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lunedì 13 marzo 2017

Contro i persuasori i morte



                                                                                 
marzo 13, 2017                                Alessandro Giuli


                              
Perché bisogna ribellarsi alla spudoratezza di chi chiede una legge sul fine vita e recluta vittime come santini di una religione del nulla



cappato
   


   

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – qualcosa di spettrale e inumano nella vicenda del suicidio assistito che ha posto fine alla vita mineralizzata del dj Fabo. Qualcosa che parla alle viscere animali e che va oltre la dimensione intangibile del trapasso, scavalcando la così detta zona grigia nella quale si adagia in piena legittimità il rapporto personale con la morte, la comare, il varco, la guardiana del fluire chiamata prima o poi a picchiettare sulla spalla d’ogni nato alla vita naturale.
Qui non è a tema soltanto il diritto vero o presunto di averne abbastanza del dolore, a quaranta o più anni, e di consegnare la tensione indicibile accumulata nella sofferenza al gesto estremo, privatissimo, della pietà definitiva. Senza ritorno. Nessuna morte è uguale alle altre così come nessuna vita è degna di essere vissuta se non viene messa costantemente in dubbio. Albert Camus è ancora il nostro contemporaneo: «C’è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio». E qui la filosofia c’entra eccome, ma c’è la filosofia e c’è la cattiva filosofia. Quella inoculata nei giorni nostri non è né l’una né l’altra: è spudoratezza fanatizzata, è la coltre vischiosa delle parole altrui che vogliono innestare il reclamo d’un protocollo pubblico di fine vita nel tronco esanime di un tetraplegico cieco, il cui volto sonoro di pietra viene portato in effigie e contrabbandato come uno scandalo della ragion pura. Una vergogna che corre sull’arco teso tra i soliti persuasori di morte tardoradicali, rianimati appunto dal contatto con gli inferi, e i sofisti del pensiero facile come Roberto Saviano, i professionisti del senso di colpa.
Non m’interessa se il dj Fabio abbia davvero creduto di offrire aiuto a qualcun altro, oltre che a se stesso, quando ha rivolto il suo appello di morte alla cosa pubblica (dal presidente Mattarella in giù); e se possibile rispetto più la sua eccezionale scelta di morte della sua banalissima condotta di vita. Compos sui o no, Fabo ha ottenuto di compiere il suo «nero destino di morte» (Omero); il problema è tutto di quelli che sono ancora in vita, e non sanno ancora se e come legiferare sulla propria biodegradabilità. Ma si dovrebbe invitare ciascuno di noi a indignarsi per l’indignazione di chi, da circa mezzo secolo, ha piantato la bandiera della propria ideologia mortifera sulla linea di confine che separa l’insostenibile pesantezza dell’essere malati dalla spinta liberatoria dell’eutanasia, del suicidio, dell’abbandono a un più o meno consapevole affrancamento dalla manutenzione del dolore (in due parole: accanimento terapeutico, laddove il sostantivo è una trappola semantica mille volte infelice poiché richiama in modo brutale il disputarsi un semi cadavere come l’osso fra i cani randagi).
Immagine tratta dal video prodotto dall'Associazione radicale "Luca Coscioni" per sfruttare il suo caso come bandiera pro eutanasia
Immagine tratta dal video prodotto dall’Associazione radicale “Luca Coscioni” per sfruttare il suo caso come bandiera pro eutanasia


Pannella e i suoi astuti epigoni
In prima fila, sul fronte dei persuasori di morte, ci sono nomi e cognomi di una poco allegra brigata allevata nel regno della denuncia e dell’autodenuncia: li chiamiamo per comodità pannelliani, perché vanno assai oltre al perimetro partitico e di movimento arato dal capostipite. Di Marco Pannella è lecito cogliere la fosca luce di grandezza proiettata su almeno tre generazioni militanti. Sulla sua dottrina, sulla sua ragion pratica e perfino sulla sua estetica, incarnata nelle cento e astute pelli degli epigoni (da Emma Bonino in giù) è invece consigliabile esercitare un dubbio metodico e corazzato, spalle larghe e scudo e lancia. Per difendere se stessi (sono la maggioranza fra gli amministratori del senso comune) e per difendere quell’ultimo lacerto di umanità che ancora ci divide dall’assolutismo dell’autodeterminazione.
Potremmo cominciare dai feti abortiti, tenendoci però a debita distanza dalla contesa con armi non convenzionali sul corpo delle donne e sui loro sacrosanti diritti. Ma – ed ecco un punto, se non il punto – di fronte al dramma tutto umano della rinuncia e della soppressione (avviene soltanto nella nostra specie) esistono due vie irriducibili l’una all’altra e che si dipartono dalla stessa condizione: il rispetto del dato di fatto consacrato per via referendaria. L’una dirige verso l’alto, va verso la vita e in nome di questa si fa garante dell’esplorazione millimetrica d’ogni possibilità culturale e materiale che scongiuri l’atto cruento. L’altra inclina, anzi milita verso il basso e della gravidanza indesiderata fa il manifesto d’una costrizione risolvibile con una pompa per biciclette.
Potremmo, anzi vogliamo aggiungere i volti di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e Luca Coscioni; se non pure di Lucio Magri e di altri innumerevoli corpi intorno ai quali si è combattuta a vario grado, e si combatterà sempre, la battaglia sull’ostensione del disfacimento (anche interiore) come pretesto civile per legalizzare la morte indotta. Il signor Fabo è giunto adesso a ricordarci la pietà dovuta a chi ormai, né morto né vivo, si fa supplice in nome di Euripide: «Chi può sapere se il vivere non sia morire, e il morir vivere?», ma al tempo stesso ci richiama all’ammissione che ogni sfinge appartiene alla sua città e soltanto a quella, che ogni soluzione irreversibile ha il tratto dell’unicità, e che nemmeno un moribondo dovrebbe godere del diritto di trasformare la propria fine in giurisprudenza. Se poi addirittura sono i vivi a pretenderlo, magnificando l’anonimato di un crematorio svizzero come il modello di un paradiso nullificante al cui veleno attingere in nome del primato della coscienza; ecco, allora ribellarsi è giusto.

Un Socrate capovolto
C’è infine un’aggravante che ci tocca più da vicino, perché afferisce alla sfera della narrazione, all’epica sdrucciola arrangiata dai cantori mediatici della dolce morte. Il racconto delle ultime ore dell’ideale condannato par soi-même ha un che di sospetto: Fabo invita i superstiti del mondo che sta lasciando ad allacciarsi le cinture; Fabo riunisce a convegno notturno gli affetti di un’esistenza trascorsa; Fabo ripesca gioie d’occasione dai labirinti della memoria… Fabo che insomma vive prima di addentare la morte. Chi è, Fabo, se non l’anti Socrate? Immagine speculare e capovolta del filosofo che nel Fedone, dialogo del Platone ormai maturo, intrattiene i propri discepoli a poche ore dal congedo, li conforta con la visione dell’immortalità contrapposta al calice di cicuta che segherà le sbarre invisibili di quel carcere dell’anima chiamato corpo. Ma Socrate muta in farmaco il veleno di una condanna alla pena capitale inflitta da una polis irrigidita dalla paura e dalla diffidenza, è una vittima pubblica trasfigurata dalla conoscenza personale, iniziatica. Il valore simbolico del suo epilogo sta nella forza del sacrificio espiatorio di chi è costretto a riscattare la vita pubblica con la morte privata. Altro è il volersi immolare privatamente per sfamare l’altare della morte di Stato, e peggio ancora il voler reclutare vittime come santini di una religione del nulla


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