Televisioni e giornali hanno dato grande rilievo alla notizia di un parroco pugliese che ha invitato pubblicamente i fedeli della sua parrocchia, mediante affissione di manifesti in tutto il paese, a partecipare alla messa di suffragio per un defunto la cui storia è ben nota.
Il soggetto in questione, Rocco Sollecito, è un italo americano, residente in Canada e ucciso il maggio scorso nei pressi di Montreal in un agguato mafioso. Secondo le autorità locali Sollecito faceva parte di uno dei clan più potenti di quella città. Il figlio Franco in occasione di queste feste natalizie è in visita al paese d’origine della famiglia, Grumo Appula, a pochi chilometri da Bari, e chiede al parroco di celebrare una messa di suffragio per il genitore morto oltre oceano: la messa è fissata per il pomeriggio del 27 dicembre.
Il sacerdote pubblicizza la richiesta con i manifesti dove si legge: “Il parroco, don Michele Delle Foglie, spiritualmente unito ai famigliari residenti in Canada e con il figlio Franco venuto in visita nella nostra cittadina, invita la comunità dei fedeli alla celebrazione di una santa messa in memoria del loro congiunto”. La reazione a tali manifesti è l’interveto del questore di Bari che decide di vietare la celebrazione per non meglio specificati ‘motivi di ordine pubblico’ e a ruota l’intervento dell’Arcivescovo che ordina al parroco che la messa si svolga alle sei di mattina e non di sera, e in forma strettamente privata, minacciando sanzioni canoniche contro il sacerdote in questione.
Sin qui i fatti, in breve. Ma su questi fatti una riflessione si impone.
Sgombriamo il campo anzitutto da qualunque possibile giustificazione per il tenore dei manifesti con cui si ‘pubblicizza’ la celebrazione: il compito di un parroco è quello di invitare i propri fedeli a partecipare alla santa messa, specie nei giorni di precetto, in quanto dovere religioso e cristiano, per ciò che è la messa, non certo perché è una ‘speciale’ messa in suffragio di un ‘particolare’ defunto. Il parroco quindi ha compiuto un atto chiaramente inopportuno e, date le circostanze, esprimere in modo così evidente la propria partecipazione è fuorviante e scandaloso.
Detto questo, resta comunque il problema del duplice intervento civile ed ecclesiastico.
Una cosa è il manifesto che ‘pubblicizza’ la messa, e altra cosa è la messa in se stessa. Pare che le autorità abbiano fatto un po’ di confusione su questo.
L’autorità civile, in questo caso il questore, agisce in modo legittimo, tanto più se lo fa invocando motivi di ordine pubblico, quando un evento può davvero costituire un problema in questo campo. Avrebbe potuto ad esempio far rimuovere i manifesti, giudicandoli troppo condiscendenti, addirittura celebrativi, verso un personaggio che non lo merita affatto. Ma l’intervento su una celebrazione liturgica che si svolge all’interno delle mura di una chiesa è altra cosa: è una patente ingerenza e costituisce un pericolosissimo precedente. Stupisce come l’Autorità ecclesiastica non abbia protestato anzitutto e soprattutto contro questo. Se si permette che un qualunque rappresentante dello Stato possa decidere per chi si lecito o meno celebrare messe di suffragio la libertas Ecclesiae è fortemente a rischio e si dà il via ad un processo che è potenzialmente illimitato.
Ma più grave ancora è il fraintendimento che si è avvallato con la censura ecclesiastica che ne è seguita. È evidente che nessuna autorità può proibire ad un parroco di svolgere il proprio ministero celebrando una messa di suffragio per un defunto, e infatti, seppure spostata alle sei del mattino e in forma ristretta, la messa è stata celebrata. Ma – come dicevo – queste modalità perpetuano un equivoco ormai molto diffuso, e a cui la Chiesa dovrà dare la necessaria attenzione per i valori teologici e pastorali che ci sono in ballo.
Celebrare la messa in suffragio di un anima non ha nulla a che fare con un pubblico attestato di stima nei confronti del defunto. La santa messa è la rinnovazione incruenta, nei segni del pane e del vino, del sacrificio di Cristo sul Calvario; e Cristo, sul Calvario, ha immolato la sua Carne e ha versato il suo Sangue per la salvezza dei peccatori, cioè di tutti, poiché tutti sono, anzi siamo, peccatori. In realtà più uno è peccatore e più ne ha bisogno. In un solo caso la messa di suffragio è superflua: se l’uomo muore impenitente e la sua anima è precipitata nella dannazione eterna, cosa della quale non possiamo avere, riguardo ad alcuno, la certezza.
Questa è la fede cattolica; noi però viviamo in un tempo in cui anche le cose più grandi e sacre delle nostra fede vengono spesso svuotate del loro contenuto e capovolte nel loro significato; perché in una società che continua a compiere riti cristiani senza più essere tale, anche i ministri di Dio spesso si trovano più a loro agio a dire ai partecipanti ad un funerale che ‘la persona cara ora è in Cielo’, piuttosto che ricordare che siamo tutti peccatori e che abbiamo bisogno del perdono e che questo perdono non è scontato.
Ecco allora che nell’immaginario comune le messe per i defunti diventano una specie di ‘celebrazione’ dell’uomo, più che una invocazione della misericordia di Dio; un riconoscimento per i suoi meriti più che una supplica per i suoi peccati. A causa di questo capovolgimento diventa scandaloso dire la messa per un mafioso, allo stesso modo in cui lo sarebbe erigergli un monumento in piazza o intitolargli una scuola.
Ma la messa non è questo. Pastori e credenti, siamo ancora in grado di capirlo? E siamo ancora capaci di farlo capire agli altri, magari con il coraggio di gesti impopolari?
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