Nei momenti terribili della vita umana,
molti Salmi sono un forte grido a Dio:
“Aiutaci, ascoltaci!”.
Dove sei tu Dio? “Siamo venduti come pecore da macello”.
Un grido dell’umanità sofferente!
E Gesù, che è il vero soggetto dei Salmi,
porta realmente questo grido dell’umanità a Dio, alle orecchie di Dio:
“Aiutaci e ascoltaci!”.
Egli trasforma tutta la sofferenza umana,
prendendola in se stesso, in un grido alle orecchie di Dio.
E così vediamo che proprio in questo modo realizza il sacerdozio,
la funzione del mediatore, trasportando in sé,
assumendo in sé la sofferenza e la passione del mondo,
trasformandola in grido verso Dio,
portandola davanti agli occhi e nelle mani di Dio,
e così portandola realmente al momento della Redenzione.
Benedetto XVI
SALVATI DALLA PREGHIERA CROCIFISSA DEL SIGNORE
Le
“parole” su di Lui e le “folle numerose” in cerca di guarigione e
consolazione, spingono Gesù a «ritirarsi in luoghi deserti a pregare»,
obbedendo alla volontà di Dio; non cerca fama e successo, come i
mercenari e i falsi profeti: è il Buon Pastore che lascia le novantanove
pecore per gettarsi alla ricerca di quella perduta, malata e ferita,
perché Egli cerca l’uomo e non le folle. Per questo Gesù va a rifugiarsi nel luogo dal quale il lebbroso desiderava essere liberato,
il deserto di angoscia e morte dove la sua impurità lo aveva relegato,
la solitudine che annuncia il Getsemani, il Golgota e il sepolcro. Egli
percorre il cammino inverso di quello dell’uomo che aveva appena
guarito, primizia dei lebbrosi di ogni generazione. Gesù scende
nell’abisso della sofferenza, della solitudine e della morte di ogni uomo per
deporvi la sua preghiera: “nei giorni della sua vita terrena Egli offrì
preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva
liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio,
imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto,
divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”
(Eb. 5, 5-9). Benedetto XVI commenta così questo brano: “Offrì… è una traduzione giusta del verbo prospherein,
parola cultuale che esprime l’atto dell’offerta dei doni umani a Dio…
del sacrificio. Così, con questo termine cultuale applicato alle
preghiere e lacrime di Cristo, dimostra che le lacrime di Cristo,
l’angoscia del Monte degli Ulivi, il grido della Croce, tutta la sua
sofferenza non sono una cosa accanto alla sua grande missione… Proprio
con questo “offrì”, prospherein, Gesù porta l’umanità a Dio, così si fa sacerdote…”. Quel
Rabbì di Nazaret era dunque il Sacerdote dal quale il lebbroso aveva
sognato di andare un giorno a presentare la sua carne guarita come
prescriveva la Legge. Il Sommo Sacerdote di cui aveva bisogno, Santo,
perfetto e separato dagli uomini, ora era lì, accanto a lui; non si
trovava nel Tempio ad aspettare per certificare, ma gli era accanto, dentro alla sua solitudine, per presentare se
stesso e lui al Padre come offerta per i peccati. Gesù era il Sommo
Sacerdote che sapeva compatire le sue infermità, perché sarebbe stato
lui stesso, di lì a poco, provato in ogni cosa, piagato dalla sua stessa
lebbra. Quel lebbroso si poteva dunque accostare con piena fiducia la
trono della Grazia, per ricevere misericordia e trovare Grazia ed essere
aiutato proprio in quel momento opportuno (cfr. Eb. 4, 15-16) per essere trasformato e divinizzato.
Gesù realizza la sua missione dando compimento a quanto “Mosè ha prescritto”: la Purezza si fa carne nella carne malata, la vita fiorisce nel deserto, nella morte esplode la Vita. La preghiera solitaria di Gesù dà voce al grido di ciascun uomo prigioniero della lebbra e forma così la comunità dei santi, la Chiesa purificata dal suo sangue, sacramento di salvezza per le Nazioni: “La
preghiera di Gesù è stata esaudita, nel senso che realmente la sua
morte diventa vita, il luogo da dove redime l’uomo, da dove attira
l’uomo a sé” (Benedetto XVI). La Chiesa allora è proprio il luogo dove si registrano i
miracoli di Dio, l’assemblea dove, davanti ai sacerdoti, “rendere
testimonianza” alla misericordia di Dio che continua a visitare il suo
popolo. La riammissione del lebbroso segregato, dopo la constatazione
della scomparsa delle pustole, veniva suggellata da un sacrificio come
per l’espiazione di un peccato. Per questo, culmine e fonte della
liturgia, è l’eucarestia, il rendimento di grazie per i miracoli operati
nei cristiani dall’Unico Sommo Sacerdote, per il perdono che ha
purificato le pustole dell’orgoglio, dei giudizi, della concupiscenza e
di ogni peccato. Nella Chiesa risuona la preghiera del lebbroso:
“Signore, Kyrios, se vuoi puoi guarirmi. Se è la tua
volontà puoi purificarmi”. E Gesù non può che rispondere “Certo che è la
mia, lo voglio, sii purificato!”. Ma è questa la nostra preghiera?
Oppure è un subdolo “se puoi”, il capriccio di chi si arrampica sino al
Cielo per esigere che Dio faccia la sua volontà? La preghiera autentica è già una professione di fede: “abbi pietà di me peccatore”, se la
tua volontà è la mia santificazione, allora certo puoi guarirmi da
quanto mi impedisce d’essere e vivere obbedendo ad essa. Non si tratta
del se di chi dubita orgogliosamente, ma di un se che esprime l’umiltà di chi non ha nulla da pretendere ed esigere perché indegno di tutto. E’ il se che
contiene la certezza della volontà misericordiosa di Dio, e professa la
fede della creatura ferita dal peccato che riconosce di non
appartenersi, che bussa alla porta del suo Creatore perché lo accolga di
nuovo nella sua comunione. E’ un “se” che si apre al “si” di Dio. Il
lebbroso è malato, ma il fondo del suo cuore è puro, perché vi alberga
la consapevolezza di essere comunque immagine e somiglianza del Puro e
Santo. Il se sgorga proprio dall’estremo baluardo, l’enclave divina che
ha resistito all’assedio del demonio che ha conquistato tutto il resto,
il frammento d’anima inattaccabile perché è dove Dio ha deposto il suo
seme di vita eterna, incorruttibile. Per questo, anche dopo un miliardo
di peccati, la stessa libertà che ha deciso di occultare e dimenticare
Dio e vivere come se non esistesse, può voltarsi, convertirsi, e pronunciare il se che
riapre i giochi, che dà il via libera alla controffensiva di Dio, che,
“immediatamente”, ha ragione del nemico, il demonio che ha ucciso carne e
mente, ma non ha potuto nulla contro l’anima. Tutto il male, tutti i
peccati accumulati sino ad oggi sono nulla in confronto a
quell’impercettibile seme di vita eterna che alberga in ogni uomo e che
attende solo d’essere innescato. Tutto quello che durante una vita di
tentazioni e cadute, trappole astute e subdoli inganni, è stato ferito, e
raso al suolo, può essere risuscitato, trasfigurato e portato a
compimento in un istante, perché Dio è onnipotente di fronte al
più grande peccato, alla vita più corrotta. Per questo Gesù viene alla
nostra città, scendendo nel nostro deserto. In qualunque situazione,
nelle relazioni familiari complicate e senza sbocco, quando bruciano le
tentazioni tra due fidanzati, e magari si è caduti e il mondo sembra
franare addosso tra giudizi e disprezzo di se stessi, Gesù si fa vicino a
ciascuno suscitando quel “se vuoi puoi guarirmi”, la preghiera umile
che tocca il suo cuore perché Egli “stenda la mano” e ci tocchi con la sua Grazia, attraverso i sacramenti donati alla sua Chiesa.
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