Di fronte ad una tempesta, che non accennava a calmarsi e che stava provocando un vero e proprio affondamento della nave, l’equipaggio della nave si era convinto che tutto questo era dovuto, possibilmente, all’azione di qualche divinità, irritata per qualche colpa commessa da qualcuno dei presenti sulla nave. Scelsero di tirare a sorte e “la sorte cadde su Giona”.
E Giona non si sottrasse alla sua responsabilità, perché si rese conto che autore di tutto questo marasma doveva essere quel Signore, dal cui volto egli voleva fuggire. La sua reazione fu davvero esemplare, chiedendo, in modo fermo, di essere preso e gettato nel mare. Egli in tal modo prendeva sul serio la Parola di Dio, affidandosi pienamente ad essa ed abbandonando ogni progetto di fuga.
1. Giona trova ospitalità nel grande pesce
Così, loro malgrado, i marinai gettano a mare Giona, che costituiva il vero “peso”, di cui bisognava sbarazzarsi ed il mare si calma. Il racconto poteva chiudersi con questo gesto di grande
responsabilità da parte di Giona, che preferisce andare incontro alla morte lui, purché coloro che stanno sulla nave possano sperimentare la salvezza. Ed invece il capitolo seguente si apre con qualcosa di veramente inaspettato.
2,1: “Ma il Signore dispose che un grosso pesce (dag) inghiottisse Giona. Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. Dal ventre del pesce (dagah) Giona pregò il Signore suo Dio”.
Il Signore invia come suo messaggero questo pesce (dag), che è grande, tanto da poterlo inghiottire, offrendo a Giona un’ospitalità di tre giorni e tre notti nel suo ventre. Il pesce incaricato di inghiottire Giona sembra essere il grande mostro marino, a cui accenna il Salmo 104,26: “Ecco il mare spazioso e vasto (…) lo solcano le navi ed il Leviatan, che tu hai plasmato per giocare con lui”.
A dire il vero nella tradizione biblica sia il mare, sia il grande mostro marino sono immagini che richiamano lo “sheol”, quegli inferi, che con voracità insaziabile continuano ad inghiottire esistenze umane. Il ventre del pesce che ha dato ospitalità a Giona ha tutta l’apparenza di assomigliare ad una tomba, dove trova riposo chi è stato visitato dalla morte.
Il profeta Geremia parla anche lui di un “drago”, ma lo fa in riferimento a Babilonia ed al suo re Nabucodonosor, che si è “inghiottita” la popolazione di Gerusalemme: “Mi ha divorata, mi ha consumata Nabucodonosor re di Babilonia, mi ha ridotta come un vaso vuoto, mi ha inghiottita come fa un drago, ha riempito il suo ventre, dai miei luoghi deliziosi mi ha scacciata” (Ger.51,34). Geremia sta parlando della grande tragedia della deportazione di Giuda a Babilonia. Non è la discesa nella morte, ma la deportazione segna, comunque, la fine di un popolo.
Nel caso di Giona, però, non si tratta di una semplice discesa agli inferi, perché il narratore si premura di farci sapere che dal ventre del pesce Giona si decide ad innalzare a Dio la sua preghiera. Non dovrebbe essere uno spazio molto comodo questo ventre del grande pesce, ma è certamente sufficiente a garantire quel minimo di movimento, che permetta di innalzare a Dio una preghiera.
La particolarità del testo ebraico ci permette, però, di fare una riflessione ulteriore, che ci conduce direttamente all’esperienza pasquale di Gesù. Il “grande pesce” viene chiamato in ebraico le prime due volte con il termine “dag”, ma quando si accenna che dal ventre del pesce Giona innalza al Signore la preghiera il termine è “dagah”. Dove sarebbe la differenza? Il primo termine è maschile, mentre il secondo è femminile, ma in questo caso è quanto mai logico pensare che il ventre si sia cambiato in “grembo”.
Chi ha una certa dimestichezza con i simboli cristiani può associare questa immagine del ventre del pesce, che da tomba si cambia in grembo, con l’immagine familiare del fonte battesimale, che da una parte è tomba, dove il credente scende per far morire con Cristo l’Adamo vecchio, ma dall’altra parte è grembo, da cui il credente risorge con Cristo come creatura nuova.
L’esperienza di Giona si qualifica davvero come esperienza pasquale di morte e di resurrezione, tanto da poter far dire a Gesù, a quanti gli chiedevano un segno, che a questa generazione “non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,39-40).
2,2-3: “Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore e disse: Nella mia angoscia ho invocato il Signore/ ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato/ e tu hai ascoltato la mia voce”.
Il profeta Giona rinchiuso nel ventre del pesce è ben diverso da quello che abbiamo conosciuto sulla nave diretta a Tarsis. Finché è rimasto sulla nave, egli non ha avuto la forza di alzare lo sguardo, per invocare il suo Dio, nonostante che il capitano gli avesse ingiunto di alzarsi e di gridare a Dio. Ma adesso che si ritrova in fondo all’abisso e dentro il chiuso di una pancia, dove non è possibile vedere alcunché, egli ritrova la forza di innalzare al Signore la sua supplica e di scoprire che Egli è Colui che si china, che fa grazia, che non manca di ascoltare il povero che grida.
Una cosa che va sottolineata in questo primo avvio della sua preghiera è il modo di rapportarsi di Giona con il suo Dio. Egli non pensa di stare di fronte ad una divinità impersonale e allo stesso tempo tremenda, perché egli sa, da buon rappresentante del popolo ebraico, che a Dio si può dare del “Tu”, avendo inaugurato il Signore sul monte Sinai un rapporto interpersonale di reciproca appartenenza: “Io il tuo Dio e tu il mio popolo” (Lv 26,12).
In questa supplica egli parla della sua angoscia, quella provata nella profondità tenebrosa, nella solitudine desolata, quando i flutti e le onde lo sommergono e gli sembra che nessuno si premuri di andargli in aiuto.  La sorpresa dell’orante è quella di dover scoprire che pur “gridando” dal profondo degli inferi, quel “Tu” di Dio è pronto ad ascoltare la voce di un perduto, di uno che è stato spogliato di qualsiasi certezza.
“Gettato nell’abisso”, come dice lo stesso Giona, egli si ritrova a fare affidamento sulla Parola che salva, ma senza poter avere un riscontro immediato, perché tutto quello che lo circonda sembra sconfessare questa presenza salvante di Dio. La situazione in cui si è venuto a trovare Giona sembra rispecchiare la condizione di tanta parte di umanità, che si ritrova suo malgrado a fare esperienza di un’angoscia mortale.
Ciò che Giona sperimenta nell’immediato sono: acque che sommergono, alghe che si avvincono al capo, una terra che chiude le sue spranghe, ma nel momento in cui non può più appoggiarsi alle proprie forze, fa esperienza della potenza liberante del Signore.
2,7: “Ma Tu hai fatto salire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio”.
Alla discesa, con tutto quello che essa porta con sé in termini di spogliamento e di riduzione al nulla, fa seguito l’esperienza della risalita dalla “fossa”. Ed in questo risalire Giona può dire con fede purificata: “Signore mio Dio”.
2,11: “Ed il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia”.
Il percorso di risalita di Giona si conclude con questo parto del pesce, che rigetta il profeta sull’asciutto. In effetti la presenza di un credente nel cuore dell’abisso è troppo indigesto per trattenerlo in modo definitivo.
2. Giona è rinviato a Ninive per la seconda volta
3,1: “E fu la Parola del Signore su Giona la seconda volta dicente: Alzati (Kum), vai (Lek) a Ninive, la grande città e annuncia loro quanto ti dico”.
La fuga di Giona si è conclusa con il ritorno al punto di partenza, ma l’esperienza fatta lo ha profondamente cambiato. Egli ha ben maturato la consapevolezza che l’affidarsi alla Parola del Signore offre al credente la possibilità di poter affrontare realtà mostruose e di scoprire che esse vengono rese docili al comando del Signore. Ed ecco che per la seconda volta il Signore riprende l’iniziativa e rivolge la sua Parola a Giona, che si sente ripetere il comando di alzarsi ed andare a Ninive.
In questa seconda chiamata il Signore gli dà appuntamento a Ninive, dove riceverà le parole da dire, con l’attenzione di non aggiungere o togliere qualcosa al mandato ricevuto. A Giona è richiesto di essere docile strumento della Parola, perché il fratello possa ascoltare non le sue parole, ma la Parola del Dio vivente.
3,3: “Giona si alzò e andò a Ninive secondo la Parola del Signore”.
La risposta di Giona è immediata e senza titubanze. Egli si “sotto-mette” alla Parola, l’accoglie come orientamento della propria vita ed è pronto ad assumersi la responsabilità di dire una parola verso un mondo, che sembra avviato verso la “catastrofe”. Se Giona vuol dire “colomba”, che è un chiaro riferimento alla comunità di Israele, allora la Parola che si riceve in quanto comunità, comporta la consapevolezza di essere inviati nel mondo, perché il mondo la possa ascoltare.
Il narratore si premura di farci sapere che Ninive, la città verso cui è diretto il profeta, è tanto  grande da richiedere “tre giornate di cammino” per attraversarla tutta. Si crea in tal modo un facile parallelismo con il grande pesce marino, dove Giona è costretto a dimorarci per “tre giorni e tre notti”. Agli occhi del profeta Ninive si presenta come qualcosa di mostruoso, che inghiotte allo stesso modo di come Geremia parlava di Babilonia, perché questo è il mondo costruito sul delirio di onnipotenza.
3,4: “Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”.
Così Giona da solo affronta la grande città, che si presenta con tutto il suo volto mostruoso. Egli ne percorre tutte le strade e annunzia la “catastrofe” dentro una città che vive altre logiche e parla altri linguaggi. Nel gridare il suo annuncio, che è estremamente rigoroso, non mostra alcun rispetto umano, perché quel che deve essere detto, va detto.
Nelle parole di Giona c’è qualcosa di interessante. Egli parla di distruzione o ancora meglio di “catastrofe”, ma proprio questa parola non ha il solo significato dell’annientamento, ma anche quello del “cambiamento” e del “rovesciamento”, per cui nel progetto di Dio c’è la prospettiva di un’apertura della città verso comportamenti diversi. Se, del resto Giona parla di quaranta giorni, è proprio perché il Signore vuol concedere un tempo sufficientemente lungo per avviare un cambiamento significativo.
3,5: “I cittadini di Ninive credettero a Dio”.
Il testo così come si presenta crea un legame strettissimo tra l’ultima parola pronunciata da Giona, dove viene detto: “Ninive sarà distrutta”, a cui fa seguito immediatamente la risposta dei cittadini di Ninive, i quali, dice il testo, “credettero nel Signore”. Agli occhi del profeta, così come allo sguardo del lettore si presenta un fatto che ha del sensazionale: la città campione di aggressività e di violenza, la città sanguinaria dà ascolto alla voce, che parla in nome di Dio e dà credito a queste parole.
È certamente una fede ancora allo stato embrionale, frutto di quella paura, che proviene dall’aspettarsi una catastrofe, non dissimile da quella, che toccò a “Sodoma e Gomorra”, le città della valle, che vennero totalmente distrutte da un’eruzione vulcanica (Gen 19,23-25), ma che non toglie la sorpresa dell’avvenimento.
Questi cittadini di Ninive, all’annuncio della possibile catastrofe, non reagiscono organizzando una fuga in massa e nemmeno una serie di sacrifici cruenti, ma fanno subito quello che sanno fare: “proclamano un digiuno”. E intanto la “Parola” giunge fino al Re di Ninive, il quale reagisce ponendo in atto una serie di gesti, che invece di cancellare la sua regalità, la riportano alla sua verità di servizio, quale dovrebbe essere reso da un uomo mortale come tutti gli altri uomini:
3,6: “Egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere”.
Questo Re, seduto non più sul trono, ma sulla cenere, ridà al “potere” il suo significato di servizio a vantaggio della comunità ed in vista della sua salvezza. In questo caso non si presenta come un “potere assoluto”, sciolto da qualsiasi vincolo etico e religioso, ma il decreto, che emana, è finalizzato ad ipotizzare la possibilità di una convivenza diversa:
3,7: “Ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza, che è nelle sue mani”.
La corsa della Parola, che ha raggiunto anche il Re, è capace di mettere in crisi la stessa struttura del potere, che, normalmente, tende a trovare in se stesso le ragioni del suo esercizio. E così siamo di fronte ad un potere, che ha la forza di convertirsi e di ritrovare come finalità propria quella di guidare tutto il popolo verso un nuovo stile di vita, fondato non più sulla competizione esasperata dei vari egoismi, ma sulla riscoperta dell’essere “cenere”, che riceve la vita come dono dall’alto.
3,9: “Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno”.
Tutto questo movimento penitenziale, che è iniziato dal basso, ma che ha trovato nel Re la sua spinta organizzativa, trova la sua giustificazione nell’aver intuito che Dio sia molto diverso dagli schemi mentali, con cui è stato pensato. Nell’ipotizzare una conversione di Dio, il Re si sta rendendo conto che Dio è totalmente altro dai propri pensieri, dalle proprie proiezioni. Forse il “dio” invocato fino adesso è stato un “dio” ridotto alle proprie misure, alla propria incapacità di amare, per questo il Re si chiede a voce alta se Dio non sia invece un Dio di vita e non Colui che dà la morte.
3,10: “Dio vide (…) e si ravvide”.
Dio è davvero il diverso, il tre volte santo, il trascendente ed il realmente presente, mai riducibile alle varie costruzioni umane. Questo lavoro di “de-costruzione” della propria esperienza di Dio riguarda Ninive ed il suo Re, ma riguarda soprattutto quel profeta, che è stato mandato per dire le parole di Dio. L’ultima parte del racconto si concentra tutto sulla paziente opera che Dio compie nei riguardi di Giona, perché abbandoni le sue categorie di giustizia, per scoprire lo strano modo di fare giustizia da parte Dio attraverso la misericordia.
4,1: “Ma Giona ne provò grande dispiacere e si adirò (“si infuocò”)”.
Giona non è ancora uscito dalla città, ma ha potuto rendersi conto del movimento repentino, che ha provocato la sua predicazione. Nasce in lui un forte sospetto, che forse Dio di fronte a questo spettacolo abbia, già, deciso di perdonare. Quest’idea che Dio possa essersi mosso a compassione, lo fa stare male, tanto da farsi salire la febbre e nel pregare dice a Dio il motivo della sua prima fuga e adesso del suo sdegno.
Egli conosce il suo Dio così come Egli stesso si presenta in Es 34,6 e come la liturgia stessa non manca di proclamare, come avviene in Gl 2,13, ma gli vuole gridare con tutta la forza che ha in corpo che Lui è un Dio inaffidabile, perché quello che minaccia di fare, poi di fatto non lo fa. Con un Dio giusto, in effetti, si possono fare i conti e prevedere i risultati, ma su un Dio misericordioso come si fa a contarci sopra?
Giona si sente totalmente spiazzato e non riesce a comprendere bene quale sia il senso della sua vocazione. Perché Dio ha voluto Israele (giona/colomba) in mezzo alle genti? Quale il suo compito? Giona si sente tutto ribollire, tanto da concludere con le stesse parole che un giorno disse il profeta Elia: “meglio è per me morire che vivere”!
4,4 “Il Signore gli rispose: Ti sembra giusto essere sdegnato così?”.
Giona viene interpellato personalmente da Dio sul vantaggio che egli possa avere nel provare un tale ardore, ma il profeta non risponde e uscendo dalla città, si pone in un luogo dove poter contemplare la città, si costruisce una capanna e “si sedette” alla sua ombra in attesa di vedere cosa Dio avrebbe realmente fatto alla città. Ma a quanto pare la capanna messa su alla meno peggio non funziona granché, per cui Dio stesso si preoccupa di far crescere una pianta di ricino, perché “facesse ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male”. Il testo dice che di fronte a questo dono inaspettato “Giona gioì per il ricino di una gioia grande”.
In questa gioia grande provata per un ricino, che egli ormai considera come cosa sua, si concentra tutto l’aspetto contradditorio del suo atteggiamento nei confronti della città. Ed il Signore che è impegnato a far maturare in Giona il vero senso dell’amore misericordioso, manda adesso “un verme”, che in pochissimo tempo combina un disastro, lasciando il profeta in balia del sole e del vento afoso. Ed il profeta sotto i raggi di un sole cocente si sente venir meno e chiede per la seconda volta di morire, dicendo “meglio per me morire che vivere”.
4,9: “Il Signore disse a Giona: Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?”.
Il Signore torna a ripetere la domanda, che era rimasta senza risposta, ma questa volta Giona è posto di fronte alla sua meschinità. Egli mostra dispiacere per una pianta, che lui non aveva fatto crescere e che adesso un verme ha fatto seccare, ma intanto sta seduto in attesa di vedere come Dio voglia fare giustizia della malvagità accumulata dalla città di Ninive, la cui possibile distruzione non sembra preoccuparlo più di tanto. E come se Dio dicesse a Giona: “ma allora quali sono i tuoi interessi?”, “qual è il tuo criterio di valutazione?”, “quale senso stai dando alla tua vita?”, “ma in conclusione chi sono Io per te?”
La parabola si chiude con un bel punto interrogativo, che è rivolto a Giona, per un verso, ma è rivolto soprattutto al lettore/ascoltatore, che continua imperterrito a impostare la propria vita lontano dall’amore misericordioso di Dio, che resta preoccupato delle “centoventimila  persone che non sanno distinguere  fra la mano destra e la sinistra e una grande quantità di animali”.

Gregorio Battaglia