Pagine

mercoledì 31 agosto 2016

Ma la cena eucaristica non è un pic-nic
                     
    
di Rino Cammilleri                    31-08-2016
La consacrazione
Pensate, ai tempi del giansenismo per fare la comunione ci voleva un permesso speciale del proprio direttore spirituale. Palesemente influenzato dal luteranesimo, tale movimento (che dilagò all’interno del cattolicesimo nel XVII secolo ma il cui contagio arrivò fino ai primi decenni del XIX) partiva dal presupposto dell’indegnità umana ad accostarsi ai sacramenti. Alla fine, poiché, a ben pensarci, è difficile che uno si ritenga degno, il risultato è lo scoraggiamento. E il conseguente allontanamento.
Troppo difficile, grazie lo stesso. Il giansenismo colpì duro soprattutto in Francia, dove i cattolici vivevano a stretto contatto con i calvinisti ugonotti e le guerre di religione avevano lasciato il segno. Proprio al culmine dell’eresia (perché questo era), il Sacro Cuore di Gesù apparve a santa Marguerite Alacoque, a ricordare l’umanità di Cristo e la sua misericordia. Fieri avversari del giansenismo furono i soliti gesuiti, l’esercito personale del Papa. Ci volle, come sempre nella storia del cristianesimo, parecchio tempo prima che la Chiesa ri-centrasse le cose. Infatti, il timone serve a impedire che la barca sbandi di qua o di là. Nessuno è degno («Domine, non sum dignus…»), ma la misericordia divina supplisce all’indegnità («…sed tamen dic verbum…»).
I più anziani tra noi forse ricorderanno quando, per poter fare la comunione, bisognava essere digiuni dalla sera prima. E solo alla fine degli anni Cinquanta si cominciò a ridurre il limite fino a portarlo a un’ora. Qui è rimasto, anche perché di meno sarebbe ridicolo e tanto varrebbe abolirlo. A che serve questo, pur minimo, limite? Appunto a ricordare, almeno simbolicamente, l’”indegnità”: è il Corpo di Cristo quello che vai a ingoiare, vera carne e vero sangue di Dio. Il catechismo invece non ha mai modificato niente in materia: puoi comunicarti solo se sei «in grazia di Dio», cioè se sei stato assolto dal confessore. In casi eccezionali puoi confessarti anche dopo, ma che sia alla svelta, in base alla tua coscienza (sempre che questa sia «ben formata», cioè cristianamente edotta e istruita, sennò diventa arbitrio).
Queste sono le regole, e non si dà comunità senza regole: anche in un villaggio di santi i semafori sono necessari. Tutto ciò si impose alla mia mente quando alla tivù vidi le prime grandi messe negli stadi, con molti sacerdoti sguinzagliati tra gli spalti a distribuire la comunione a chiunque tendesse le labbra (poi le mani). Mi chiedevo: saranno tutti confessati? O, subito dopo, in migliaia affolleranno i confessionali? Boh. Veniamo all’oggi. Non è vero che le chiese sono vuote: io, anche in giro per l’Italia, e anche d’estate, le vedo sempre affollate. E, all’ora della comunione, tutti, dico tutti, si mettono in fila per comunicarsi. Infatti, in molte chiese occorrono i “ministri straordinari” per darla, sennò non la finiamo più.
La domanda è la stessa di prima: saranno tutti «in grazia di Dio»? Ma scaccio il pensiero: chi sono io per giudicare? Poi, però, leggo lettere accorate di lettori (non solo a me, ma anche, per esempio, al sito cattolico Aleteia.org), che chiedono consiglio su, che so, loro parenti divorziati e risposati che si comunicano tranquillamente, e se viene obiettato loro qualcosa, ti rispondono giudicando, eccome, te: non hai misericordia, non sei un buon cattolico, sei privo di amore per il prossimo eccetera. Allora, ecco che si insinua il dubbio sulla famosa domanda di prima. Papa Francesco ha chiarito che cosa si intende per «coscienza ben formata». Ma quanti di quelli che, in massa, vanno a fare la comunione ce l’hanno?
Una mia collega insegnante, buddista, ogni tanto, a seconda dell’estro, si presentava alla messa domenicale e si comunicava. Perché? Si vergognava di restar seduta mentre tutti gli altri si mettevano in fila. Ora, la strategia globale della “misericordia” è ben fondata nel Vangelo. Sì, nella parabola in cui il re invita gli amici al pranzo di nozze e tutti si defilano perché hanno altro da fare (Lc 14,21): «Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: "Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi". Il servo disse: "Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto". Il padrone allora disse al servo: “Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia».
Matteo (22, 9) aggiunge: «Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali». Ma ecco l’ultima parte della parabola, quella più difficile da digerire (infatti, viene silenziata nelle omelie): «Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: "Amico, come mai sei entrato qui senza l'abito nuziale?". Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: "Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti"». Giansenismo? No, «coscienza ben formata». 
Perché occorre pregare per i morti del sisma
                     
    
di Matteo Carletti                        31-08-2016
La Croce sulle macerie di Amatrice
Nel clima di dolore e rabbia lasciato dal terremoto, ha destato particolare scalpore l’iniziativa lanciata su Facebook dalla giornalista cattolica, Costanza Miriano, quella cioè di stilare un elenco delle vittime del sisma per pregare per ognuna di loro. C’è chi ha visto addirittura in questa preghiera un tentativo di “sciacallaggio”. Ma siamo sicuri che sia così? Cosa dice a riguardo la Dottrina cattolica?
Il Catechismo, all’articolo 958, fa esplicito riferimento alla preghiera per i defunti: «La Chiesa di quelli che sono in cammino […] fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con una grande pietà la memoria dei defunti e, poiché "santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati" (2 Mac 12,46), ha offerto per loro anche i suoi suffragi. La nostra preghiera per loro può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore». Si tratta della dottrina cattolica della Comunione dei Santi, alla quale il 30 ottobre 2013 Papa Francesco ha dedicato una stupenda catechesi.
«Il Catechismo della Chiesa cattolica», afferma Papa Francesco, «ci ricorda che con questa espressione si intendono due realtà: la comunione alle cose sante e la comunione tra le persone sante (n. 948). Mi soffermo sul secondo significato: si tratta di una verità tra le più consolanti della nostra fede, poiché ci ricorda che non siamo soli ma esiste una comunione di vita tra tutti coloro che appartengono a Cristo. Una comunione che nasce dalla fede; infatti, il termine “santi” si riferisce a coloro che credono nel Signore Gesù e sono incorporati a Lui nella Chiesa mediante il Battesimo». La Chiesa è dunque intesa come “communio sanctorum”, ovvero come la comunità di tutti coloro che hanno ricevuto la grazia rigeneratrice dello Spirito Santo mediante il Battesimo, comunione che unisce non solo i fedeli che ancora camminano su questa terra, ma anche coloro che già godono della visione di Dio.
Convinzione di tutti i fedeli cristiani è che la morte, dunque, non è la fine della “Comunione dei santi”, ma che, anzi,  questa si estende al di là del tempo in questo mondo. La comunione con i defunti può avvenire solo attraverso la partecipazione ai Sacramenti e con la nostra preghiera, consolazione per i vivi e aiuto per morti. Tutte le anime, anche quelle che hanno condotto una vita cristiana ineccepibile, in quanto peccatori «non sono all’altezza dell’esigenza di Dio e hanno bisogno dell’amore accogliente del Dio misericordioso» (Maffeis). I defunti, posti di fronte al volto di Dio, diventano consapevoli della loro peccaminosità con estrema profondità «e, di fronte all’amore di Dio, sperimentano la loro assenza di amore bruciante» (Maffeis).
In questo contesto di purificazione le preghiere dei vivi possono essere di aiuto come intercessione presso Dio il quale,  con amore infinito, li abbraccia e li salva. Entrando in comunione con Dio cerchiamo dunque per queste anime la salvezza eterna, poiché il giudizio finale spetta solo a Dio e, mentre nella sua storia la Chiesa ha stilato elenchi di Santi e Sante che certamente hanno raggiunto il Paradiso e quindi la Salvezza, di contro essa non ha mai, per nessuno, stilato un elenco dei “dannati”, cioè di coloro che sarebbero per l’eternità condannati alle pene infernali. La dottrina della Comunione dei Santi ci ricorda che il traguardo e la consolazione per tutti noi è e rimane il partecipare della Gerusalemme Celeste, della Città di Dio.
Nella Celebrazione delle esequie nel Rito Romano, il sacerdote esorta così i fedeli nel commiato finale: «Il nostro fratello N. si è addormentato nella pace di Cristo. Uniti nella fede e nella speranza della vita eterna, lo raccomandiamo all'amore misericordioso del Padre, accompagnandolo con la nostra fraterna preghiera: egli che nel Battesimo è diventato figlio di Dio e tante volte si è nutrito alla mensa del Signore, possa ora partecipare al convito dei santi nel cielo, e sia erede dei beni eterni promessi da Dio ai suoi servi fedeli. E anche per noi che sentiamo la tristezza di questo distacco, supplichiamo il Signore perché possiamo un giorno, insieme con i nostri morti, andare incontro al Cristo, quando egli, che è la nostra vita, apparirà nella gloria».
Oggi, quello della morte è un tema tabù ed il pregare per i defunti diventa così motivo di scandalo e imbarazzo.  Ma è proprio davanti alla morte che noi, anche inconsciamente, cerchiamo un segnale di speranza, qualcosa che ci dia consolazione, che ci apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro, una via di speranza. Il 2 novembre 2011 ad un’udienza generale, Papa Benedetto XVI così parlava: «L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio”. E basta solo questo, ormai, a scandalizzare la nostra “città degli uomini». 





L'ANNUNCIO

Dal Vangelo secondo Luca 4,38-44. 

Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei.
Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò. Levatasi all'istante, la donna cominciò a servirli.
Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva.
Da molti uscivano demòni gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo.
Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e volevano trattenerlo perché non se ne andasse via da loro.
Egli però disse: «Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato».
E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.





SALVATI NELLA COMUNITA' CI CHINIAMO CON CRISTO SU OGNI UOMO PREDA DELLA FEBBRE DEL PECCATO 


Dalla sinagoga alla casa: dopo aver scacciato il demonio che affligge la comunità, e averla purificata, Gesù si dirige a casa. Prima dell'intimità vi è la "bonifica" dell'ambiente. Senza la "sinagoga" - comunità non vi può essere autentica e profonda guarigione, perché solo in essa i demoni vengono alla luce per essere scacciati. Nel mondo essi si camuffano e nessuno li disturba... Per questo i discepoli, forti dell'esperienza vissuta nella sinagoga, possono pregare “insieme” per la suocera di Simone. La fede, infatti, non è mai una questione privata. Le fughe intimistiche sono sempre malsane e precludono qualsiasi guarigione: "non isolatevi, rinchiudendovi in voi stessi, come se foste già giustificati, ma riunitevi insieme cercando quello che è di vantaggio per tutti" (Dalla "Lettera" detta di Barnaba"). Vediamo, quale è l’atteggiamento di fronte al fratello quando è "in preda a una grande febbre"? Cosa penso, dico e faccio, insieme ai fratelli di fronte alla sua impossibilità di alzarsi dal letto "servire"? Mi fermo all'esterno della coppa e comincio a riempirlo di catechesi e consigli nello stolto tentativo di purificarlo, oppure accompagno il Signore con una preghiera intrisa di fede perché "si chini" sul suo cuore malato? Attenzione, perché quando cominciamo a investire l'altro con moralismi e consigli, significa che abbiamo dimenticato che "ciascuno di noi è febbricitante. Quando sono colto dall’ira, ho la febbre, e ogni vizio è una febbre" (San Girolamo). Così, come recita il salmo 41 nell'originale ebraico, "quando lo visitiamo diciamo il falso" perché "nel nostro cuore accumuliamo malizia" e "fuori sparliamo" di lui con "accuse inique"; abbiamo su di lui il pregiudizio mondano che condanna il peccatore e non il peccato, perché lo riteniamo causa della sua "febbre". Per questo, con le nostre parole "religiosamente corrette", in fondo "tramiamo la rovina per il fratello" perché convinti che, essendo "preda" di "una parola di Belial", "colui che giace mai si rialzerà". Etimologicamente "Belial" potrebbe essere reso con "non serve a nulla" (Ravasi). Ed è proprio così, perché in fondo quello che speriamo è che l'altro ci "serva", e quando ciò non accade lo cancelliamo. Per questo i nostri atteggiamenti nei confronti del fratello infermo sono ipocriti, ispirati dal giudizio di condanna piuttosto che dalla compassione. 




Gesù, invece, non rivolge una sola parola alla suocera, ma "intima" alla febbre, come in ogni esorcismo. Lui "si china" su di lei con amore perché, come dicevano i rabbini, "la Shekinah (presenza) di Dio si trova sopra la testa del malato"; non la giudica per condannarla perché sa che Dio non l'ha abbandonata, anche se il demonio l'ha ingannata e la tiene schiava a letto. Non esige nulla come facciamo stoltamente quando pretendiamo che il fratello infermo faccia cose che nemmeno noi facciamo. Gesù si umilia per entrare nella sua malattia, si carica con la sua "febbre" per vincere il demonio che la causa con la sua parola fatta carne. Così noi siamo chiamati a fare, perché "per questo siamo nati" in Cristo sperimentando la guarigione nella Chiesa. Solo con gli occhi della fede che vedono la "presenza" di Dio in tutti, “chinati” accanto al fratello sino a portare con lui la sua "febbre" potremo "intimare" alla sua "febbre" nel Nome di Gesù. Nella libertà dell'amore gratuito siamo "mandati" nel mondo perché tutti possano "levarsi all'istante", risuscitare e tornare a "servire". Ma, per non “lasciare parlare i demoni”, cioè per non cadere nelle trappole affettive e non farci "trattenere" dalla carne che esige sempre gratitudine, "sul far" di ogni "giorno" dobbiamo alzarci (risuscitare) nell'intimità con Cristo, ovvero pregare prima di ogni cosa per non dimenticare il suo amore che ci ha salvato. Ci aspetta, infatti, ogni giorno “un’altra città”, un’altra persona verso la quale "uscire": attraverso i modi più diversi, ci porteranno "infermi colpiti da mali di ogni genere" perché "li conduciamo a Cristo", l’unico che, "imponendo loro le mani" nella Chiesa, li possa guarire

domenica 28 agosto 2016

Nazione, se la Chiesa sceglie il globalismo
                    
    
di Stefano Fontana                 28-08-2016
In questo momento si sente la mancanza di una riflessione da parte cattolica su un tema oggi molto trascurato o quasi abbandonato, il tema della nazione e della sua identità. Anche il Magistero della Chiesa, compreso quello pontificio, non sembra sufficientemente concentrato su questo punto. Però le migrazioni, l’attività degli organismi internazionali, la geopolitica, il nuovo globalismo lo ripropongono come tema urgente.
Provo a tornare indietro con la memoria e mi sembra di ricordare che dopo Giovanni Paolo II il tema della nazione sia stato messo da parte, mentre sono prevalse le riflessioni sulla globalizzazione. Giovanni Paolo II ne aveva parlato nella Centesimus annus, per esempio. Al paragrafo 24 aveva detto che l’uomo non lo si comprende partendo dal settore dell’economia, come era avvenuto nei regimi comunisti, ma proprio dalla cultura della nazione in cui egli vive e che lo pone davanti alla domanda fondamentale, la domanda su Dio. C’è quindi un nesso naturale e originario tra cultura della nazione e religione: anche le nazioni, come di conseguenza le singole persone, si danno una loro identità misurandosi con il problema religioso e, così facendo, costituiscono l’humus naturale anche per la costruzione della identità personale dei cittadini.
Le riflessioni di Giovanni Paolo II erano certamente segnate dall’esperienza polacca di intensa compenetrazione tra religione cattolica e identità nazionale, ma non era ad essa circoscritta, erano riflessioni a carattere universale. Molto profondo, in particolare il tema della memoria in rapporto all’identità, che Giovanni Paolo II sviluppò soprattutto nel libro “Memoria e identità”. La nazione nasce dalla memoria della sua storia e dei suoi valori, ed anche la Chiesa vive di memoria che, in questo caso, si chiama la Tradizione. Nella memoria della Chiesa però, spiegava il Santo Papa, è compresa la memoria dell’intera umanità, quella stessa memoria che Maria “meditava nel suo cuore”. Nella memoria della Chiesa sono presenti le memorie di tutte le nazioni ed è per questo che l’evangelizzazione incontra non solo singole persone ma popoli, nazioni e culture.
Credo si possa dire che dopo questi approfondimenti di Giovanni Paolo II il tema sia stato però sostanzialmente messo da parte, mentre maggiore attenzione è stata portata alla società globale, largamente presente sia nella Caritas in veritate che nella Evangelii gaudium e la Laudato si’.
La trascuratezza del tema della nazione, però, può contenere dei pericoli. Il primo è di elaborare un pensiero condiscendente verso l’ideologia globalista degli organismi internazionali con un cedimento improvvido verso lo stesso linguaggio della nomenclatura ONU. Di recente ci sono stati già degli esempi in questo senso e suona certamente male l’espressione “diritti riproduttivi” in bocca ad un diplomatico della Chiesa cattolica. Come è noto, il globalismo ha anche un’anima illuminista, positivista, massonica. Kant e Comte volevano un’etica universale e una religione civile universale, come anche Ban Ki-moon.
Nel globalismo, in altre parole, è presente il pericolo del sincretismo etico e religioso che punta all’ONU delle religioni o alla religione dell’ONU. Questo accade quando si pensa al genere umano come una somma disorganica di individui. Se, invece, il genere umano viene pensato anche come un insieme di nazioni allora il pericolo è vinto. La tendenza, anche cattolica, a considerare buono tutto quanto è sovranazionale è sbagliata. La dimensione sovranazionale deve essere sussidiaria a quella nazionale.
Un secondo pericolo consiste nel pensare come automaticamente buona e positiva la società multiculturale e multireligiosa, che ormai viene imposta e programmata dai centri di potere internazionale. E’ chiaro che una simile società sarà anche distruttiva delle nazioni e della loro identità culturale e, per il legame tra religione cattolica e nazioni visto sopra, sarà negativa anche per la religione cattolica. Quando addirittura la creazione forzata di società multiculturali non sia proprio lo strumento per trasformare la religione cattolica stessa.
Il terzo pericolo riguarda le politiche migratorie. La dimenticanza della nazione porta a pensare che gli immigrati siano solo individui e che dai confini non entrino anche culture, religioni e porzioni di nazioni. Si tende quindi a dimenticare il diritto delle nazioni alla propria identità. Un tempo il magistero queste cose le diceva con chiarezza, ora vengono dette in modo più sfumato o non vengono dette per niente. Le migrazioni impongono doveri evangelici di accoglienza, ma sarebbe sciocco limitare la cosa a questo. Ci sono anche atri livelli del problema ed uno non secondario è proprio quello della identità delle nazioni. 



αποφθεγμα Apoftegma

Quando l’uomo si colloca davanti a Dio in umiltà, 
allora, come per uno straordinario paradosso, Dio lo esalta. 
Dio si china verso la sua bassezza per elevarlo fino a sé; 
gli dona se stesso in eredità; 
lo chiama al possesso dei beni più grandi, 
lo rende partecipe della sua vita, dei suoi doni, 
delle realtà eterne che sono le sole che rendono grande l’uomo.

San Giovanni Paolo II













ALL'ULTIMO POSTO DOVE CRISTO E' SCESO PER FARCI PASSARE AL CIELO


Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.
Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.
Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l’amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte.
Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci.
Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all’ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?
Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.
Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.
Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l’amore che il cuore dell’altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.
Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l’indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l’affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i "primi posti” dove saziare noi stessi.
Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.
Attraverso di essa ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione. Questo è il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione».

sabato 27 agosto 2016

Caro Giovagnoli su Loreto manipoli la storia
                     
    
di Luigi Negri*27-08-2016
Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto 1985
Pubblichiamo una lettera aperta di monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, al professor Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea all'Università Cattolica di Milano, in seguito al suo intervento al Meeting di Rimini in cui presenta una rilettura della storia della Chiesa italiana degli ultimi trenta anni, a partire da una critica al Convegno ecclesiale di Loreto del 1985 (clicca qui per leggere i principali passaggi discutibili a cui si riferisce monsignor Negri).

Carissimo Giovagnoli,
ti scrivo usando quella confidenza e sincera lealtà con cui abbiamo vissuto i nostri rapporti fin quando sono stato docente della Università Cattolica. Ricordo i nostri bei dibattiti svolti fra una lezione e l’altra: ho cercato di aprirmi alle tue ragioni, molto diverse dalle mie, ma credo che anche tu in questo dialogo abbia potuto identificare il senso e la ragione della mia presenza in Cattolica e nella Chiesa italiana.
Sono rimasto molto colpito, negativamente, dal tuo intervento al Meeting di Rimini sul genio della Repubblica. Certamente sono affermazioni, le tue, che richiederanno chiarimenti e approfondimenti, ma intanto sto al senso del tuo intervento.
Sono due i punti di dissenso dalla tua posizione:
Il primo riguarda una rilettura scorretta, gravemente scorretta, di quello che è stato il grande convegno di Loreto del 1985. In quell’occasione Giovanni Paolo II si prese la responsabilità di indicare le linee di una identità dei cattolici italiani nel loro servizio al bene comune, riproponendo in maniera esplicita il valore insostituibile della Dottrina sociale della Chiesa, considerata come elemento dinamico così come era stato lungo la storia degli ultimi secoli.
Tu accenni a una resistenza: io ricordo bene il clima di resistenza e di distanza in cui l’intervento del Santo Padre fu seguito quasi senza nessun applauso. Applausi che invece debordarono moltissimi nei confronti dell’allora presidente dell’Azione Cattolica, di cui purtroppo ora non ricordo il cognome ma che era certamente su posizioni molto diverse da quelle di san Giovanni Paolo II. Il Papa chiuse allora una stagione triste della Chiesa italiana piena di complessi di inferiorità, piena di reticenze, di resistenze; ha chiuso il dualismo fede-politica, fede-cultura, fede-ragione, ridando il senso dell’avvenimento della fede come avvenimento unitario, globale, aderendo al quale si procede verso il cambiamento integrale della propria intelligenza, della propria affezione.
Il contributo che Loreto ha indicato ai cattolici italiani era quello di una presenza fortemente identificata. Non contro nessuno: fortemente identificata come avvenimento di fede, fortemente identificata come appartenenza al mistero della Chiesa e soprattutto tesa a investire la realtà della vita sociale di una presenza missionaria nella quale - e attraverso la quale - avveniva un significativo incontro tra i cattolici e le altre componenti della vita sociale italiana.
Il modo per lavorare per l’unità – e qui entro nel secondo livello delle mie osservazioni – è esattamente questo appena descritto. Non di lavorare senza identità, senza caratterizzazioni per una unità del popolo italiano che così come viene adombrata da te non c’è mai stata; per una unità che è tutto sommato una sorta di indifferenza che è la promessa se non già l’esperienza di una omologazione, che è certamente oggi il grande pericolo della nostra società.
Ciascuno non sa più chi sia veramente perché mancano le possibilità di quell’approfondimento della propria identità che – come diceva il mio grande maestro don Luigi Giussani – è la condizione per una effettiva possibilità di dialogo. Il dialogo è il dialogo tra identità, non è una sorta di meccanismo neutrale che c’è per forza propria. Io ho lavorato più di sessanta anni per la Chiesa in Italia, e credo che il contributo che ho dato insieme a tantissimi amici di Comunione e Liberazione (Cl) sia stato quello del recupero di una identità cristiana in funzione di una missione sempre più forte, più libera, capace di creare effettivamente una società più vera, più libera, più umana.
Adesso tanti fatti, tanti avvenimenti e tante esperienze della vita di Cl mi sembra siano presentate secondo una ottica ideologica che non posso condividere perché questi avvenimenti non sono accaduti come vengono descritti oggi. E poi perché mi sembrano di una enorme banalità.
Caro Giovagnoli, sono intervenuto perché ci sia una possibile chiarificazione tra noi, e ci si aiuti a integrarsi. Ma lasciami anche dire che ho aspettato invano che ci fossero voci libere come la tua che ricordassero ai responsabili del Meeting e a tutti che non è possibile che venga negato nell’ambito del Meeting il diritto di parola a gente che porta sulle sue spalle il peso di una fedeltà alla Chiesa che ha significato martirio, a volte offerta della vita (il riferimento è a quanto accaduto per il dibattito sulla normalizzazione dei rapporti tra Cuba e Stati Uniti, clicca qui). Mi è suonata terribile l’affermazione di una responsabile del Meeting secondo cui lo spirito del Meeting «non è di dare voce a chi non può parlare». Vorrei dire a costoro: scusatemi, io per 36 anni non solo ho avuto questa esperienza ma ho lavorato perché chi non aveva voce nella società potesse averla almeno nello spazio libero di un dialogo fra identità operate o sostenute dall’amore a Cristo e all’uomo.
* Arcivescovo di Ferrara-Comacchio
ACCOGLIERE IL POTERE DI CRISTO RISORTO PERCHE' COMPIA IN NOI LA MISSIONE DI SERVIRE NELL'AMORE GRATUITO OGNI UOMO 
L'inizio della parabola descrive, in una profezia, il cuore della missione di Gesù e della sua Chiesa: "consegnando i suoi beni", l' "uomo", immagine di Gesù, "consegna" tutto se stesso. Ma quest' "uomo" è anche immagine di ogni uomo, creato da Dio a immagine del Figlio, perché si "consegni" senza riserve. Dopo aver compiuto il suo Esodo dalla morte alla Vita, Egli chiama gli apostoli "che si era scelti nello Spirito Santo" e impartisce loro le istruzioni sulla missione svelando i segreti del Regno. A Gesù che sta per partire, è stato dato ogni potere in cielo e in terra: consegnando i “talenti” Egli dice agli apostoli: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt. 28, 18-20). I "talenti" sono dunque colmi del potere stesso di Cristo. Comprendiamo allora l'incipit della parabola, che è poi quello della nostra vita, come lo è stato di quella del Signore: l'amore smisurato spinge il Padre a consegnare il Figlio al posto nostro, e il Figlio a consegnarsi al Padre. Il frutto di questo amore intimo e perfetto, è la consegna dei beni di Dio alla Chiesa, a ciascuno di noi, perché siano consegnati ad ogni uomo. E il bene più grande di Dio è il Figlio stesso. E' Lui il talento prezioso che i servi ricevono. "Come il Padre ha mandato me anche io mando voi", perché "come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi". Il "come" è descritto nel diverso numero dei talenti che ricevono i servi. Non si tratta di qualità umane diverse, ma delle varie grazie donate in funzione della missione specifica che ciascuno riceve. Se il talento è Cristo, consegnato attraverso la sua Parola, i sacramenti e tutti i beni che la Chiesa ha sempre custodito e amato, anche chi riceve un solo talento non ha affatto ricevuto meno. Al contrario, ha ricevuto tutto, e nulla manca per compiere la sua missione. Significa che la storia di ciascuno è diversa e irripetibile; agli occhi di Dio la vita di San Francesco Saverio non è più importante di quella di una sconosciuta monaca di clausura nascosta a Lisieux. Il Papa riceve i talenti necessari per adempiere alla sua missione, così come la vedova ammalata che vive in uno sperduto paese di montagna. E noi, che ne abbiamo fatto dei “talenti” che Dio ci dona? Qui sorge una prima questione, fondamentale: per riceverli abbiamo bisogno della Chiesa. Per consegnarli, infatti, “l’uomo chiama i suoi servi”: c’è una chiamata alla quale occorre rispondere. Abbiamo ascoltato l’annuncio della Chiesa e accolto in esso la voce del Signore che ci “chiama”? Altrimenti è inutile cercare i talenti, di fronte alle situazioni della vita nelle quali potremmo “farli fruttare”, non avremo nulla da “consegnare”. Ma, anche se abbiamo accolto la “chiamata” ciò non assicura i “frutti”. I “talenti” dei quali parla Gesù non appaiono così, all’improvviso, ma essendo dati in funzione di una missione, si accolgono nella comunione della Chiesa, dove si impara a “trafficarli”.



Seconda questione: stiamo camminando nella comunità, oppure siamo “cristiani fai da te”, come ripete Papa Francesco? Forse siamo proprio come il “servo fannullone”, la cui "paura" nasceva dall'invidia. Come Caino che non guardava di buon occhio suo fratello, anche lui guardava storto gli altri servi. Nella parabola questo non è scritto, ma si può dedurre da come guardava il Signore. Quell'unico talento tra le mani gli innesca i pensieri più terribili: "so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso". E’ invidioso, che, etimologicamente, significa avere un occhio cattivo. Il servo è in-capace di vedere, e quindi conoscere, Colui che gli ha dato il talento e per questo nasconde ciò che ne è immagine e presenza. Ma, con il talento, nasconde anche se stesso. Come Adamo, che si nasconde dopo aver creduto al demonio che gli aveva presentato un Dio geloso di lui. Sotterrare il talento, infatti, significa seppellire la propria dignità, la primogenitura e il senso della propria vita; significa nascondersi e macerarsi nella solitudine. Perché sotterrare il talento è occultare Cristo, ucciderlo, come Caino uccise Abele. Non gli piaceva quel Talento. Spingeva ad uscire da se stessi, a dimenticare i propri criteri e a donarsi. No, non era il talento che desiderava, per saziarsi e realizzarsi. Era un mostro di talento, inaccettabile. Ma era Cristo, che, giorno dopo giorno, aveva rifiutato. Il "servo malvagio e infingardo" non ha trattato il Talento con familiarità, amore, dedizione, fedeltà, come fosse cosa propria, accogliendo in esso la presenza di Colui che glielo aveva affidato. Nascondendolo, ha perso l'occasione di abbandonarsi alla fedeltà, al potere e all'amore di Dio per vivere secondo la sua volontà. E la sua vita è divenuta un brandello da gettare "fuori nelle tenebre", dove "sarà pianto e stridore di denti". Come spesso facciamo anche noi, in una sorta di "damnatio memoriae" delle persone e degli eventi che non abbiamo accettato. Sotterriamo, ma è solo la paura di chi non è ancora divenuto figlio perché non conosce l’amore del Padre. Pensiamo che Dio voglia sottrarci qualcosa e sospettiamo di Lui, ingannati dalla menzogna primordiale nella quale sono caduti i progenitori: Dio non ti ama, vuole solo limitarti. E’  esigente, e la Chiesa, peggio di peggio. Così, ascoltando il demonio, comincia a dominare in noi la paura che dietro alla Croce non vi sia la resurrezione, ma, nella migliore delle ipotesi, solo un grande punto interrogativo. La paura di chi ha smarrito la fede o si è lasciato raffreddare dagli insuccessi e dallo scandalo della sofferenza. E' lo stesso timore che a volte prende la Chiesa e le impedisce di annunciare il Vangelo sotterrando il talento in discussioni, convegni, slogan e proclami. La Chiesa che non annuncia il Vangelo è sempre una Chiesa che ha sepolto Cristo di nuovo. E così lascia sepolti quelli a cui è mandata, al suo interno e nel mondo. Il servo malvagio, infatti, non riporta nessun talento guadagnato: la sua vita è stata infeconda. Quando la Chiesa, mondanizzata, ha paura e non crede nel potere della predicazione, sta gravemente abdicando, si converte in una serva malvagia e fannullona, che lascia nell'inganno e nella morte i suoi figli e i pagani: non li porta e riconsegna a Cristo. Invece, proprio nei momenti in cui la storia ci crocifiggeva, il Signore consegnava il talento! I talenti, infatti, sono Cristo Crocifisso e risorto in noi, inviato ancora a vivere nella storia per seminarvi la sua vittoria sulla morte e il peccato. Nei momenti di dolore e precarietà, lungi dall'essere duro ed esigente, Dio rivela il suo volto pieno di generosità e misericordia: proprio nella durezza della vita - che esiste a causa del peccato - Dio elargisce gratuitamente il suo potere. Per questo, quando ci assalgono i pensieri tristi che ci gettano nella paura e nell'invidia bisogna correre "dai banchieri", dagli esperti del “trading”, per imparare da loro, e perché ci aiutino a trafficare bene quanto ricevuto. Quando ci accorgiamo di perdere il gusto per la volontà di Dio, avviciniamoci ai presbiteri, ai catechisti, ai genitori, agli esperti nella fede che Dio ha messo sul nostro cammino, e affidiamoci a loro. Il Vangelo di oggi rovescia completamente la prospettiva del servo. E’ una catechesi decisiva nel cammino di fede che veniva data ai catecumeni perché non perdessero tempo e obbedissero alla Chiesa, che li invitava a trafficare nel crogiuolo della storia le Grazie e i beni, anche il denaro, ricevuti da Dio. Per questo, "i servi fedeli nel poco" che ancora è questa vita terrena, con le occasioni di amare che ogni giorno ci offre, consegnano al Signore i talenti esattamente raddoppiati: a ciascun talento corrisponde un evento redento, un uomo salvato. A ciascun talento, infatti, corrisponde lo Spirito Santo per entrare nella storia. Anche oggi l'"Uomo" vero, Cristo risorto, si consegna a noi perché possiamo "trafficare" il suo amore con tutti. Sono loro "i frutti" già maturi per l’opera di Cristo che attendono il nostro talento per tornare a Lui. Quando entriamo in ufficio e salutiamo i colleghi, abbiamo mai pensato che sono venuti a lavorare perché aspettano da noi il talento che trasforma la loro invidia in pazienza? O che moglie e figli ci sono donati per immergere ogni loro peccato nella misericordia? Che ogni istante è un appuntamento unico e irripetibile, per "guadagnare" a Cristo la persona che incontriamo? Quando marito e moglie si uniscono, il piacere è massimo e sazia proprio quando si donano mutuamente e completamente, senza riserve e contraccettivi, siano essi sulla carne e o nel cuore perché anche nel sesso il Talento è fecondo. Ovunque siamo chiamati, preti, suore e laici, è preparata per noi la gioia piena e autentica dell'amore. La stessa gioia di Cristo esplosa la sera di Pasqua nel rivedere i suoi discepoli: il suo talento aveva dato il frutto meraviglioso della salvezza di quel manipolo di traditori. Per questo la missione della Chiesa, è un'avventura affascinante: vivere trafficando il talento per oltrepassare ogni giorno la soglia dell'impossibile, oltre la quale c'è la gioia vera, la partecipazione piena ed eterna a tutti i beni di Dio.

venerdì 26 agosto 2016

Se la fede si riduce a sentimento
                     
    
di Paolo Facciotto                         25-08-2016
«Chiamiamo le cose con il loro nome, Lutero non voleva riformare, ma ha obiettivamente demolito la Chiesa. Ha ridotto la fede a sentimento e soppresso la realtà ecclesiale nella sua sacramentalità. E' inesatto e parziale dire che è stato un riformatore non capito». Sono parole di monsignor Luigi Negri, che domenica sera al cinema Tiberio di Rimini ha presentato in un affollato incontro pubblico il suo ultimo libro, la nuova edizione aggiornata di "False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi", editore Gribaudi, con una presentazione di mons. Luigi Giussani.
Fra i dieci capitoli del lavoro, scritto nello stile vigoroso e sintetico che contraddistingue l'autore, uno è dedicato appunto al protestantesimo, un tema attualissimo visto l'ormai prossimo cinquecentenario delle origini. Rispondendo alla domanda del moderatore su cosa fosse accaduto nel 1517 e anni seguenti, ha spiegato l'arcivescovo di Ferrara-Comacchio:
«Lutero ha iniziato la riduzione della fede a sentimento. Sotto la spinta di tante problematiche, anche personali e morali, ma è indubbio che da Lutero in poi la fede non è una cosa oggettiva, un incontro reale e storico che continua a seguirmi: è un sentimento. Detto nelle sue formulazioni più radicali: se senti di essere salvato sei salvato; se non senti di essere salvato non sei salvato».
Il sentimento si provoca nella lettura della Sacra Scrittura. Per cui la realtà ecclesiale nella sua concretezza, non solo non è più necessaria ma anche è sostanzialmente dannosa. La Chiesa costituisce una forma di mediazione indebita tra Cristo e la persona. Ma il Cristo che il protestante sostiene di incontrare, è un Cristo che finisce molto rapidamente ad essere il contenuto del messaggio scritturistico, interpretato adeguatamente dagli esegeti.
Le cose bisogna chiamarle con il loro nome, Lutero non voleva riformare, non so se in partenza avesse questo desiderio, ma di fatto obiettivamente ha demolito la Chiesa. Quando ha iniziato la sua demolizione, la Chiesa cattolica era fiorente in quasi tutta Europa. Ma se la fede è un problema individuale, soggettivo, non si può neanche vedere la Chiesa, la vera Chiesa che è quella degli eletti è segreta: la vede solo Dio e uno la individua nella sua coscienza. Perciò non c'è una storicità della Chiesa degli eletti, c'è la storicità della Chiesa tedesca, inglese, francese....
Abbinato a questo c'erano enormi possessi economici e fondiari: i grandi ordini cavallereschi tedeschi possedevano due terzi delle campagne. Ecco, una cosa che non c'entra assolutamente con la fede cattolica e che se non verrà mai superata dai luterani impedirà il ritorno, oltre il fatto che le donne sono anche vescovesse, è che è stata creata la Chiesa di Stato. Lutero dice: in tutta questa massa di realtà ecclesiale, io chiedo ai principi della nazione tedesca di proteggerci. Così nasce la Chiesa tedesca.  In Inghilterra c'è la chiesa anglicana, a Praga la chiesa ussita e così via. Così, per la prima volta, la qualificazione ecclesiale non è la fede, ma essere tedeschi, inglesi, francesi eccetera.
Riduzione psicologistica e spiritualistica della fede, e soppressione della realtà ecclesiale nella sua sacramentalità: Lutero non ritiene che la Chiesa sia sacramento, anche perché ha fatto praticamente scomparire quasi tutti i sacramenti, tranne il battesimo.
Noi ci siamo trovati di fronte, in questi tre secoli, a un tentativo di demolizione dall'interno della Chiesa che è di carattere protestantico. Quando alcuni grandi uomini di Chiesa come Benedetto XVI e san Giovanni Paolo II parlavano di un cripto-protestantesimo presente nella realtà della Chiesa cattolica, dicevano che il nemico protestante non era fuori, il nemico protestante si era saldamente insediato all'interno della Chiesa.
Questo è Lutero. Se si dice un'altra cosa, se si dice che è stato un grande riformatore ma la Chiesa non l'ha capito, eccetera, si dicono cose certamente parziali e inesatte".
La presentazione del libro, promossa dalla Fondazione Giovanni Paolo II per la Dottrina Sociale della Chiesa, è proseguita sul doppio binario del passato (Rivoluzione francese, concordati), della storicità dell'avvenimento cristiano e del presente.
All'inizio Negri ha dato note di metodo sullo studio della storia della Chiesa ed ha ricordato come, nella Gioventù Studentesca degli anni '60 guidata da Giussani, nascevano le cosiddette "schede di revisione" su argomenti storici, letterari o scientifici, ciclostilate e distribuite gratuitamente. In qualche caso, come "Sul problema di Galileo", ne nascevano degli opuscoli a stampa autofinanziati, grazie all'aiuto personale del sacerdote di Desio. Argomenti lontani nel tempo che finivano nelle aule e costituivano punti di discussione con il laicismo imperante nelle scuole.
«E' la dialettica della fede. E' la dialettica fra la fede e il mondo. Se una fede non è dialettizzata dal mondo e non dialettizza il mondo non ha senso», ha commentato Negri. E circa il rapporto tra Chiesa e Stato: «Questa tensione tra potere e Chiesa, fra potere e vita e libertà religiosa, è una costante della vita della Chiesa, ritorna in infiniti modi. Pensate che oggi il dibattito sui cosiddetti valori sensibili, non riproponga uno scontro frontale con una concezione della vita totalmente atea, puramente scientifica e tecnologica, in cui tutto è scienza e tecnologia, la modalità con cui far nascere i bambini o con cui decidere di non farli nascere, con cui manipolarne l'esistenza? Oggi il nuovo totalitarismo è tecno-scientifico».
Di qui Negri è arrivato al dibattito sulla riforma costituzionale: «Il punto è che le due realtà siano indipendenti e sovrane. Guardate bene in questo nuovo assetto che fine fa la realtà della Chiesa. La nostra Costituzione ha certamente considerato che la nostra società sia fatta di persone, famiglie, gruppi, realtà sociali di maggiore o minore incidenza, ma anche di una realtà sociale strana e irriducibile alle altre che si chiama Chiesa cattolica.
Se il nuovo dettato costituzionale facesse venir fuori un'immagine - lo dico ipoteticamente - di società come insieme di individui; se si riconoscono solo i diritti degli individui, e già si fa fatica a riconoscere quelli della famiglia, meno che mai si riconoscono i diritti della Chiesa: quello è un cambiamento costituzionale che deve essere respinto, secondo me. Mi soffermo su questo perché non c'è fede senza battaglia».
«La Chiesa deve affermare in ogni momento della sua storia che il potere non la surclassa, d'altra parte deve vivere con coerenza la riduzione delle sue pretese sullo Stato. La Chiesa non ha la pretesa di guidare lo Stato. La Chiesa non ha mai voluto essere una Chiesa di Stato, anzi la sua idea fondamentale è che nella società ci sia libertà per tutti». «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo: il pericolo è lì, ragionare come il mondo. Vivere come il mondo è una meschina necessità, perché anche il cristiano è sottoposto alla tentazione. Ma ragionare secondo il mondo è il peccato dal quale dipendono tutti gli altri».
«Nella missione c'è la lotta col potere. La missione non si riduce alla lotta per il potere, ma non c'è vera missione se è fatta in modo irenico: ci sono le leggi che stanno cambiando faccia della società e della famiglia, ma a noi cristiani non interessano queste cose... a noi interessa la nostra esperienza soggettiva, il nostro dire ai nostri amici non cristiani, sussurrandoglielo: “Eh, per non correre la tentazione di coartare la loro libertà...”. Questa non è la missione della Chiesa.
La missione della Chiesa è che di fronte al mondo, in modo opportuno o inopportuno, la Chiesa continui a dire il grande annuncio di Cristo. E lo dice non con un annuncio astratto, ma con una realtà di popolo. L'evangelizzazione fa nascere e incrementa la Chiesa. Le prime prediche, fatte dai primi, che avevano le mani abbastanza ruvide anche loro... perché quando Pietro parla, fra quelli che lo ascoltano ci sono quelli che hanno fatto la pelle al Signore. E lui non dice assolutamente: facciamo come se non fosse successo nulla, perdono tutti. Il perdono si dà dopo avere indicato le responsabilità. Il perdono di Dio ci raggiunge nella Confessione ma soltanto quando uno ha ammesso la sua colpa e ha sentito su di sé il giudizio della Chiesa. Il giudizio della Chiesa si esprime come perdono, ma c'è, il giudizio".
E ancora sul tema del prossimo referendum: «La Chiesa non può non giudicare cose del genere, se non giudica cose del genere tradisce la sua missione. Perciò chiunque dicesse, qualunque sia il colore del suo vestito, che si può stare in silenzio a pensare ad altro, tradisce la Chiesa».
Negri ha poi fatto un parallelo storico con il no del papa alle leggi razziali del fascismo: «Se la Chiesa non ha questo coraggio, lascia il popolo allo sbando. Ma se il popolo viene lasciato alla sbando, il popolo ha - per me - il sacrosanto diritto di dire: ma voi pastori, perché ci lasciate allo sbando? Ci sono vicende della vita socio-politiche su cui i veri cristiani non possono stare in silenzio». 
Approfittando di ogni occasione per amare




Il cristianesimo è una cosa seria, non è sentimentalismo e amore sdolcinato. E' una missione, e chi è chiamato ad essere cristiano, deve sapere che diventarlo significa essere trasformati in sale, luce e lievito del mondo, offrendo se stesso per salvezza di ogni uomo. Le "dieci vergini" erano delle damigelle di onore allo sposo che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un "piccolo vaso" che conteneva l'olio di riserva. Esse rappresentano i chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura: i cristiani sono chiamati a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Essi sono promessi a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a Cristo (cfr. 2 Cor. 11,2). E San Paolo sta parlando del battesimo. Durante la "Veglia" Pasquale, dopo essere scesi nel fonte battesimale e aver ricevuto l'unzione con l'olio crismale (la cresima), colmi dello Spirito Santo i neofiti attendevano lo Sposo per entrare con Lui al banchetto. Erano "vergini", cioè rinnovati e senza peccato originale, e "nei piccoli vasi" avevano l'olio dello Spirito Santo che  aveva compiuto in loro segni e prodigi durante l'iniziazione cristiana conducendoli alla statura adulta della fede. Avevano "vigilato" e ora, con i loro piccoli vasi colmi del crisma, erano pronti ad accendere le "fiaccole" con la luce delle opere sante e soprannaturali che rivelavano in essi la nuova natura ricevuta. E proprio nel cuore della notte di Pasqua, un grido li destava: "ecco lo sposo!", è risorto, "andategli incontro". Allora essi si alzavano dal sonno, andavano ad accogliere il Signore che li conduceva con Lui al banchetto dell'Eucarestia, culmine e fonte della liturgia. Anche per noi, la chiamata che abbiamo accolto nelle diverse circostanze, ha inaugurato un cammino attraverso la storia reale e concreta di ciascuno per giungere alla maturità della fede. Creati a sua immagine dobbiamo crescere in esso perché, al giungere dello Sposo, al termine del nostro catecumenato come poi alla fine del mondo, Egli possa "riconoscerci" quali suoi fratelli, chiamarci, destarci e farci nascere alla vita che non muore. Per questo, le nozze eterne si preparano durante tutta la vita. Un fidanzamento, un matrimonio, il ministero presbiterale, la consacrazione religiosa, la maternità e la paternità, anche un'amicizia, non sono cose di un momento, non sono avventure e passioni, roba da grandi quanto effimeri entusiasmi. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle piccole cose: "afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario" (Card. Van Thuan). La saggezza è questa fedeltà paziente e semplice; la stoltezza è la superficialità che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le emozioni forti. La "sapienza" è l'umiltà fondata nella verità. La "stoltezza" è la superbia radicata nella menzogna. La vita è molto seria, e quella eterna ce la giochiamo qui, come ogni uomo; per questo il cristianesimo è quanto di più serio vi sia. Solo percorrendo un serio cammino di conversione potremo ascoltare il grido che annuncerà l'arrivo dello Sposo e trovarci pronti per entrare con Lui nelle nozze. I "piccoli vasi" indicano le orme che precedono i nostri passi: essi sono immagine delle piccole occasioni che Dio ci offre nella nostra storia; è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio. Per questo la vera saggezza è procurarsi l'olio dello Spirito Santo, rinnovare ad ogni evento della vita l'Alleanza che ci fa primogeniti. Ci si può addormentare, siamo deboli, ma è proprio nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio. Anche Adamo si è addormentato, e fu vita tratta dalla sua stessa carne. Anche Abramo fu preso da un torpore, e fu l'Alleanza incorruttibile. Anche i discepoli cedettero agli occhi appesantiti, e fu il compimento definitivo della Volontà di Dio. In comune tutti hanno la propria debolezza e il potere di Dio: è Lui che fa tutto, perché Dio dona il pane ai suoi amici nel sonno: mentre dormiamo pulsa la vita autentica, ed è il mistero a cui siamo chiamati, la vita nella morte. La primogenitura è, essenzialmente, vivere senza timore nel sonno della morte che ogni giorno prende le nostre vite, tenendo desto il cuore colmo di Spirito Santo. E ciò accade se camminiamo nella Chiesa, se alimentiamo i piccoli vasi con l'ascolto della Parola di Dio, con i sacramenti, con la frequenza alle liturgie; nel seno della Chiesa, infatti, impariamo a nutrire l'uomo nuovo che vi è gestato: e ogni gravidanza inizia con un "ritardo"... Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si "destano" come il Signore si "desta" dalla morte! Il ritardo è l'occasione per crescere nell'amore, per prepararsi all'incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell'obbedire e dei genitori nell'ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l'occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo SpiritoEssere "vigilanti" è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che "significa vedere e prendere le cose così come esse sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l'unico polo capace di attrarre l'attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza




San Paolo, dopo aver ricordato ai Galati che “il tempo è breve”, conclude dicendo: “Dunque, fino a quando abbiamo tempo, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede!”. Operare il bene che lo Spirito Santo ispira e compie attraverso di noi, nei fatti e con le persone di ogni giorno: il lavoro con le sue difficoltà, le occasioni per prendere su di sé le pratiche dei colleghi e, per amore, rinunciare al proprio prestigio; il fidanzamento ancorato alla speranza di veder compiuto il desiderio di amare, attraverso il combattimento per la castità, per il rispetto, per la libertà dell'altro, imparando nei piccoli frammenti di vita a rinunciare a se stessi; il matrimonio aperto alla vita, alla volontà di Dio, nelle occasioni di fedeltà che si presentano ogni giorno, nella pazienza e nel dono del proprio tempo, dei propri gusti, accompagnando il coniuge, in tutto, verso l'obbedienza a Cristo; i genitori a cui obbedire anche nelle cose più banali, come lavare i piatti, rifare il letto e lavarsi i denti; la scuola nella quale approfittare per imparare a fare anche ciò che non piace, rinunciando alle più allettanti e gratificanti per compiere la volontà di Dio; la vita religiosa nella quale cogliere l'occasione per obbedire ai superiori, che ci appaiono così spesso meno perspicaci e illuminati di noi, per imparare ad ancorare la vita in Cristo e non negli uomini attraverso i quali Egli ci parla. Tutto quello che ci è dato di vivere è un'occasione per crescere e prepararsi all'ultima opportunità, quella che ci attende sulla soglia del banchetto escatologico. Solo gli stolti si lasciano scappare i kairos pieni di amore, i fatti e le persone che Dio ci invia ogni giorno perché siano vissuti cristianamente, intrisi cioè nell'unzione del Crisma profetico, sacerdotale e regale. In tutto come profeti del Cielo, re della carne e dei suoi desideri, sacerdoti che intercedono per ogni uomo. Le vergini stolte sono, infatti, immagine di chi non persevera nelle opere di Cristo, preferendo, per sciatteria e superficialità, le proprie. Dormono ma il loro cuore non veglia. Ogni relazione, ogni esperienza è per loro come quella di un corpo addormentato dopo un'ubriacatura, preda di sogni e passioni, ma incapace di cogliere la realtà nella sua essenza. Vivono tutto addormentate nel sonno drogato della carne, con il cuore assente e vuoto, come i loro piccoli vasi. Non possono colmare d'amore le occasioni che Dio dona loro. Fanno, disfano e non resta nulla: opere morte, opere addormentate. Così è di tanti matrimoni, di tanti fidanzamenti, di tante amicizie: "Invece che spalancare le braccia ad abbracciare il mondo, si vuole ridurre l'abbraccio all'oggetto che piace, che ci è davanti, e così uno lancia le braccia - secondo il paragone dell'Eneide - e stringe il nulla, abbraccia e stringe il niente" (Mons. Luigi Giussani). Sono stolte perché nemmeno si rendono conto di essere state chiamate ad accompagnare lo Sposo, ad esserne le damigelle d'onore; hanno dimenticato l'abito nuziale, l'olio per le lampade, la primogenitura: sono stolte perché senza memoria. Hanno, come tanti di noi, partecipato al memoriale della Pasqua del Signore, sorgente e compimento della vocazione, ma non hanno mai rinnovato nulla, non hanno mai accolto davvero la Grazia offerta dalla Chiesa: sacramenti, preghiere, riunioni, forse anche buone opere, ma tutto come vasi forati, incapaci di trattenere lo Spirito Santo. Stolte come chi pensa di poterla comunque sfangare alla fine, anche se nella vita ha sempre schivato il sacrificio, le piccole occasioni, dissipando l'olio ricevuto senza provvederne dell'altro. La stoltezza è negare la Croce, ed è sempre opera dell'anticristo che nega l'incarnazione, le piccole occasioni dove incontrare il Signore. Ma, alla resa dei conti, la stoltezza si rivela per quello che è: zizzania cresciuta accanto al grano, buona solo per essere gettata fuori. Si muore come si è vissuti: benedicendo per chi ha benedetto; amando per chi ha amato. Per questo, come alla fine della vita, anche ogni giorno occorre pensare seriamente e saggiamente a se stessi. Vi sono cose che nessuno potrà mai fare per noi. Non è possibile distribuire l'olio destinato a ciascuno, perché non ne venga a mancare a tutti. Si può amare, pregare, offrire la propria vita, ma l'olio dello Spirito Santo capace di far compiere le opere per le quali siamo predestinati, quello è dono esclusivo di Dio. A Lui bisogna chiederlo al tempo opportuno. Non c'è sentimentalismo o pietismo che tenga: nulla possiamo anteporre a Cristo. Nulla all'obbedienza e all'intimità con Lui. Vi è sempre un ordine fondamentale, perduto il quale si inciampa e ci si perde: una madre non può trascurare il proprio rapporto con il Signore per tentare di aiutare suo figlio. Sarebbe assorbita dalle stesse sabbie mobili. Così per ogni relazione: quanti ragazzi distruggono la propria vita per tentare di salvare l'amico o la fidanzata drogata, perdendo il proprio olio e non offrendo nulla se non la propria indifesa debolezza. E' Cristo e solo Lui che scende nella morte, che perdona e risuscita: noi possiamo e siamo chiamati ad annunciarLo, a condurre al suo trono di misericordia chi amiamo, non a sostituirci a Lui. Per questo l'amore autentico agli altri sorge da un'intimità profonda con il Signore: spesso è meglio parlare a Dio delle persone che alle persone di DioLa libertà è la firma di Dio nella vita di ciascuno e spesso ci procura dolore; la stoltezza di un figlio, di un amico, di una persona cara ci spezza il cuore, ma non possiamo sostituirci a lui. L'unico che è morto al posto di ciascuno di noi è Cristo! Amare autenticamente, saggiamente, è dunque curare il nostro cuore, tenerlo desto, ricevere e custodire lo Spirito Santo perché in noi ogni stolto possa incontrare Lui, e, se ancora in tempo, accogliere il suo amore.