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lunedì 13 marzo 2017

Dolce morte diversa da eutanasia nazista? Ecco la verità
Josef Mengele
di Gianmaria Spagnoletti

È a tutti noto che il Direttore di La Croce, Mario Adinolfi, è stato violentemente criticato per aver paragonato la “dolce morte” all’eutanasia nazista. Quest’ultima, lo ricordiamo, andava sotto il nome in codice di «Azione T4» e causò all’incirca 70 mila morti, in gran parte disabili fisici e mentali, ma anche mutilati, persone con sindrome di Down o affette da malattie degenerative. Ma prima dell’attuazione del programma, l’opinione pubblica tedesca fu accuratamente indottrinata sui “benefici” della soppressione di disabili e mutilati, le cosiddette «vite indegne di essere vissute». Si disse ad esempio che gli istituti sanitari avrebbero risparmiato ingenti quantità di denaro smettendo di curare questi pazienti (specie in vista della guerra sempre più vicina).
Per assicurare il massimo livello di persuasione del pubblico furono girati anche dei film:
Das Erbe («L’eredità», 1935), che affrontava il tema delle tare ereditarie nell’ottica dell’interpretazione nazista del darwinismo e della sopravvivenza del più forte.
Opfer der Vergangenheit («Vittime del passato», 1937), in cui il popolo “ariano” e sano veniva messo in confronto con gli esseri “deformi” delle corsie degli ospedali psichiatrici, presentati come il frutto malsano di uno sviamento dalle regole della “selezione naturale” a cui la medicina nazista era chiamata a porre rimedio;
Ich klage an («Io accuso» 1941) dove si narra la storia di un medico che uccide la moglie affetta da sclerosi multipla e che lo implorava di porre fine alle sue sofferenze. Sottoposto a processo, il medico veniva assolto dalla giuria che si interrogava circa la domanda fatta dallo stesso accusato: «Vorreste voi, se invalidi, continuare a vegetare per sempre?».

Benché l’Azione T4 fosse condotta in gran segreto, alcune notizie cominciarono a trapelare al pubblico a guerra già iniziata, causando vibranti proteste. La voce più autorevole che si levò contro questo sterminio fu quella del vescovo di Münster, Clemens August Graf von Galen, che nella sua predica del 3 agosto 1941 disse:

«(…) Da qualche tempo ci giunge notizia che, in case di cura e istituti per disabili mentali, i pazienti già da lungo tempo malati e che forse sembrano incurabili vengono soppressi coercitivamente, per ordine di Berlino. Regolarmente, dopo breve tempo i parenti ricevono comunicazione che il malato è deceduto, che il cadavere è stato cremato e che è possibile farsi recapitare le ceneri. In generale domina il sospetto, vicinissimo alla certezza, che questi numerosi decessi inattesi di malati di mente non avvengano in modo naturale, ma vengano causati di proposito secondo il principio per cui si pensa di poter sopprimere le cosiddette vite indegne di essere vissute, cioè uccidere esseri umani innocenti quando si pensi che la loro vita non sia più di valore per il Popolo e lo Stato. È un insegnamento spaventoso, che legittima l’omicidio di innocenti, e che fondamentalmente ammette l’uccisione forzata dei non più abili al lavoro, degli storpi, dei malati incurabili, degli anziani (…).»

«Come ho saputo da fonti affidabili, ora anche nelle case di cura e negli istituti della Provincia di Vestfalia vengono redatte delle liste [di eliminazione NdT] (…).
Già il 26 luglio avevo inoltrato una accorata protesta scritta all’Amministrazione della Provincia di Vestfalia, che sovrintende a questi istituti. Non vi è stato nessun seguito! (…)
Quindi dobbiamo tenere conto del fatto che i poveri e indifesi malati, presto o tardi, vengano soppressi. Perché? (…) Si giudica così: essi non possono più produrre beni e sono come una macchina che non funziona più, sono come un vecchio cavallo che si è azzoppato senza poter guarire; sono come una mucca che non dà più latte. Che si fa con questa vecchia macchina? Viene demolita. Che si fa con un cavallo zoppo, con un capo di bestiame improduttivo? No, non spingerò all’estremo il paragone – tanto è spaventosa la sua chiarezza! Ma qui non si tratta di macchine, non si tratta di un cavallo, o di una mucca (…).No! Qui si tratta di esseri umani, di nostri simili, nostri fratelli e sorelle! Povere persone, poveri malati, improduttivi, a mio parere! Ma con ciò il diritto alla vita viene loro tolto? Tu hai, o io ho il diritto alla vita finché siamo produttivi? Finché veniamo riconosciuti come produttivi da qualcuno?
Quando si dispone e si utilizza il principio che si possa uccidere il nostro fratello „improduttivo“ allora guai agli invalidi, che hanno impiegato, sacrificato e perso nel processo di produzione la loro forza e le loro ossa sane! Quando è permesso di eliminare a forza il nostro fratello improduttivo, allora guai ai nostri soldati, che fanno ritorno in Patria come feriti gravi di guerra, come storpi e come invalidi!! Una volta ammesso che gli uomini abbiano il diritto di uccidere fratelli “improduttivi“, - anche se per il momento ciò riguarda solo poveri e indifesi malati di mente – allora è consentito l’omicidio di tutti gli esseri umani “inutili”, cioè dei malati incurabili, degli storpi inabili al lavoro, degli invalidi civili e di guerra. Allora è consentito l’omicidio di noi tutti quando saremo diventati vecchi, segnati dagli anni e improduttivi. (…)
Allora nessuno è più sicuro della propria vita».

Von Galen puntò il dito contro l’evidente illegittimità della situazione, ricordando che la legge tedesca prevedeva la pena di morte per l’omicidio volontario:

«Uomini e donne di Germania! È ancora in vigore il paragrafo 211 del Codice Penale imperiale, che recita: “Chi uccide un uomo volontariamente, se compie il crimine con premeditazione, viene punito con la morte in quanto colpevole di omicidio”. Probabilmente proprio per proteggere dalla punizione prevista per legge coloro che uccidono intenzionalmente quei poveri esseri umani, membri delle nostre famiglie, i malati destinati a essere uccisi vengono portati dal paese natale in un istituto lontano. Come causa di morte viene addotta una qualche malattia. Dato che il cadavere viene subito cremato, né i parenti, né la Polizia criminale possono più accertare se la malattia si sia effettivamente presentata, e quale sia stata la causa di morte. Ma mi è stato assicurato che al Ministero degli Interni e nell’ufficio del Segretario di Stato alla Sanità Dr. Conti non si fa alcun mistero che, effettivamente, in Germania un gran numero di malati di mente è già stato ucciso e verrà ucciso in futuro».

Le proteste di von Galen non furono ascoltate e l’uccisione delle “vite indegne” andò segretamente avanti fino al 1945, in “ospedali” che in realtà erano veri e propri centri di sterminio (l’eliminazione avveniva mediante iniezione letale o monossido di carbonio). Ma il coraggio del presule gli valse l’appellativo di «Leone di Münster» e la nomina a cardinale poco prima della sua morte, nel 1946. La sua alta posizione gerarchica lo salvò dalla morte, ma così non fu per molti sacerdoti che avevano voluto imitarlo: uno di questi fu Bernhard Lichtenberg, prevosto di Berlino, che dal 1938 osò pregare pubblicamente per gli ebrei perseguitati e più tardi protestò contro la soppressione degli handicappati, perché questi crimini contraddicevano il precetto cristiano dell’amare il prossimo come se stessi. Nel 1942 Lichtenberg fu arrestato per «abuso di pulpito» (Kanzelmissbrauch) e «infrazione dell’ordinanza contro le malelingue» (Heimtuckgesetz) e imprigionato. Fu condannato all’internamento nel campo di concentramento di Dachau, ma non resse ai maltrattamenti subiti e spirò durante la deportazione, il 5 novembre 1943.

Rileggete le parole del vescovo von Galen: è evidente  che tra la situazione di ieri e quella di oggi ci sono pesantissime somiglianze. Dire questo non è voler fare polemica, ma è semplicemente difendere una evidenza storica. Ora che ve ne abbiamo dato la prova, cari lettori, fate conoscere a tutti la verità. Fate che la storia non si ripeta.

da La Croce  

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