Una didascalia accompagnava il video per spiegare che erano stati condannati a morte a causa della loro fede: “Gente della Croce, seguaci dell’ostile Chiesa egiziana”. Dal movimento delle loro labbra, si è capito che alcuni sono morti invocando il Signore, Gesù Cristo. “Il nome di Gesù è stata la loro ultima parola – ha detto il vescovo di Giza, monsignor Antonios Mina – come i primi martiri della Chiesa si sono rimessi nelle mani di Colui che poco dopo li ha accolti. Quel nome, sussurrato negli ultimi istanti di vita, è stato il sigillo del loro martirio”. Il governo egiziano ha disposto la costruzione di una chiesa dedicata ai 21 martiri copti a Minya, la città da cui provenivano quasi tutte le vittime.
Lo Stato Islamico fondato da Abu Bakr al Baghdadi in Siria e Iraq si estende ormai ai territori di altri stati: il Sinai, in Egitto, il Jebel Chambi in Tunisia, le città di Derna e Sirte, in Libia, dove da mesi le nere bandiere del Califfato sventolano sugli edifici pubblici. Esponenti della comunità cattolica hanno deciso tuttavia di restare in Libia. “Siamo rimasti in pochi – diceva a febbraio all’agenzia Fides monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli – per la maggior parte si tratta di infermiere filippine che hanno deciso di rimanere perchè in città c’è estremo bisogno di assistenza medica. È per loro che resto. Come ho detto molte altre volte, finchè in Libia c’è anche un solo cristiano, io resto”.
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