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domenica 6 maggio 2018

50 anni in Cammino, i "Neocat" incontrano il Papa



Al Giubileo del Cammino neocatecumenale il Papa ha parlato davanti a 300 mila persone e ha invitato il popolo neocatecumenale ad andare in missione e «testimoniare che Dio ci ama e che con Lui è possibile l’amore vero, quello che porta a donare la vita ovunque, in famiglia, al lavoro, da consacrati e da sposati».
Al Giubileo del Cammino neocatecumenale il Papa ha parlato davanti a 300 mila persone, sul palco il fondatore Kiko Arguello, padre  padre Mario Pezzi e Maria Ascensiòn Romero e ha invitato il popolo neocatecumenale ad andare in missione «che è la priorità della Chiesa oggi».«Per andare bisogna essere leggeri. Per annunciare bisogna rinunciare. Solo una Chiesa che rinuncia al mondo annuncia bene il Signore. Solo una Chiesa svincolata da potere e denaro, libera da trionfalismi e clericalismi testimonia in modo credibile che Cristo libera l’uomo», ha detto il Papa. E si cammina «insieme (…) si va avanti uniti, come Chiesa, coi Pastori, con tutti i fratelli, senza fughe in avanti e senza lamentarsi di chi ha il passo più lento». Ha chiesto inoltre di «fare discepoli» senza «conquistare», né «occupare», ma «testimoniare che Dio ci ama e che con Lui è possibile l’amore vero, quello che porta a donare la vita ovunque, in famiglia, al lavoro, da consacrati e da sposati». (Red.)
Quando dico, come dico, che la mia vita è stata salvata dalla predicazione del Cammino neocatecumenale, dallo splendore della sua liturgia, dall’attesa della veglia di Pasqua recuperata in tutta la forza della sua vittoria sulla morte (col suo lucernario, i suoi battesimi, i suoi canti, il suo spazio dedicato ai bambini e alle loro domande sul perché dell’unicità di quella notte, la tensione nell’attesa del passaggio del Signore), quando constato i frutti sparsi a piene mani dall’obbedienza al comandamento divino sulla santità dell’atto sessuale aperto alla vita, quando vedo che persone capitate per caso alla stessa catechesi, nel corso degli anni, nel corso dei decenni, diventano fratelli che si amano e portano ciascuno i pesi degli altri, quando questo succede in un mondo che, in una direzione esattamente opposta, precipita in un universo di solitudine, di egoismo e di morte, quando vedo e testimonio questo, non sto facendo retorica. 
Sto solo descrivendo la realtà di cui sono testimone da 47 anni.
“Bisogna fare comunità cristiane come la Sacra Famiglia di Nazareth che vivano in umiltà, semplicità e lode. L’altro è Cristo”, così ha detto la Madonna a Kiko apparendogli l’8 dicembre 1964. Kiko e Carmen, la donna geniale, libera, colta, intuitiva, sapiente, lontana mille miglia da qualsiasi forma di piaggeria, che per cinquant’anni ha condiviso con Kiko l’onere, le fatiche, ma anche la gioia della missione, hanno obbedito: hanno fondato comunità. Comunità vive, con famiglie piene di figli e nipoti, bambini con tanti cugini e tanti zii, gente grata al Signore per i doni ricevuti, persone disposte a fare la volontà di Dio perché testimoni della sua manifestazione nella loro vita, pronte ad obbedire al comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”.
In un mondo senza Dio, in cui contano solo le ragioni dei più forti, dove impera il dettato gnostico di un relativismo totalitario che vuole imporre a tutti quando e come nascere, come vivere e quando morire, i successi della predicazione di Kiko e Carmen sono stati strabilianti. Come sempre quando si tratta di realtà volute da Dio. Ventunmilatrecento comunità, centoventi seminari con 2300 seminaristi e 2380 presbiteri già ordinati, 216 missio ad gentes in 62 nazioni (ognuna formata da 4 o 5 famiglie coi relativi figli, un presbitero con un socio, alcune sorelle) per un totale di 1.668 famiglie in missione con circa 6.000 figli. 
Ieri a Tor Vergata c’è stato un maxi raduno dei fratelli del Cammino provenienti da tutto il mondo per festeggiare col Santo Padre i cinquanta anni di vita dell’esperienza neocatecumenale. In questo contesto di gioia ed allegria il Papa ha inviato 37 nuove missio ad gentes e 25 “comunità in missione” nelle zone più difficili di Roma. Sì, perché se non tutti sono chiamati a diventare preti o itineranti o famiglie in missione, tutti indistintamente sono chiamati ad evangelizzare. E così le comunità più antiche, estratte a sorte, si trasferiscono in zone della città in cui non c’è presenza cristiana, dove più urgente è il bisogno di qualcuno che annunci l’onnipotente amore di Dio a zingari, a musulmani, a uomini che si sono abituati a passare la vita nel degrado e nel nonsenso. A persone sole e senza speranza. Questo trasferimento in zone spesso lontane da quelle di provenienza comporta molta scomodità. Molta fatica nei trasferimenti in mezzo al traffico. Eppure quanti già da tempo vivono questo tipo di esperienza sono contenti di poter mettere la propria vita a servizio dell’evangelizzazione.
Alla fine della liturgia e dell’invio dei nuovi missionari, un solenne Te Deum si è levato al cielo cantato a voce piena dall’assemblea dei centomila fratelli di tutti i continenti. La Roma città-mondo in cui ciascuno è a casa propria ha dato ancora una volta splendida prova della sua bimillenaria vitalità ecclesiale.

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