«L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco», di Guido Sommavilla SI (da La Civiltà Cattolica, 19 settembre 1981)
Ci riferiamo all'allegro nominalismo nichilistico che però Umberto Eco molto seriamente sostiene o, meglio, insinua nel suo recente romanzo Il nome della rosa, ora vincitore del Premio Strega 1981. Che noi sappiamo, la critica finora ha avvertito in questo libro il nominalismo, ma non che esso è esattamente nichilistico e tuttavia allegro e perché, né tantomeno ha visto che questa era la fondamentale intentio operis et operantis.
Eppure tutta l'idea era dogmaticamente scandita in latino in un esametro che fa da ultima riga nell'ultima pagina del romanzo: Stat rosa pristina nomine, nuda nomina tenemus. Non abbiamo che i nudi nomi, cioè che le nude parole, le quali non dicono nulla tranne se stesse, non significano nessuna verità. È o, meglio, era la tesi radicale dello strutturalismo francese. Un nudo nome è dunque e soprattutto quello della rosa a cui spetta il primo dei nomi, cioè Dio, che è dunque lo stesso nome del nulla. La rosa del titolo è dunque Dio e il suo senso è il nulla. Se non abbiamo con questo azzeccato il senso del titolo, abbiamo certamente, ci pare, azzeccato il senso del libro, dove nella stessa ultima pagina sopracitata, 10 righe sopra l'esametro, si era sentenziato, questa volta in tedesco: Gott ist ein lautes nichts («Dio è un puro nulla»: nel senso di caos primordiale e finale).
Trama interna ed esterna
Se così è (e lo proveremo), allora non è esattamente vero che l'autore abbia scritto questo libro «per
puro amore di scrittura». Vero è che tutto l'amore dell'Autore, come almeno qui risulta, è che tutto non sia che scrittura, che tutte le verità non siano che vuote parole, ma con una eccezione, la sua, la verità che tutta la verità non sia che un nudo nome. Per questa verità egli lotta, dicevamo, molto seriamente e per tutto il libro e con tutte le sue parole. Che si suppongono quindi in questo senso non una pura e vuota scrittura.
puro amore di scrittura». Vero è che tutto l'amore dell'Autore, come almeno qui risulta, è che tutto non sia che scrittura, che tutte le verità non siano che vuote parole, ma con una eccezione, la sua, la verità che tutta la verità non sia che un nudo nome. Per questa verità egli lotta, dicevamo, molto seriamente e per tutto il libro e con tutte le sue parole. Che si suppongono quindi in questo senso non una pura e vuota scrittura.
Ecco molto in breve la trama esterna. Mentre Ludovico il Bavaro è in Italia e il Papa ad Avignone, fra Guglielmo, un francescano inglese omonimo di Guglielmo di Occam, pure inglese e francescano e filosofo nominalista (e partigiano dell'Imperatore), si trova a inquisire in una abbazia benedettina italiana tra Appennino e Alpi marittime su certi orrendi fatti. In una settimana sette frati vengono trovati uno per notte uccisi in circostanze misteriose, che però hanno tutte un riferimento alla grande biblioteca del monastero. Questa è una vera fortezza- labirinto, fatta apposta, si direbbe, per scoraggiare il sapere invece che promuoverlo. Vigila su di essa la tetra figura di un monaco tedesco: Iorge (da würgen = strozzare?). Mortali vendette a spirale tra omosessuali o mortali contese di potere? Guglielmo scopre alla fine che era fin peggio: una mortale contesa circa un libro proibitissimo, protetto sopra ogni altro da segreti, divieti, trappole e da un veleno micidiale incollato sulle pagine. Chi, mosso da perversa curiosità, lo toccava, moriva. Che libro? Nientemeno che il presunto libro secondo della Poetica di Aristotele nell'unica copia esistente, dove il filosofo trattava, dopo la tragedia, la commedia ossia l'ironia.
Vedremo più avanti le ragioni della sua estrema pericolosità. Prima occorre sapere della trama interna, ideologica, che attraversa quella esterna. L'intero romanzo si offre infatti ad essere fondamentalmente interpretato come una deriva di riduzioni, mediante identificazione, del valore o senso superiore all'inferiore o del supremo all'infimo e nullo o del diverso all'identico, dove l'identico è ogni volta l'inferiore o infimo o nullo. Si tratta ogni volta, naturalmente, di alti e di bassi presunti, quanto a valore, nella valutazione di chi scrive. I due antagonisti massimi, poi, della romanzesca vicenda, appunto Guglielmo e Iorge, sono interpretabili a massima profondità come, rispettivamente, colui che avalla e colui che frena una simile deriva. Ma ecco anzitutto alcuni esempi emblematici e di progressiva intensità in questo riduzionismo.
Il tema attacca durante un dialogo tra Guglielmo e Ubertino da Casale là nell'abbazia: «Quello che volevo dire è che c'è poca differenza tra l'ardore dei serafini e l'ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un'accensione estrema della volontà […] temo di non sapere più distinguere, Ubertino». E Guglielmo cita a sostegno di questa sua «paura» un brano di Angela da Foligno, dove una sua mistica esperienza di amore con Cristo viene descritta con terminologia erotica. Ubertino, che è uno «spirituale», reagisce con sdegno: «Non è la stessa cosa, c'è un salto immenso». Due pagine dopo sempre Guglielmo insinua che l'identificazione è, più precisamente, riduzione (freudiana) delle passioni anche più nobili e sante, come l'adorazione e l'umiltà, a «lussuria», a quella stessa a cui si riducono in fondo in fondo anche la superbia e la rivolta. Chi leggerà con attenzione questo tema troverà che un filo unico unisce queste prime sue formulazioni con certe ultime, per esempio: «La radice […] dei peccati è la radice stessa della santità». Troverà che questa «radice» è ancora e sempre quell'«ardore», quell’«accensione della volontà» o quella «lussuria» di cui aveva detto Guglielmo, dove il significato di volontà non è evidentemente più quello classico di facoltà della libertà iscritta nell'intelligenza della verità, ma è quello di istinto vitale cieco in senso moderno schopenhaueriano-nietzscheano-freudiano, di cui il desiderio erotico-sessuale è il punto focale massimo (Schopenhauer) o il centro radicale onnicomprensivo (Freud), o la egualmente cieca volontà di potenza che viene prima dell'intelligenza e la determina (Nietzsche). Ed è già per il Guglielmo di Eco quello che sarà per tutti costoro: la sola fondamentale realtà dell'uomo, della quale tutto il resto (intelligenza, spirito, virtù, arte, ecc.) non è che l'alone, l'epifenomeno, il mito, non più realtà ma irrealtà e illusione.
Tutta la massa interna del romanzo conferma questa interpretazione nella linea di un riduzionismo sempre più totale dall'alto al basso mediante identificazione o eliminazione di tutte le differenze. Nessuna differenza viene stabilita, per esempio, tra «eretici» e «cardinali», che sono due «perversioni» uguali e contrarie; e nessuna tra «eresia» e «ortodossia», di cui pure fra Guglielmo non vede più la differenza. Si intende, non nel senso che entrambe sono o vere o false, ma nel senso che la verità in genere non esiste, «non è da nessuna parte». Anche verità e falsità, dunque, si identificano in un medium che le cancella entrambe.
Ma più avanti sembra invece che la verità si trovi dalla parte degli eretici, identificati con gli esclusi di ogni tempo, a loro volta identificati con i «poveri» e i «semplici» di ogni tempo, che sarebbero da sempre gli «esclusi» dai «poteri». Ora i poveri e i semplici hanno «ragione [dunque hanno la verità] perché posseggono l'intuizione dell'individuale», che esclude ogni universale, come insegnava Occam. Peccato però che lo si dica così universalmente di tanti e come criterio universale di verità e dopo che si è detto che non c'è verità.
Guglielmo è accompagnato là nell'abbazia da un giovane novizio benedettino tedesco di nome Adso, che gli fa da segretario. È lui il finto narratore di tutta la vicenda. Sarà via via sempre più conquistato dal riduzionismo radicale di Guglielmo. Ne fa anzi a un certo punto l'esperienza: sperimenterà cioè personalmente l'identità tra l'esperienza mistica di Angela da Foligno e quella erotico-sessuale che egli si prende una notte con una puttanella che i monaci, non contenti della loro omosessualità, avevano introdotto furtivamente in biblioteca.
Una riduzione identificazione più vistosa e universale si ha alla fine: quella tra Dio e il caos primordiale (del possibile: presunto concetto occamistico di Dio), a cui aderisce Guglielmo, e quella, che è però la stessa, a cui aderisce proprio nell'ultima pagina Adso: tra Dio e il nulla, già sopra riferita. Si intende il nulla di noi tutti singolarmente presi, di tutti i nostri io distinti, e di tutte le differenze della realtà, tutte cose destinate a disfarsi alla fine nell'unico, indifferenziato Dio-caos primordiale e finale. Allo stesso modo che tutta l'abbazia, uomini, animali, reparti, libri, sarà ridotta alla fine in cenere da un incendio apocalittico sviluppatosi da un libro che prende fuoco. E allo stesso modo che già Adso aveva profeticamente previsto in un suo sogno, dove aveva visto confondersi e rovesciarsi oscenamente l'una nell'altra le cose, i simboli e le persone più sante e più perverse e, per esempio, Cristo con Giuda e viceversa.
Due verità a sfida
Ma l'identificazione-riduzione più impressionante tentata (ma forse non riuscita) in questo libro è quella che lo stesso Adso intuisce per un lampo e «con un brivido»: tra Guglielmo e Iorge, i due antagonisti massimi là nell'abbazia, che, ormai riconosciutisi a vicenda per tali, si sfidano mortalmente, ma guidati e istigati dalla stessa ambizione di fondo (dalla stessa «lussuria»: vedi sopra) a sopraffarsi a vicenda, l'uno per impadronirsi del libro di cui sopra, al fine di liberarne la verità, e l'altro per nasconderlo o, al limite, distruggerlo col fuoco, allo scopo di soffocarla. All'acme di un diverbio, il dialogo culminante di tutto il romanzo e decisivo dei suoi significati, essi si accusano a vicenda di essere «il diavolo».
Vale la pena analizzare un po' i termini di queste due «diavolerie» in contesa mortale. Nel dialogo di cui si tratta Iorge spiega perché il trattato aristotelico sulla commedia o ironia è pericoloso al punto da dover essere tenuto segreto a tutti i costi, non escluso il delitto. Perché in esso l'ironia vi era approfondita a tal punto fino ai principi da insegnare a ridere per principio di tutto, anche delle cose più venerabili, sante e terribili, quali la «santità», il «peccato», l'«Incarnazione», così che sarebbe stato allora possibile anche peccare senza paura. Il libro avrebbe insegnato a riconoscere la sostanza ridicola di tutta la realtà, a confondere i valori più alti con i più bassi, e dunque a ridere dei primi come dei secondi, anzi addirittura «a tentare di redimere con diabolico rovesciamento l'alto attraverso l'accettazione delle più basso». Avrebbe insegnato, ad esempio, che tutto non è, in fondo e in realtà, che lussuria, istinto erotico-sessuale di vita, identico all'istinto di morte (come insegna Freud), ennesima identificazione riduzione. Era insomma una Aristotele, tutto romanzesco evidentemente, che aveva già intravisto la «verità» nominalistico-nichilistica di Umberto Eco, la verità che non esiste nulla di serio.
Precisamente questa era anche la «verità» che Guglielmo cercava, che già in fondo sapeva. Era davvero una «diavoleria» per Iorge. Una «diavoleria» erano invece per Guglielmo la contro verità di Jorge che le sue contro misure a impedire la diffusione dell'altra. Per Guglielmo «il diavolo e la fede senza sorriso la verità che non viene mai presa in dubbio […] verità che ha il sapore della morte […] la tetraggine».
Evidentemente un «romanzo» strutturato in modo da culminare in simili contrapposizioni, dove è chiara la scelta dell'una posizione contro l'altra, non è stato scritto «per puro amore di scrittura». Esso mira evidentemente a una «verità» contro un'altra «verità», dove la prima è allegramente avallata per vera e la seconda rabbiosamente denunciata per falsa, tenebrosa, disumana. La falsa verità di Iorge è poi evidentemente supposta come quella dell'inquisizione ecclesiastica e in genere della Chiesa cattolica. La vera verità di Guglielmo-Eco è non meno evidentemente quella di una inquisizione «illuministica» e poi inoltre «nominalistica», protesa ad abbattere la prima con l'abbattimento di ogni possibile verità, con il dogma dei nuda nomina.
Ma che cosa possono mai abbattere dei nudi nomi? Se poi la verità è che tutto è da ridere, è da ridere (direbbe proprio Aristotele) anche la teoria che afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere dunque anche l'idea centrale di questo libro. È dunque ridicolo sostenere che tutto è ridicolo. Sarebbe ridicola allora anche per esempio l'intelligenza (magari di Eco) o la scienza, che pure questo nominalismo riduce a dei puri giochi tra parole. E sarebbe allora ridicolo anche il dolore, l'ingiustizia e tanti tragici errori, magari pure dell'inquisizione ecclesiastica.
Ma l’équipe di Bennassar ha dimostrato che perfino l'inquisizione ecclesiastica spagnola è stata per i suoi tempi, a confronto dei tribunali «secolari», un tribunale modello per «serenità» e «discernimento». Neppure la peggiore delle inquisizioni è stata dunque come Eco qui ce la dipinge, come gli piacerebbe fosse stata.
Se c'è uno che non prende mai in dubbio la sua verità è l'Autore di Il nome della rosa nel suo dogmatico assoluto nominalismo e ateismo. Una «tetraggine», una «verità dal sapore di morte», è semmai, di nuovo, questa sua dei nudi nomi, della totale non verità e del nulla nichilistico, alla fine, di tutti noi e di tutte le differenze nel Dio-caos. È poi falso che la verità cattolica sia che tutto è da piangere o che tutto è mortalmente serio: essa distingue benissimo tra più o meno serio e faceto, come distingue tra tante altre cose, scale di valori e disvalori, ragioni di dolore e di gioia (flere cum flentibus, gaudere cum gaudentibus), che invece l'altra «verità» non sa più distinguere nel suo grigio anzi nero e banale riduzionismo.
Un'ultima curiosità. Perché francescano questo Eco dell'uscente Medioevo? Evidentemente perché erano francescani anche gli inglesi Occam e Ruggero Bacone, suoi maestri e supposti antesignani dell'età moderna. Guglielmo simpatizza con i movimenti francescani deviazionisti, è sottilmente ribelle al Papa e parteggia per l'Imperatore (per il potere laico sull’ecclesiastico). Ma la vera ragione originaria della scelta è san Francesco stesso come Eco se lo concepisce. Il «giullare di Dio» pure insegnava a ridere, e rideva, di tutto, e anticipava così a meraviglia l'idea che non c'è niente di serio al mondo. Era l'ispirazione originaria del Poverello.
Solo che poi egli stesso la tradita o gliel'hanno fatta tradire: quando accettò di rientrare sotto l'ombra del Potere, lasciandosi approvare la regola dal Papa. Come a dire che invece del buffone che era destinato a diventare ha accettato di diventare un santo. Ma con la sua vile «inclusione» sotto il Potere egli ha escluso gli esclusi, cioè i poveri e i semplici. Che è un altro lampante falso storico, tra i tanti di questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell'etica, della civiltà e della vita.
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