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lunedì 12 febbraio 2018

SALVATI E PURIFICATI DALLA SUPERBIA IN CRISTO POSSIAMO CAMMINARE NELLA VITA NUOVA DELL'OBBEDIENZA E DELL'AMORE




Parole, guarigioni ed esorcismi avevano esteso la fama di Gesù “al punto non poteva più entrare pubblicamente in una città”. La fama che sgorgava dalla sua compassione. Questa parola traduce in italiano il greco splanxnisthèis (avente viscere che fremono) che traduce a sua volta l’ebraico rahamin, che rimanda all’amore viscerale di una madre (rehem = utero, seno materno).
La compassione svela dunque il cuore materno di Gesù, da cui scaturisce un amore capace di accogliere, concepire e generare, dare alla luce, creare e ricreare: la compassione che ha abbracciato il lebbroso.
Reietto, impuro e impossibilitato ad avvicinarsi a chiunque, aveva molto camminato nelle umiliazioni, nei fallimenti e nel dolore. Non aveva nessuno, e quando non si ha nessuno ci si aggrappa all’unico ricordo che non tradisce mai, quello della propria madre. Anche quando si muore sale prepotente sulle labbra la parola “mamma”, perché la morte è molto simile alla nascita.
Per questo la sofferenza spinge, fosse pure inconsapevolmente, verso la propria origine, dove la carne e il cuore si sono sentiti accolti, nutriti, amati. Verso il grembo dove nascevano, intatte, le speranze, e tutto poteva ancora essere.
Il dolore, fisico e spirituale che in un lebbroso sono così uniti, è attratto da ciò che potrebbe innescare una rigenerazione nella purezza perduta. Perché, misteriosamente, Cristo attrae tutti nel suo passaggio vittorioso attraverso la morte, per trasformare ogni dolore in una nuova nascita.
In qualche modo, dunque, la “fama” di Gesù era per il lebbroso il segno che in quell’Uomo che stava passando vicino a lui si celava un cuore di madre, e per questo poteva infrangere le regole che lo volevano segregato.
In un momento s’era di nuovo accesa la speranza bambina, innocente e audace. E sgorgava proprio dal suo dolore e dalla sua solitudine, che avevano plasmato in lui un cuore umile, l’unico capace di mettersi in cammino verso Cristo.
Per incontrarlo, infatti, il lebbroso ha dovuto percorrere un catecumenato nel quale a poco a poco uscire dall’isolamento e avvicinarsi “accampamento”. Quanto cammino, e che umiliazioni per uscire da se stesso, dal suo passato di schiavitù. Non poteva dissimulare chi fosse, doveva “portare vesti strappate e il capo scoperto”, e ad ogni passo gridare “immondo, immondo”.
Sì, senza la consapevolezza della propria realtà non si arriva a Cristo. E’ necessario accettare di essere peccatori, perché al posto di quel “immondo, immondo” si possa gridare “purificato, perdonato, rinato”. Perché ogni incontro autentico con Gesù si realizza in virtù di un cammino in discesa per immergersi nella sua compassione, che per noi sono le viscere di misericordia della Chiesa, ovvero il fonte battesimale e ogni sacramento che rinnova in noi la Grazia.
Solo l’umiltà, infatti, ci schiude gli occhi nella fede, per riconoscere in Gesù il volto di Dio. Come il lebbroso che “venuto a Lui”, sapeva di potersi fidare, perché proprio in Lui era stato creato; la pelle straziata, le membra squassate, non potevano cancellare la verità: nessuno al mondo gli aveva provocato gli stessi sentimenti e ispirato le stesse certezze.
Lui assomigliava a Gesù, perché Gesù si era fatto simile a lui. Sulla via del Calvario e sulla Croce avrebbe infatti perso le apparenze di un uomo, disprezzato, rifiuto degli uomini, diventando come uno davanti al quale ci si copre il volto (Cfr. Is. 53).
Per questo, nella fede, il lebbroso aveva visto Gesù come un altro se stesso. Non aveva dubbi, si trovava dinanzi all’uomo dei dolori, che conosce bene il patire, il suo. Così è sgorgata dal suo cuore l’invocazione come una sincera professione di fede: “Se vuoi puoi guarirmi”.
Mi hai amato, pensato e creato Tu, sono tuo, se vuoi puoi ancora avere misericordia; tu conosci le mie sofferenze, come solo una madre può conoscere. Sono carne della tua carne, e Tu hai il potere di distruggere la morte. Ti prego, distruggila ora in me, tu puoi, se vuoi.
E qui le viscere di Gesù si commuovono, come per un figlio, per un fratello amato più di se stesso, spingendo le sue mani per toccare quelle carni straziate e guarirle.
Nell’incontro con Cristo, il Tempio, il culto, la vita del Popolo Santo, tutto quanto era stato interdetto al lebbroso secondo la Legge, era di nuovo lì per lui, incarnato in Gesù. Poteva rientrare nella comunione, nella lode, nella vita piena, secondo la vocazione del suo popolo.
Poteva cioè “fare tutto per la gloria di Dio, sia che mangiasse, sia che bevesse, sia che facesse qualsiasi altra cosa”. Era guarito, non viveva più per se stesso. Ecco, proprio dal frutto del miracolo di Gesù, comprendiamo quanto abbiamo bisogno di Lui. Noi, che viviamo per saziare la nostra carne, e ci ritroviamo soli come i lebbrosi, in questa Domenica siamo chiamati dalla Chiesa a metterci in cammino come il lebbroso, per inginocchiarsi dinanzi alla compassione di Gesù.
E come accadde a Lui, così anche a noi la “compassione” giocherà un bello scherzetto. Ci getterà nella mischia, nella grande arena dell’evangelizzazione. Ricreati in Cristo, infatti, diventeremo come il lebbroso un Vangelo vivente. Non potremo più nasconderci, perché quello che prima ci separava dagli altri nell’egoismo, sarà trasformato dalla Grazia. Le membra offerte al peccato saranno strumenti offerti all’amore.
Perché quando Gesù guarisce qualcuno è sempre per guarirne moltissimi altri attraverso di lui. Coraggio allora, ci aspetta un lungo cammino di conversione, perché la messe di lebbrosi da mietere nella misericordia è davvero grande.

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