato Cardinal Andrea Carlo Ferrari, Arcivescovo di Milano, e due dotti teologi domenicani, il Padre Juan Gonzalez Arintero, teologo della spiritualità, e l’esegeta Joseph Lagrange, dei quali è in corso la Causa di Beatificazione. Chi, come il grande teologo domenicano Antonin-Dalmace Sertillanges, tentò un dialogo con i modernisti, fu sospettato di modernismo.
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Quando tuttavia si dice “modernismo”, occorre avvertire che bisogna essere molto prudenti nell’uso del termine, partendo da un concetto esatto di modernismo, soprattutto se ci riferiamo a casi o persone particolari, per non far torto a nessuno. Infatti il modernismo, come tutte le malattie dello spirito, che, similmente a quelle del fisico, sono soggette a gradi di entità, contempla delle fasi acute e forme miti, per non dire che a volte, anzi spesso, presenta solo tracce o lievi sintomi. Occorre in ogni caso valutare nei singoli casi l’entità di questa affezione morbosa ed esprimersi di conseguenza con le dovute sfumature e precisione per il rispetto dovuto alle persone colpite dal morbo. Chi è affetto da un carcinoma ai primi stadi non è nelle stesse condizioni di chi è colpito dalla metastasi.
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Ricordiamo intanto che nel 1904, presso Parigi, a Le Saulchoir, i Domenicani, che avvertirono chiaramente la crisi che stava sorgendo, fondarono una Scuola di Teologia [11], la quale iniziò con un buon programma di rinnovamento della teologia, che abbinava la speculazione alla scuola di San Tommaso (Gardeil, Roland-Gosselin, Congar) alla fondazione storica della teologia (Chenu, Mandonnet). Essa all’iniziò produsse ottime pubblicazioni; senonchè però, a un certo punto, negli anni Quaranta, in essa si fece sentire, soprattutto nello Chenu, la tendenza storicistica tipica del modernismo, tanto che lo Chenu fu censurato da Roma nel 1944. Sorse allora la cosiddetta théologie nouvelle, che ottenne successo anche fuori dell’Ordine Domenicano, come per esempio nel de Lubac, dei Gesuiti, che già da tempo avevano avviato a Lovanio spericolati ed imprudenti esperimenti di contatti con Kant nell’opera di Joseph Maréchal.
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Il modernismo dei Gesuiti [12] era aggravato dal fatto che nel de Lubac il loro tradizionale volontarismo, unito al ripudio delle distinzioni concettuali, sullo sfondo di una visione dinamica dello spirito come auto-trascendenza, finì per annebbiare la distinzione fra il naturale il soprannaturale in tal modo che la natura sembrava esigere il soprannaturale per poter accontentare in radice le sue aspirazioni e la sua tendenza alla trascendenza. La natura, insomma era privata della sua propria autonomia e consistenza ontologica ed essenziale ed appariva niente più che una vaga aspirazione alla grazia, la cui funzione sembrava esaurirsi nel’attuare le potenzialità e soddisfare i bisogni della natura. Lo schema potenza-atto, che vale solo nell’ambito di una stessa essenza, era applicato per esprimere il rapporto della natura con la grazia, che invece sono tra di loro essenzialmente diverse. In queste condizioni, peraltro, era facile capovolgere il rapporto e cadere nel naturalismo e nell’attivismo di una natura superpotente e nel pelagianesimo, che è sempre stato il rischio del volontarismo gesuitico.
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Venne meno, più in generale, sotto l’influsso dell’evoluzionismo dogmatico modernista, la percezione della distinzione nei concetti dogmatici, fra il significato immutabile del dogma — la Parola di Dio che non passa — e l’esplicitazione progressiva di detto significato grazie alla ricerca storico-critica e alla deduzione logica, ossia l’avanzamento o progresso verso la pienezza della verità. Il perfezionamento e lo sviluppo della conoscenza teologica fu scambiato per un processo di sostituzione di un concetto ad un altro, giudicato superato e quindi falso, nell’illusione di un’impossibile fedeltà al significato originario del dogma e alla Parola di Dio. L’istanza progressista annullava quella della conservazione: la stessa cosa che sta avvenendo oggi tra i modernisti, i quali non capiscono che il rifiuto di avanzare da un punto di partenza sicuro e senza una base fissa e solida, sulla quale innalzarsi, e credere che sia conoscenza più progredita quella che annulla i risultati precedenti, e quando si annulla il concetto che si vorrebbe meglio capire, vuol dire togliersi il terreno sotto i piedi e finire nel vuoto della chiacchiera, quando non proprio nell’eresia. D’altra parte la soluzione non stava e non sta neppure anche oggi nel restar chiusi nei propri concetti acquisiti e limitarsi a ripeterli, contemplarli e commentarli, respingendo come pericolo o tradimento il porsi delle domande su ciò che ancora si ignora, l’affrontare nuovi problemi, per i quali le soluzioni non sono già pronte, l’abbandonare opinioni che si rivelano errate, il porsi nuovi obbiettivi di ricerca o il prender atto del progressi compiuti dagli altri o dalla Chiesa: vedi le nuove dottrine del Concilio Vaticano II.
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Il sorgere della théologie nouvelle, che in fondo era una rinnovata forma di modernismo, provocò, come è noto, l’intervento di Pio XII con la Humani Generis, la quale ribadiva il valore immutabile dei concetti dogmatici e la distinzione fra naturale e soprannaturale. Fu un severo richiamo alla Scuola di Le Saulchoir. Alcuni grandi teologi domenicani, come il Garrigou-Lagrange, il Browne e il Cordovani tentarono di dissuadere Chenu e amici dal proseguire nella intrapresa, ma non ci fu nulla da fare. San Giovanni XXIII, con le sue larghe vedute, recuperò in seguito gli aspetti sani della Scuola, ma ormai essa aveva preso un piega modernista, che la portò alla chiusura negli anni dell’immediato post-concilio. Triste ed istruttivo esito di una iniziativa partita così bene, così coraggiosa, lungimirante e promettente, splendido esempio della perspicacia della teologia domenicana, se, ahimè, non si fosse insinuato il veleno modernista.
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Ma come e perchè anche oggi, dopo la sconfitta loro inferta da San Pio X, i modernisti si sono rifatti vivi, sia pur spesso mascherati e in un forma diversa, anche se respingono sdegnosamente — si capisce — l’appellativo di “modernista”? Come e con quali pretesti hanno potuto tornare con tanta forza e capacità di seduzione? Da dove traggono i loro argomenti? Il loro argomento più valido è un’indubbia verità storica accompagnata da un’autentica istanza evangelica, alla quale ho già accennato: il fatto che San Pio X non fu capace o non pensò di andare incontro alle loro istanze giuste: ammodernare sanamente la vita cristiana, far sì che la Chiesa accolga i valori del mondo moderno, che sia al passo dei tempi, che sappia parlare di Cristo in modo persuasivo all’uomo d’oggi, quindi una nuova apologetica e un nuovo slancio missionario, senza che il possesso di una verità immutabile diventi occasione di ristagnazione, di rigidezze, di chiusure, di arretratezze e di immobilismo, ma al contrario, stimolo e incentivo per l’apertura al nuovo, e continuo avanzamento e progresso verso la pienezza della verità e del regno di Dio. Occorreva rompere con certe vecchie abitudini o idee non più benefiche e, in continuità e nella fedeltà al Vangelo, inventare nuovi metodi di evangelizzazione e aprire nuove strade alla ricerca della verità e al progresso della santità. Tutte queste istanze furono recepite da San Giovanni XXIII, il quale le sentì talmente importanti, urgenti e non procrastinabili, talmente legate al destino della Chiesa, che decise di convocare apposta un Concilio per risolverle. Certo, egli non disse questo esplicitamente, ma, a cose fatte, soprattutto dopo cinquant’anni dal Concilio, la cosa si capisce ormai benissimo.
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Il Concilio Vaticano II ha un indubbio carattere progressista e innovativo, che non si riscontra in altri Concili. Il che induce i lefevriani a giudicarlo un Concilio “anomalo”, che tradisce la Tradizione, e ha mutato l’essenza della Chiesa, mentre per i modernisti è un novum assoluto e rivoluzionario, una specie di reinterpretazione del cristianesimo. Sbagliano gli uni e gli altri, perchè confondono ciò che in un Concilio è sostanziale o essenziale con ciò che è accidentale, mutevole o contingente. Sbagliano i lefevriani, che assolutizzano certi accidenti, usi o modalità dei passati Concili, che non si ritrovano nel Vaticano II — per esempi i canoni —, sino a non riconoscere nel Vaticano II un regolare e legittimo Concilio come tutti gli altri, per cui respingono o fraintendono le sue dottrine. Sbagliano i modernisti, che riducono il sostanziale ovvero il permanente all’accidentale, ossia al mutevole, non vedono la continuità tra l’ultimo Concilio e i precedenti [13].
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Un Concilio ecumenico, nella sua essenza o sostanza permanente, è una riunione dei vescovi sotto il Papa, indetto col consenso del Papa ed approvato dal Papa, nel quale si trattano gli affari più importanti della Chiesa, sia di ordine disciplinare che pastorale e dottrinale. Elementi accidentali invece, che possono mutare, sono per esempio lo stile del linguaggio, il sistema delle votazioni, i modi del procedere, la qualità delle rappresentanze, la sede, la lingua usata, la divisione della materia, e cose del genere. Non è in base a queste cose che si deve giudicare se un Concilio è un vero Concilio o è o non è in continuità con i precedenti, ma considerando l’essenza stessa e la legittimità del Concilio.
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Quanto all’autorità dei suoi insegnamenti, sono infallibili innanzitutto le definizioni dogmatiche (definitio ut talis) proposte in modo definitorio (modus definiendi); nonchè quelli che trattano direttamente o indirettamente temi di fede o connessi alla fede. Sono invece fallibili o mutevoli gli insegnamenti pastorali, giuridici o disciplinari. Ovviamente non c’è dubbio che al Concilio lavorarono cripto-modernisti, i quali gettarono la maschera, come Rahner [14], solo dopo che si sentirono sicuri dell’impunità, avendo ottenuto un grande prestigio e presentandosi come gli interpreti autorevoli del Concilio. Costoro però, al Concilio, dettero un valido contributo, ma tennero nascosto il loro modernismo, che venne alla luce solo dopo il Concilio. I lefevriani, invece, non avendo compreso il valore delle novità conciliari e la loro continuità con la tradizione, cominciarono a negare l’infallibilità delle dottrine del Concilio ed anzi ad accusarle o di fallibilità o di falso, scambiando per modernistiche le dottrine del Concilio.
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Mentre Papa Giovanni XXIII dette al Concilio il già accennato orientamento pastorale, il Beato Paolo VI ebbe l’idea di approfittare del Concilio per fargli aggiungere un aspetto dogmatico attinente l’ecclesiologia. E fu così che il Concilio approfondì il mistero della Chiesa con nuovi importanti apporti dogmatici, che toccavano tutte le sue componenti essenziali, dall’origine della Chiesa dalla divina Rivelazione, ai vari ceti, ministeri ed uffici, al rapporto della Chiesa col mondo, e con tutti gli uomini di buona volontà, anche non-cattolici, fino ai non-credenti, per giungere al fine escatologico della Chiesa, fino alla mariologia, intesa come simbolo, figura, tipo, paradigma, e il modello dell’ecclesiologia. E qui bisogna dire che mai, in tutta la storia dei Concili, un Concilio Ecumenico ci ha fornito una dottrina tanto ricca e autorevole sulla Madonna, dopo il Concilio di Efeso. Il Vaticano II ci presenta Maria come maternamente premurosa a favore di tutta l’umanità, verso la quale ella esercita la sua missione di via e guida per raggiungere suo Figlio in un cammino di conversione e di penitenza dei nostri peccati. Un modo eminente col quale la Madonna svolge questa attività salvifica, come è noto, sono le apparizioni e i messaggi mariani, tra i quali i più famosi tra mille sono Lourdes e Fatima, ai quali possiamo aggiungere Medjugorje, anche se la sua autenticità e l’atteggiamento da tenere sono tuttora all’esame della Santa Sede, a differenza dei due primi luoghi, che sono invece approvati e raccomandati da tempo dalla Chiesa. Tuttavia, questo fenomeno straordinario, del tutto unico in tutta la storia della Chiesa, dal 1981 in cui è nato, non ha cessato di dar segni di credibilità e di produrre frutti per milioni di pellegrini, che da allora ad oggi si succedono in quel luogo, dove si hanno le più diverse e caratteristiche manifestazioni della pietà cristiana: dalle liturgie eucaristiche celebrate da numerosi sacerdoti e seguite con esemplare devozione e raccoglimento da folle enormi, alla predicazione della Parola di Dio, all’adorazione, alla meditazione, alla preghiera personale e comunitaria, alle confessioni senza numero, alle dure pratiche penitenziali, ai gesti di carità, di solidarietà umana, e di riconciliazione, ai dialoghi ecumenici, ai fenomeni di conversione e ai propositi di miglioramento di vita, alla generosa ospitalità da parte degli abitanti del luogo. Quanto ai messaggi quotidiani, che non si contano, essi sono improntati alla più perfetta ortodossia ed amore per Cristo, per la Chiesa, per il Papa, per i Vescovi, per i sacerdoti, per religiosi, per la salvezza e la santificazione delle anime, per la conversione dei peccatori. In ciascuno di essi traspaiono chiari l’affetto, la tenerezza, la sapienza, la premura, a volte la giusta severità della Madre.
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I messaggi, come è noto, non entrano mai in temi, questioni o problemi concreti, ma sempre offrono incentivi morali e spirituali, che possono servire a tutti, esortando sempre ai doveri fondamentali del cristiani, innanzitutto alla preghiera fiduciosa, umile ed insistente. Desta pertanto sorpresa la messa in guardia contro il modernismo, che la Madonna ha fatto, non per la prima volta, proprio nella recente solennità dell’Annunciazione. Ecco le parole:
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«Cari figli! Anche oggi l’Altissimo mi ha permesso di essere con voi e di guidarvi sul cammino della conversione. Molti cuori si sono chiusi alla grazia e non vogliono dare ascolto alla mia chiamata. Voi figlioli, pregate e lottate contro le tentazioni e contro tutti i piani malvagi che satana vi offre tramite il modernismo. Siate forti nella preghiera e con la croce tra le mani pregate perché il male non vi usi e non vinca in voi. Io sono con voi e prego per voi. Grazie per aver risposto alla mia chiamata».
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Da notare la severità con la quale Maria qualifica il modernismo: è un «piano malvagio di Satana». Tale infatti è il modernismo, che nascondendosi dietro a fascinose apparenze anche di pietà, è il principale nemico della Chiesa, che dobbiamo e possiamo sconfiggere con la intercessione della Beata Vergine Maria.
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