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mercoledì 31 agosto 2016

Ma la cena eucaristica non è un pic-nic
                     
    
di Rino Cammilleri                    31-08-2016
La consacrazione
Pensate, ai tempi del giansenismo per fare la comunione ci voleva un permesso speciale del proprio direttore spirituale. Palesemente influenzato dal luteranesimo, tale movimento (che dilagò all’interno del cattolicesimo nel XVII secolo ma il cui contagio arrivò fino ai primi decenni del XIX) partiva dal presupposto dell’indegnità umana ad accostarsi ai sacramenti. Alla fine, poiché, a ben pensarci, è difficile che uno si ritenga degno, il risultato è lo scoraggiamento. E il conseguente allontanamento.
Troppo difficile, grazie lo stesso. Il giansenismo colpì duro soprattutto in Francia, dove i cattolici vivevano a stretto contatto con i calvinisti ugonotti e le guerre di religione avevano lasciato il segno. Proprio al culmine dell’eresia (perché questo era), il Sacro Cuore di Gesù apparve a santa Marguerite Alacoque, a ricordare l’umanità di Cristo e la sua misericordia. Fieri avversari del giansenismo furono i soliti gesuiti, l’esercito personale del Papa. Ci volle, come sempre nella storia del cristianesimo, parecchio tempo prima che la Chiesa ri-centrasse le cose. Infatti, il timone serve a impedire che la barca sbandi di qua o di là. Nessuno è degno («Domine, non sum dignus…»), ma la misericordia divina supplisce all’indegnità («…sed tamen dic verbum…»).
I più anziani tra noi forse ricorderanno quando, per poter fare la comunione, bisognava essere digiuni dalla sera prima. E solo alla fine degli anni Cinquanta si cominciò a ridurre il limite fino a portarlo a un’ora. Qui è rimasto, anche perché di meno sarebbe ridicolo e tanto varrebbe abolirlo. A che serve questo, pur minimo, limite? Appunto a ricordare, almeno simbolicamente, l’”indegnità”: è il Corpo di Cristo quello che vai a ingoiare, vera carne e vero sangue di Dio. Il catechismo invece non ha mai modificato niente in materia: puoi comunicarti solo se sei «in grazia di Dio», cioè se sei stato assolto dal confessore. In casi eccezionali puoi confessarti anche dopo, ma che sia alla svelta, in base alla tua coscienza (sempre che questa sia «ben formata», cioè cristianamente edotta e istruita, sennò diventa arbitrio).
Queste sono le regole, e non si dà comunità senza regole: anche in un villaggio di santi i semafori sono necessari. Tutto ciò si impose alla mia mente quando alla tivù vidi le prime grandi messe negli stadi, con molti sacerdoti sguinzagliati tra gli spalti a distribuire la comunione a chiunque tendesse le labbra (poi le mani). Mi chiedevo: saranno tutti confessati? O, subito dopo, in migliaia affolleranno i confessionali? Boh. Veniamo all’oggi. Non è vero che le chiese sono vuote: io, anche in giro per l’Italia, e anche d’estate, le vedo sempre affollate. E, all’ora della comunione, tutti, dico tutti, si mettono in fila per comunicarsi. Infatti, in molte chiese occorrono i “ministri straordinari” per darla, sennò non la finiamo più.
La domanda è la stessa di prima: saranno tutti «in grazia di Dio»? Ma scaccio il pensiero: chi sono io per giudicare? Poi, però, leggo lettere accorate di lettori (non solo a me, ma anche, per esempio, al sito cattolico Aleteia.org), che chiedono consiglio su, che so, loro parenti divorziati e risposati che si comunicano tranquillamente, e se viene obiettato loro qualcosa, ti rispondono giudicando, eccome, te: non hai misericordia, non sei un buon cattolico, sei privo di amore per il prossimo eccetera. Allora, ecco che si insinua il dubbio sulla famosa domanda di prima. Papa Francesco ha chiarito che cosa si intende per «coscienza ben formata». Ma quanti di quelli che, in massa, vanno a fare la comunione ce l’hanno?
Una mia collega insegnante, buddista, ogni tanto, a seconda dell’estro, si presentava alla messa domenicale e si comunicava. Perché? Si vergognava di restar seduta mentre tutti gli altri si mettevano in fila. Ora, la strategia globale della “misericordia” è ben fondata nel Vangelo. Sì, nella parabola in cui il re invita gli amici al pranzo di nozze e tutti si defilano perché hanno altro da fare (Lc 14,21): «Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: "Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi". Il servo disse: "Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto". Il padrone allora disse al servo: “Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia».
Matteo (22, 9) aggiunge: «Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali». Ma ecco l’ultima parte della parabola, quella più difficile da digerire (infatti, viene silenziata nelle omelie): «Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: "Amico, come mai sei entrato qui senza l'abito nuziale?". Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: "Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti"». Giansenismo? No, «coscienza ben formata». 

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