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lunedì 2 marzo 2020


NEWS 2 marzo 2020    di Lorenzo Bertocchi


Varie epidemie hanno assalito l’impero romano, come quella del 165 d.C. e quella del 251 d.C., devastazioni demografiche che hanno contribuito in modo significativo alla caduta dell’impero. Rodney Stark, sociologo delle religioni, nel suo libro Ascesa e affermazione del cristianesimo (Ed. Lindau) ha scritto che queste epidemie contribuirono molto all’espansione del cristianesimo.
C’è un fattore decisivo che lo spiega, si chiama carità. Lasciamo la parola a Dionisio, vescovo di Alessandria, in una sua lettera pastorale scritta nel 260 d.C.:
«La maggior parte dei nostri fratelli, dunque, senza aver alcun riguardo per se stessi, per un eccesso di carità e amore fraterno, accostandosi gli uni agli altri, visitavano senza preoccupazione gli ammalati, li servivano meravigliosamente, li soccorrevano in Cristo e morivano assai gioiosamente con loro; contagiati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo e ne assumevano volentieri le sofferenze. Molti poi, dopo aver curato e ridato forza agli altri, morirono essi stessi […]. Dunque i migliori dei nostri fratelli persero in questo modo la vita, alcuni presbiteri, diaconi e laici, furono grandemente lodati, al punto che anche questo genere di morte, frutto di grande pietà e fede coraggiosa, non sembrò per nulla inferiore al martirio».
Al contrario, i pagani generalmente fuggivano ai primi segni della malattia, anche se ad ammalarsi erano i loro cari. L’atteggiamento caritatevole dei cristiani risultava così decisivo e attraeva tutti. Questo fattore era talmente fondamentale che vi furono anche tentativi di imitazione “per legge”, come quello proposto dall’imperatore Giuliano che, pur odiando «i galilei», nel 362 d.C. scrive al sommo sacerdote Galata, per dirgli che i pagani avevano bisogno di eguagliare i cristiani in quanto la loro ascesa era dovuta alla loro «qualità morale» e alla loro «benevolenza verso gli estranei e la loro attenzione per le tombe dei morti».
Ponzio, storico del vescovo Cipriano, pastore di Cartagine all’epoca dell’epidemia del 251 d.C., scrive di come lo stesso Cipriano istruiva il suo gregge dicendo che «non era cosa da ammirare se noi trattavamo col dovuto amore soltanto i confratelli: poteva invece diventare perfetto chi avesse fatto qualcosa in più rispetto al pubblicano e al pagano, chi vincendo il male col bene e uniformandosi all’esempio della clemenza divina avesse amato anche i nemici […]. Si provvedeva al bene non soltanto dei fratelli nella fede».
Un amore così non nasce spontaneo. E nessun imperatore o sacerdote pagano avrebbe mai potuto istituirlo “per legge”. Né ieri, né oggi, né mai. Ciò che anima i cristiani è la speranza della vita eterna e beata: il presente viene vissuto e interpretato nella prospettiva della vita futura. Il cristiano, diceva Cipriano nella sua opera De mortalitate, non crede in Cristo per essere immune dai mali del tempo, ma il cristiano coglie ogni occasione della vita (anche quelle apparentemente più dure) per fare il bene in vista della vita eterna.
I primi cristiani fecero così la differenza, animati da fede, speranza e carità; cosa si dirà di noi, cristiani di oggi?

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