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martedì 3 marzo 2020

BENEDETTO XVI. IL PADRE NOSTRO. Da 'Gesù di Nazaret'



Padre nostro nei cieli

Iniziamo con l'invocazione «Padre». Nella sua interpretazione del Padre nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: «Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l'intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio» (p. 10). L'uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola «padre», poiché l'esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall'insufficienza dei padri. Così dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa «padre» propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell'uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni...» (Mt 5,44s). «L'amore sino alla fine» (cfr. Gv 13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci invita a diventare a nostra volta «figli» - a partire da questo criterio. Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9ss). Luca specifica le «cose buone» che dà il Padre, dicendo: «Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11,13). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La «cosa buona» che Egli ci dona è Lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi - questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c'è bisogno» (cfr. Lc 10,42). La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.
Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall'amore per i nemici e a trovare in ciò la propria «perfezione» così da diventare noi stessi «figli», allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. «Chi ha visto me ha visto il Padre», dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: «Mostraci il Padre» (Gv 14,8s). «Signore, mostraci il Padre», ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità. Il Padre nostro non proietta un'immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo - da Gesù - ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini. Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l'essere Padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzitutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l'essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l'uomo in modo tutto particolare. Il Salmo 33,15, secondo la traduzione latina, dice: «Egli che ha plasmato i cuori di tutti [...] fa attenzione a tutte le loro opere». Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell'immagine biblica dell'uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l'essere umano è in modo speciale «figlio» di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l'uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.
Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità dì Dio. Cristo è in modo unico «immagine di Dio» (cfr. 2 Cor 4,4; Col 1,15). In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l'uomo «a sua immagine», guardò in anticipo a Cristo e creò l'uomo a immagine del «nuovo Adamo», dell'Uomo che è il canone dell'umanità. Soprattutto, però, Gesù è «il Figlio» in senso proprio - è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio. Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l'equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come «figlio» e «figlia». «Tutte le cose mie sono tue», dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (cfr. Lc 15,31). La parola «Padre» ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all'inizio della storia del peccato dell'umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che «essere figli» non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l'esistenza umana, le dà senso e grandezza.
Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell'amore di Dio con l'amore di una madre esiste: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell'amore materno di Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa «grembo materno», ma poi diventa il termine per il compatire di Dio con l'uomo, per la misericordia di Dio. Nell'Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell'uomo o anche i sentimenti di Dio, così come «cuore» o «cervello» sono ancora oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l'Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell'esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l'espressione più concreta dell'intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l'uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale. Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell'uomo l'amore della madre appare inscritto nell'immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è un'immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell'uomo e della donna. Le divinità-madri, che circondavano il popolo d'Israele come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un'immagine del rapporto tra Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all'immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. Partendo da questo presupposto, l'essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un'emanazione dal grembo materno dell'Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti. Al contrario, l'immagine del padre era ed è adatta a esprimere l'alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l'esclusione delle divinità-madri l'Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell'amore materno, «madre» non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto.
Da ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola «nostro». Solo Gesù poteva dire «Padre mio» a pieno diritto, perché solo Lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire: «Padre nostro». Solo nel «noi» dei discepoli possiamo dire «Padre» a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente «figli di Dio». Così questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro «io». Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l'altro, gli altri - di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola «nostro» diciamo «sì» alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale. Nel recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore, ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l'intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.
A partire da questo «nostro» comprendiamo ora anche l'ulteriore aggiunta: «che sei nei cieli». Con queste parole noi non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome», dice san Paolo (Ef 3,14s). Sullo sfondo udiamo la parola del Signore: «Non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9). La paternità di Dio è più reale della paternità umana, perché ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli ci ha pensati e voluti fin dall'eternità; perché è Lui che ci dona l'autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque quell'altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino. La paternità «nei cieli» ci rimanda a quel «noi» più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.

Sia santificato il tuo nome


La prima domanda del Padre nostro ci ricorda il secondo comandamento del Decalogo: «Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio» (Es 20,7; cfr. Dt 5, 11). Ma che cos'è «il nome di Dio»? Quando ne parliamo, ci torna in mente l'immagine di Mosè, che nel deserto vede un roveto che arde, ma non si consuma. In un primo momento, spinto dalla curiosità, si avvicina per vedere questo avvenimento misterioso quand'ecco che dal roveto una voce lo chiama, e questa voce gli dice: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Questo Dio lo rimanda in Egitto con l'incarico di condurre fuori dall'Egitto il popolo d'Israele e guidarlo nella terra promessa. Nel nome di Dio, Mosè dovrà chiedere al faraone la liberazione di Israele. Ma nel mondo di allora c'erano molti dèi; così Mosè chiede a Dio il suo nome, il nome con il quale questo Dio dimostra la sua particolare autorità di fronte agli altri dèi. L'idea del nome di Dio appartiene quindi inizialmente al mondo politeistico; in esso anche questo Dio deve darsi un nome. Ma il Dio che chiama Mosè è veramente Dio. Dio nel senso vero e proprio non esiste nella pluralità. Dio è per sua natura uno solo. Per questo non può entrare nel mondo degli dèi come uno dei tanti, non può avere un nome in mezzo agli altri nomi. Così la risposta di Dio è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di sé semplicemente: «Io sono colui che sono» - Egli è, e basta. Questa affermazione è insieme nome e non-nome. Perciò era assolutamente corretto che in Israele non si pronunciasse questa autodefinizione di Dio percepita nella parola YHWH, che non la si degradasse a una specie di nome idolatrico. E pertanto non è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si scriva come un qualsiasi nome questo nome per Israele sempre misterioso e impronunciabile, riducendo così il mistero di Dio, del quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili, all'ordinarietà di una comune storia delle religioni.
Resta però vero che Dio non ha semplicemente rifiutato la richiesta di Mosè, e per comprendere questo strano intreccio di nome e non-nome dobbiamo renderci conto di che cos'è veramente un nome. Potremmo dire in modo molto semplice: il nome crea la possibilità dell'invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che cosa, positivamente, sia inteso col nome di Dio: Dio stabilisce una relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui. Ma ciò significa: Egli si consegna in qualche modo al nostro mondo umano. È divenuto accessibile e perciò anche vulnerabile. Affronta il rischio della relazione, del-'essere con noi. Ciò che giunge a compimento nell'incarnazione ha avuto inizio con la consegna del nome. Di fatto vedremo nella riflessione sulla preghiera sacerdotale di Gesù che Egli lì si presenta come il nuovo Mosè: «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini...» (Gv 17,6). Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo. Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani.
Da qui comprendiamo che cosa significhi la richiesta della santificazione del nome di Dio. Ora del nome di Dio si può abusare e così macchiare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così l'immagine di Dio. Quanto più Egli si consegna nelle nostre mani, tanto più noi possiamo oscurare la sua luce; quanto più Egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile. Martin Buber ha detto una volta che con tutto l'infame abuso fatto del nome di Dio potremmo perdere il coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto del suo amore che ci viene incontro. Buber dice che potremmo quindi solo con profondo rispetto raccogliere di nuovo i frammenti del nome imbrattato e cercare di purificarli. Ma da soli non ne siamo affatto capaci. Possiamo soltanto implorare Lui stesso che non lasci annientare la luce del suo nome in questo mondo. E questa supplica affinché Egli stesso si prenda cura della santificazione del suo nome, protegga il meraviglioso mistero della sua accessibilità da parte nostra e, sempre di nuovo, esca nella sua vera identità dalla deformazione causata da noi - questa supplica, tuttavia, costituisce sempre per noi anche un grande esame di coscienza: come tratto io il santo nome di Dio? Sto con timor riverenziale davanti al mistero del roveto ardente, davanti all'incomprensibile modalità della sua vicinanza fino alla presenza nell'Eucaristia, nella quale Egli si consegna davvero totalmente nelle nostre mani? Mi preoccupo che la santa coabitazione di Dio con noi non trascini Lui nel sudiciume, ma elevi noi alla sua purezza e santità?

Venga il tuo regno


Riflettendo sulla domanda relativa al regno di Dio ci torneranno in mente tutte le considerazioni che abbiamo fatto in precedenza sull'espressione «regno di Dio». Con questa domanda riconosciamo anzitutto il primato di Dio: dove Lui non c'è, niente può essere buono. Dove non si vede Dio, decade l'uomo e decade il mondo. E in questo senso che il Signore ci dice: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Con questa parola viene stabilito un ordine di priorità per l'agire umano, per il nostro atteggiamento nella vita di tutti i giorni. Non ci viene affatto promesso un paese della cuccagna per il caso che si sia pii o in qualche modo desiderosi del regno di Dio. Non viene prospettato alcun automatismo di un mondo funzionante come quello proposto nell'utopia della società senza classi, nella quale tutto dovrebbe andar bene da sé, solo perché non esiste la proprietà privata. Gesù non ci offre ricette così facili. Stabilisce piuttosto - come detto - una priorità decisiva per tutto: «regno di Dio» vuol dire «signoria di Dio» e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. Questa volontà crea giustizia, nella quale è insito che noi riconosciamo a Dio il suo diritto e in ciò troviamo il criterio su cui misurare il diritto tra gli uomini.
L'ordine delle priorità che Gesù qui ci indica può ricordarci la narrazione veterotestamentaria circa la prima preghiera di Salomone dopo la sua intronizzazione. Lì si racconta che il Signore di notte apparve in sogno al giovane re e gli concesse di porgli una richiesta per la quale gli assicurava l'esaudimento. Un classico tema dei sogni dell'umanità! Che cosa chiede Salomone? «Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1 Re 3,9). Dio lo loda perché non ha chiesto - come sarebbe stato spontaneo - né ricchezza, né beni, né gloria, né la morte dei suoi nemici e neppure una lunga vita (cfr. 2 Cr 1,11), ma la cosa veramente essenziale: il cuore docile, la capacità di distinguere il bene dal male. E perciò Salomone ottiene poi anche il resto in aggiunta. Con la domanda: «venga il tuo regno» (non il nostro!) il Signore vuole condurci proprio a questo modo di pregare e di stabilire le priorità del nostro agire. La prima cosa, quella essenziale, è il cuore docile, perché sia Dio a regnare e non noi. Il regno di Dio viene attraverso il cuore docile. Questa è la sua via. E per questo noi dobbiamo pregare sempre.
A partire dall'incontro con Cristo questa domanda assume una valenza ancora più profonda, diventa ancora più concreta. Abbiamo visto che Gesù è il regno di Dio in persona; dove è Lui, là è «regno di Dio». Così la domanda per avere il cuore docile è divenuta la domanda per la comunione con Gesù Cristo, la domanda di poter diventare sempre di più «uno» con Lui (cfr. Gal 3,28). È la domanda per la vera sequela, che diventa comunione e ci rende un solo corpo con Lui. Reinhold Schneider lo ha espresso in modo penetrante: «La vita di questo regno è la prosecuzione della vita di Cristo nei suoi; nel cuore che non viene più alimentato dalla forza vitale di Cristo, il regno finisce; nel cuore che da essa viene toccato e trasformato, comincia [...] Le radici dell'albero inestirpabile cercano di penetrare in ogni cuore. Il regno è uno; sussiste soltanto mediante il Signore che è la sua vita, la sua forza, il suo centro...» (p. 31s). Pregare per il regno di Dio significa dire a Gesù: Facci essere tuoi, Signore! Pervadici, vivi in noi; raccogli nel tuo Corpo l'umanità dispersa, affinché in te tutto venga sottomesso a Dio e tu poi possa consegnare l'universo al Padre, cosicché «Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,26-28).

Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra


Dalle parole di questa domanda si rendono immediatamente evidenti due cose: c'è una volontà di Dio con noi e per noi che deve diventare il criterio del nostro volere e del nostro essere. E ancora: la caratteristica del «cielo» è che lì immancabilmente vien fatta la volontà di Dio, o con altre parole: dove si fa la volontà di Dio, è cielo. L'essenza del cielo è l'essere una cosa sola con la volontà di Dio, l'unione tra volontà e verità. La terra diventa «cielo», se e in quanto in essa vien fatta la volontà di Dio, mentre è solo «terra», polo opposto del cielo, se e in quanto essa si sottrae alla volontà di Dio. Perciò noi chiediamo che le cose in terra vadano come in cielo, che la terra diventi «cielo».
Ma che cosa significa «volontà di Dio»? Come la riconosciamo? Come possiamo adempierla? Le Sacre Scritture partono dal presupposto che l'uomo nel suo intimo sappia della volontà di Dio, che esista una comunione di sapere con Dio, profondamente inscritta in noi, che chiamiamo coscienza (cfr., per es., Rm 2,15). Ma esse sanno anche che questa comunione di sapere con il Creatore, che Egli stesso ci ha dato creandoci «a sua somiglianza», è stata sepolta nel corso della storia -mai estínguíbíle totalmente, essa tuttavia è stata ricoperta in molti modi; una fiamma debolmente guizzante, che troppo spesso rischia di essere soffocata sotto la cenere di tutti i pregiudizi immessi in noi. E per questo Dio ci ha parlato nuovamente, con parole nella storia che si rivolgono a noi dall'esterno e danno un aiuto al nostro sapere interiore ormai troppo velato. Il nucleo di queste «lezioni sussidiarie» della storia, nella rivelazione biblica, è il Decalogo del monte Sinai che - come abbiamo visto - dal Discorso della montagna non viene per nulla abolito o reso una «legge vecchia» ma, sviluppato ulteriormente, risplende ancora più chiaramente in tutta la sua profondità e grandezza. Questa Parola - l'abbiamo visto - non è una cosa che all'uomo viene imposta dall'esterno. Essa è - nella misura in cui siamo capaci di riceverla - rivelazione della natura di Dio stesso e con ciò spiegazione della verità del nostro essere: ci viene svelato lo spartito della nostra esistenza, di modo che possiamo leggerlo e tradurlo nella vita. La volontà di Dio deriva dall'essere di Dio e ci introduce quindi nella verità del nostro essere, ci libera dall'autodistruzione mediante la menzogna. Poiché il nostro essere proviene da Dio, possiamo, nonostante tutte le sozzure che ci ostacolano, metterci in cammino verso la volontà di Dio. Il concetto veterotestamentario di «giusto» significava proprio questo: vivere della parola di Dio e così della volontà di Dio ed entrare progressivamente in sintonia con questa volontà.
Ma quando Gesù ci parla della volontà di Dio e del cielo, in cui si compie la volontà di Dio, questo ha di nuovo a che fare in modo centrale con la sua missione personale. Presso il pozzo di Giacobbe Egli dice ai discepoli che gli portano da mangiare: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Ciò significa: essere una cosa sola con la volontà del Padre è la fonte della vita di Gesù. L'unità di volontà col Padre è il nocciolo del suo essere in assoluto. Nella domanda del Padre nostro avvertiamo, però, sullo sfondo soprattutto l'appassionata lotta interiore di Gesù durante il suo dialogo nell'Orto degli ulivi: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» - «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,39.42). Di questa preghiera di Gesù, nella quale Egli ci permette di guardare nella sua anima umana e nel suo diventare «una» con la volontà di Dio, dovremo occuparci ancora in modo particolare quando rifletteremo sulla passione di Gesù. L'autore della Lettera agli Ebrei ha individuato nella lotta interiore dell'Orto degli ulivi lo svelamento del centro del mistero di Gesù (cfr. 5,7) e - partendo da questo sguardo nell'anima di Gesù - ha interpretato questo mistero con il Salmo 40. Egli legge il Salmo così: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. [...] Allora ho detto: ecco io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,5ss; cfr. Sal 40,7-9). L'intera esistenza di Gesù è riassunta nella parola: «Ecco io vengo, per fare la tua volontà». Solo così comprendiamo pienamente la parola: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato». E a partire di là comprendiamo ora che Gesù stesso è «il cielo» nel senso più profondo e più autentico -Egli, nel quale e mediante il quale la volontà di Dio vien fatta pienamente. Guardando a Lui impariamo che, di nostro, noi non possiamo mai essere pienamente «giusti»: la forza di gravità della nostra volontà ci trascina sempre di nuovo lontano dalla volontà di Dio, ci fa diventare semplice «terra». Egli invece ci accoglie, ci attrae in alto verso di sé, dentro di sé, e nella comunione con Lui apprendiamo anche la volontà di Dio. Così, in questa terza domanda del Padre nostro, chiediamo ultimamente di avvicinarci sempre di più a Lui affinché la volontà di Dio vinca la forza di gravità del nostro egoismo e ci faccia capaci dell'altezza alla quale siamo chiamati.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano La quarta domanda del Padre nostro ci appare come la più «umana» di tutte: il Signore che orienta il nostro sguardo su ciò che è essenziale, sull'«unica cosa necessaria», sa però anche delle nostre necessità terrene e le riconosce. Egli, che ai suoi discepoli dice: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete» (Mt 6,25), ci invita tuttavia a pregare per il nostro cibo e a trasmettere così la nostra preoccupazione a Dio. Il pane è «frutto della terra e del lavoro dell'uomo», ma la terra non porta alcun frutto, se non riceve dall'alto sole e pioggia. Questa sinergia delle forze cosmiche, che non è stata consegnata nelle nostre mani, si contrappone alla tentazione della nostra superbia di darci la vita da soli e con le sole nostre capacità. Tale superbia rende violenti e freddi. Finisce per distruggere la terra; non può essere altrimenti, perché contrasta con la verità, che cioè noi esseri umani siamo destinati a superarci, e che solo nell'apertura a Dio diventiamo grandi, liberi e noi stessi. Possiamo chiedere e dobbiamo chiedere. Lo sappiamo: se già i padri terreni danno cose buone ai figli quando le chiedono, così Dio non ci rifiuterà i beni che solo Lui può donare (cfr. Lc 11,9-13).
Nella sua interpretazione della preghiera del Signore, san Cipriano richiama l'attenzione su due aspetti importanti della domanda. Come già nell'invocazione «Padre nostro» aveva sottolineato la parola «nostro» nel suo ampio significato, così anche qui pone in risalto che si parla del pane «nostro». Anche qui preghiamo nella comunione dei discepoli, nella comunione dei figli di Dio, e pertanto nessuno può pensare solo a se stesso. Ne consegue un secondo passo: noi preghiamo per il nostro pane - chiediamo quindi anche il pane per gli altri. Chi ha pane in abbondanza è chiamato alla condivisione. San Giovanni Crisostomo, nella sua spiegazione della Prima Lettera ai Corinzi - a proposito dello scandalo che davano i cristiani a Corinto -, sottolinea «che ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone del pane che appartiene a tutti, del pane del mondo». Padre Kolvenbach aggiunge: «Come si può, invocando il Padre nostro sulla mensa del Signore e durante la celebrazione eucaristica nel suo insieme, dispensarsi dall'esprimere l'inalterabile volontà di aiutare tutti gli uomini, propri fratelli, ad ottenere il pane quotidiano?» (p. 98). Con la domanda alla prima persona plurale il Signore ci dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37).
È importante ancora una seconda osservazione di Cipriano. Chi chiede il pane per l'oggi è povero. La preghiera presuppone la povertà dei discepoli. Presuppone persone che, a causa della fede, hanno rinunciato al mondo, alle sue ricchezze e alle sue lusinghe e chiedono ormai solo quanto è necessario per la vita. «A ragione il discepolo chiede il necessario per vivere solo per il giorno stesso, perché gli è vietato di preoccuparsi del domani. Per lui sarebbe anche contraddittorio voler vivere a lungo in questo mondo, dal momento che chiediamo, appunto, che il regno di Dio venga presto» (De dom. or. 19). Nella Chiesa devono sempre esserci persone che abbandonano tutto per seguire il Signore; persone che in modo radicale si affidano a Dío, alla sua bontà che ci nutre - persone, cioè, che in questa maniera propongono un segno di fede che ci scuote dalla nostra spensieratezza e debolezza nel credere. Le persone che si affidano a Dio al punto da non cercare altra sicurezza, riguardano anche noi. Ci incoraggiano a fidarci di Dio - a contare su di Lui nelle grandi sfide della vita. Questa povertà motivata totalmente dall'impegno per Dio e il suo regno è allo stesso tempo un atto di solidarietà con i poveri del mondo -un atto che nel corso della storia ha creato nuove valutazioni e una nuova disponibilità al servizio, all'impegno per gli altri. La domanda per il pane, per il pane solo per l'oggi, suscita però anche il ricordo dei quarant'anni di peregrinazione di Israele nel deserto, quando il popolo vis-se di manna - di quel pane che Dio mandava dal cielo. Ciascuno poteva raccoglierne sempre solo la quantità necessaria per quel giorno; solo nel sesto giorno se ne poteva raccogliere la razione necessaria per due giorni, per osservare così il precetto del sabato (cfr. Es 16,16-22). La comunità dei discepoli, che ogni giorno rivive della bontà di Dio, rinnova l'esperienza del po-polo di Dio peregrinante, che veniva nutrito da Dio anche nel deserto.
Così la domanda per il pane solo per l'oggi apre prospettive che vanno oltre l'orizzonte del necessario nutrimento quotidiano. Presuppone la sequela radicale della comunità più ristretta dei discepoli, la quale rinuncia al possesso in questo mondo e si associa al cammino di chi stima «l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto» (Eb 11,26). Appare l'orizzonte escatologico - le cose future che sono più importanti e più reali di quelle presenti. Con ciò tocchiamo adesso una parola di questa domanda che, nelle nostre abituali traduzioni, suona innocua: dacci oggi il nostro pane «quotidiano». Con «quotidiano» viene resa la parola greca epioúsíos. Uno dei grandi maestri della lingua greca - il teologo Origene (t 254 circa) - dice che in greco questo termine non esiste altrove, è stato creato dagli evangelisti. E vero che nel frattempo è stata trovata una testimonianza di questa parola in un papiro del V secolo dopo Cristo. Ma da sola anch'essa non può dare una certezza sul significato della parola, in ogni caso molto insolita e rara. Si deve pertanto dipendere dalle etimologie e dallo studio del contesto. Esistono oggi due interpretazioni principali. Una dice che la parola significherebbe «[il pane] necessario per l'esistenza»; dunque la domanda sarebbe: dacci oggi il pane di cui abbiamo bisogno per poter vivere. L'altra interpretazione dice che la traduzione giusta sarebbe «[il pane] futuro» - quello per il prossimo giorno. Ma la domanda di ricevere oggi il pane per domani, alla luce del modo di vivere dei discepoli, non sembra avere molto senso. I1 rimando al futuro sarebbe più comprensibile, se si pregasse per il pane veramente futuro: per la vera manna di Dio. Allora si tratterebbe di una domanda escatologica, della domanda per un'anticipazione del mondo a venire, che cioè il Signore voglia donare già «oggi» il pane futuro, il pane del mondo nuovo - se stesso. Allora la domanda otterrebbe un senso escatologico. Alcune traduzioni antiche vanno in questa direzione, come per esempio la Vulgata di san Girolamo che traduce la misteriosa parola con supersubstantialis, interpretandola nel senso della «sostanza» nuova, superiore, che il Signore ci dona nel santo Sacramento quale vero pane della nostra vita.
I Padri della Chiesa, di fatto, hanno inteso in modo praticamente unanime la quarta domanda del Padre nostro come domanda per l'Eucaristia; in questo senso la preghiera del Signore si trova nella liturgia della santa Messa come preghiera eucaristica. Questo non vuol dire che, con ciò, sia stato tolto alla domanda dei discepoli il semplice significato terreno, che poc'anzi abbiamo chiarito quale significato immediato del testo. I Padri pensano a diverse dimensioni di una parola che inizia dalla domanda dei poveri per il pane del giorno corrente, ma proprio così - guardando al Padre celeste che ci nutre - ricorda il popolo di Dio peregrinante che venne nutrito da Dio stesso. Per i cristiani, alla luce del grande discorso di Gesù sul pane, il miracolo della manna rimandava quasi automaticamente al di là di se stesso al nuovo mondo, nel quale il Logos - l'eterna parola di Dio - sarà il nostro pane, il cibo dell'eterno banchetto nuziale. È lecito pensare in tali dimensioni o ciò costituisce una «teologizzazione» sbagliata di una parola che ha invece un significato semplicemente terreno? Oggi queste «teologizzazioni» incutono un timore che non è del tutto infondato, ma che non si può nemmeno esagerare. Io penso che nella spiegazione della domanda del pane non si debba perdere di vista il più ampio contesto delle parole e delle opere di Gesù, nel quale hanno un ruolo importante contenuti essenziali della vita umana: l'acqua, il pane e - come segni della festosità e della bellezza del mondo - la vite e il vino. Il tema del pane occupa un posto rilevante nel messaggio di Gesù - dalla tentazione nel deserto attraverso la moltiplicazione dei pani fino all'Ultima Cena. Il grande discorso sul pane nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni dischiude l'intero spettro di significato di questo tema. All'inizio c'è la fame degli uomini che hanno ascoltato Gesù e che Egli non congeda senza averli sfamati, c'è quindi il «pane necessario» di cui abbiamo bisogno per vivere. Ma Gesù non permette poi che ci si fermi lì, non permette di ridurre il bisogno del 'uomo al pane, alle necessità biologiche e materiali. «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; Dt 8,3). Il pane miracolosamente moltiplicato evoca il ricordo del miracolo della manna nel deserto e rimanda così al contempo oltre se stesso: indica che il vero cibo dell'uomo è il Logos, la Parola eterna, il senso eterno da cui proveniamo e in attesa del quale viviamo. Se questo primo superamento dell'ambito fisico dice inizialmente solo ciò che anche la grande filosofia ha trovato ed è in grado di trovare, ecco giungere però immediatamente il secondo superamento: il Logos eterno diventa concretamente pane per l'uomo solo perché Egli «si è fatto carne» e ci parla con parole umane. A questo segue il terzo ed essenziale superamento che ora, però, diviene uno scandalo per la gente di Cafarnao: Colui che è diventato uomo si dà a noi nel Sacramento, e solo così la Parola eterna diventa pienamente manna, il dono del pane futuro già oggi. Poi, però, il Signore unisce ancora una volta il tutto: questa estrema corporeizzazione è appunto la vera spiritualizzazione: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6,63). Bisogna forse supporre che nella domanda del pane Gesù abbia escluso tutto ciò che ci dice sul pane e che voleva darci come pane? Se prendiamo il messaggio di Gesù nella sua interezza, allora non si può cancellare la dimensione eucaristica nella quarta domanda del Padre nostro. La domanda del pane quotidiano per tutti è essenziale proprio nella sua concretezza terrena. Altrettanto, però, essa ci aiuta anche a superare l'aspetto puramente materiale e a chiedere già ora la realtà del «domani», il nuovo pane. E pregando oggi per la realtà del «domani», veniamo esortati a vivere già ora del «domani», dell'amore di Dio che ci chiama tutti alla responsabilità reciproca.
A questo punto vorrei dare la parola ancora una volta a Cipriano che sottolinea entrambe le dimensioni di significato. Egli riferisce però la parola «nostro», di cui abbiamo parlato più sopra, proprio anche all'Eucaristia che in un senso particolare è pane «nostro», pane dei discepoli di Gesù Cristo. Egli dice: noi, che possiamo ricevere l'Eucaristia come il nostro pane, dobbiamo tuttavia sempre pregare, affinché nessuno sia tagliato fuori, separato dal Corpo di Cristo. «Per questo preghiamo, affinché il "nostro" pane, cioè Cristo, ci sia dato quotidianamente, affinché noi che rimaniamo e viviamo in Cristo non ci allontaniamo dalla sua forza santificante e dal suo Corpo» (De dom. or.. 18).

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