Ha parlato ai giovani degli anni Cinquanta e Settanta più di ogni altro sacerdote
Leggerlo vuole dire affrontare un classico (mai noioso) del cristianesimo del Novecento
Luigi Giussani o dell’attualità del cristianesimo nel moderno. Conviene leggerlo? Sì, se uno ha interesse a quell’attualità, purché non ritenga che il moderno sia cessato con il post-moderno, che forse è arrivato con il ’68, o con internet. Leggere don Luigi Giussani (1922-2005) a terzo millennio avviato vuol dire affrontare un classico dell’apologetica cristiana della seconda metà del secolo scorso. Ma perché leggerlo? Perché è un prete che ha portato frutto, a riprova di quell’attualità che si diceva. Il frutto venuto dalla sua semina si chiama «Comunione e Liberazione», un movimento che ha festeggiato il sessantesimo nel 2014 e che è stato segno di contraddizione nelle università e nel Paese, ma oggi lo è meno. Ed è stato ed è una risorsa della comunità cattolica. Una delle più vive.
Giussani è un prete ambrosiano. Dietro al suo linguaggio aggiornato alla teologia e alla pedagogia novecentesche si intravvedono a ogni pagina le mura romaniche della Basilica di Sant’Ambrogio. Fu
a Milano, al liceo Berchet, che nel 1954, quando aveva 32 anni, avviò il suo movimento, che allora si chiamava Gioventù Studentesca. Il nome Comunione e Liberazione (CL) l’inventò nel 1969, dopo il terremoto studentesco del ’68. Nel 1982 ha ottenuto il riconoscimento pontificio la «Fraternità di CL» e nel 1988 l’associazione laicale «Memores Domini» che raccoglie il nucleo forte del movimento. La produzione libraria di don Giussani è legata a queste imprese educative. Egli è il prete italiano che più ha parlato ai giovani degli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso. CL è diffusiva e i testi del fondatore sono tradotti in varie lingue. Giussani merita d’essere letto anche per la scrittura, o meglio per la parola: in massima parte le pagine che vanno sotto il suo nome sono trascritte da dialoghi, conversazioni, lezioni e lectio, meditazioni «dettate» negli incontri della famiglia ciellina.
a Milano, al liceo Berchet, che nel 1954, quando aveva 32 anni, avviò il suo movimento, che allora si chiamava Gioventù Studentesca. Il nome Comunione e Liberazione (CL) l’inventò nel 1969, dopo il terremoto studentesco del ’68. Nel 1982 ha ottenuto il riconoscimento pontificio la «Fraternità di CL» e nel 1988 l’associazione laicale «Memores Domini» che raccoglie il nucleo forte del movimento. La produzione libraria di don Giussani è legata a queste imprese educative. Egli è il prete italiano che più ha parlato ai giovani degli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso. CL è diffusiva e i testi del fondatore sono tradotti in varie lingue. Giussani merita d’essere letto anche per la scrittura, o meglio per la parola: in massima parte le pagine che vanno sotto il suo nome sono trascritte da dialoghi, conversazioni, lezioni e lectio, meditazioni «dettate» negli incontri della famiglia ciellina.
La forza del suo dire lievitava nella conversazione personale e nella meditazione collettiva. I due canali attraverso i quali toccava e trascinava. Come nel caso di Chiara Lubich, fondatrice del «Movimento dei Focolari», abbiamo a che fare con una leadership fondata su una parola personale che motiva generosità. Si tratta di un carisma educativo che si fa affabulazione. La sua affabulazione ha fatto strada e scuola. Ha creato un linguaggio. Limitandomi ai titoli di libri e opuscoli, e a quelli che ha posto a logo delle sue iniziative, segnalo le espressioni «il senso religioso», «la pretesa cristiana», «il rischio educativo», «i libri dello spirito cristiano», «vivere intensamente il reale». Maggiore fortuna hanno avuto le sue parole d’ordine: «passione per l’uomo e passione per il fatto cristiano», «il gruppo è un’amicizia creativa», «credere è riconoscere una presenza», «avvenimento di libertà», «generare tracce nella storia del mondo».
È sepolto nel Famedio del Cimitero Monumentale di Milano e dal 2012 c’è la causa di beatificazione, ma a don Giussani non si addicono le celebrazioni: lo vedi meglio in battaglia. Denunciava il «divorzio tra fede e cultura» che riteneva il maggior limite della Chiesa italiana e lo faceva con forza polemica. Accusava il nostro episcopato di «favorire la riduzione della Chiesa a culto e rito con qualche spinta a interessarsi degli emarginati». In questa battaglia non guardava in faccia l’avversario, si trattasse dei cardinali Ballestrero e Martini, o di Giuseppe Lazzati rettore della Cattolica, o di Alberto Monticone presidente dell’Azione Cattolica. Da Martini suo arcivescovo seppe esigere che CL venisse «valorizzata nel carisma che la caratterizza». La sua potremmo definirla una reazione identitaria al moderno. Identitaria e testimoniale. Ma più identitaria che testimoniale.
Di questi due fuochi e della proporzione tra loro abbiamo la riprova ora che dai pontificati identitari siamo passati a uno testimoniale e vediamo che i discepoli del Gius — com’era detto dai suoi ragazzi — si ritrovano solo in parte con il nuovo vento, mentre c’erano tutti nel vento di prima. Il suo funerale fu celebrato da Ratzinger negli ultimi giorni di Wojtyla. Giussani appartiene alla stagione dei Papi polacco e tedesco. Chi affrontasse un suo libro per la prima volta non tema la noia: il mare intorno alla barca è sempre mosso. Fece colpo un suo intervento al Sinodo dei Vescovi del 1987, quando rivendicò un maggiore spazio ai movimenti perché — disse — «la Chiesa deve sempre risultare presenza che muove e cioè movimento». Chi l’ha frequentato ricorda l’odore e la voce di sigaro, la sensazione che cercasse le parole come la scavatrice cerca le pietre profonde. Da giovane aveva un faccione simpatico, umorale, da prevosto ambrosiano. Occhi volitivi. Con l’età lo sguardo si era fatto inquieto, nelle lectio crescevano le pause.
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