«Tu sei un bene per me», il titolo della XXXVII edizione del Meeting di Rimini che si apre oggi, coglie senz’altro un aspetto decisivo dell’esperienza umana oggi così gravemente contraddetto dalla mentalità dominante. Il bisogno dell’altro per crescere e realizzarsi è un’esperienza elementare che viviamo fin dal concepimento, e poi su su fino alle relazioni internazionali: in fondo anche la tanto demonizzata globalizzazione dice di un’interdipendenza tra i popoli e le nazioni.
Paradossalmente però tanto più la storia ci dimostra la necessità di questa dipendenza reciproca, del riconoscimento del bene che l’altro è per me, quanto più trionfa – almeno in Occidente – un’ideologia individualista che addirittura teorizza lo scioglimento di qualsiasi legame, una libertà individuale dove l’uomo pretende di realizzarsi liberandosi da qualsiasi appartenenza. Divorzio, aborto, procreazione artificiale, eutanasia sono tutti passaggi successivi di questa ideologia, arrivata oggi – con il gender - a proporre addirittura la liberazione dal vincolo della propria natura corporea. Il risultato è già sotto gli occhi di tutti: solitudine, disperazione, violenza, più in generale società inquiete e conflittuali. Situazioni personali e rapporti internazionali risultano così straordinariamente legati. Non a caso Madre Teresa di Calcutta – a cui il Meeting dedica una mostra - diceva con chiarezza che l’aborto è la più grave minaccia per la pace. E chissà se qualcuno avrà il coraggio e l’onestà di ricordarlo da qui al 4 settembre, quando Madre Teresa sarà canonizzata in San Pietro?
Gli organizzatori del Meeting giustamente ricordano che il tema va anche al centro delle varie crisi che viviamo: guerre, migrazioni, terrorismo, conflitti sociali. Il riconoscimento che l’altro è un bene in sé è senz’altro il primo passo per iniziare un cammino di pacificazione e riconciliazione. Basti pensare ai diversi conflitti mediorientali, che ormai si sono fusi in un unico inestricabile groviglio: per tanti paesi della regione il mondo sarebbe sicuramente migliore se Israele e gli ebrei non ci fossero, al punto che i libri di geografia vengono concepiti escludendo lo Stato di Israele; e nel conflitto siriano da anni si va avanti con una parte che considera preliminare a eventuali negoziati di pace «l’eliminazione» del presidente siriano Assad. E non parliamo di quanto sta avvenendo in Turchia. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, perché in fondo ogni guerra e ogni conflitto inizia dal convincimento che eliminando qualcuno si possa essere più felici. È anche la tentazione che viviamo tutti quotidianamente, pensando che senza quel capo, senza quel collega, senza la moglie o il marito, la vita sarebbe senz’altro migliore.
Ma visto che tutti, in un modo o nell’altro, cadiamo in questa tentazione, la vera domanda da porsi è allora come sia possibile riconoscere che l’altro è davvero un bene per me, e come è possibile permanere in questo giudizio. Non basta certamente un richiamo morale all’accoglienza, né evocare la parola magica “dialogo”, che senza il riconoscimento di una verità oggettiva da ricercare può al massimo condurre a un effimero compromesso.
Bisogna anzitutto avere chiaro che nella storia solo il Cristianesimo ha concepito e realizzato esperienze di comunione in cui l’appartenenza a un popolo si è rivelata fattore di creatività, di speranza, di esaltazione della persona. Basta guardare a cosa è nato dalla civiltà cristiana medievale. E ancora oggi soltanto nei paesi che ancora godono dell’eredità di questa grande civiltà o che ne sono stati influenzati, si trova anche nel diritto questa concezione ideale dell’altro come un bene per sé e per la comunità, sebbene poi questo possa essere contraddetto mille volte da nuove leggi o da alcune espressioni politiche. Se non si vuole restare nell’astratto, non si può proporre il tema del bene che l’altro è per me senza far riecheggiare la pretesa di Cristo di essere la risposta esauriente al desiderio di bene, di giustizia, di felicità che c’è nel cuore di ogni uomo.
A volte si nota invece anche tra i cattolici quasi una vergogna della propria fede, la ricerca di un dialogo che non arriva mai alle ragioni ultime ma che resta sospeso tra sentimentalismo e ricerca di un minimo denominatore comune. Ma come si può riconoscere l’altro come un bene se non nella coscienza che Cristo ha sofferto ed è morto e risorto anche per la sua salvezza?
Un caso tipico è quello del nostro continente: spesso, soprattutto in merito al tema dell’immigrazione, si presenta l’Europa medievale che ha saputo fondere tanti popoli diversi in un’unica cultura, e l’Europa della seconda metà del Novecento che ha costruito la pace dopo due guerre mondiali, come il risultato di un dialogo, di un’accoglienza reciproca che però non si sa bene da cosa sia stata generata. Così si ripropongono sentimentalmente i valori dell’accoglienza, del dialogo, della democrazia come la vera identità europea.
Con molta più precisione invece l’allora cardinale Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, in una conferenza tenuta a Strasburgo nel 1979, spiegava che il Cristianesimo è la sintesi tra la fede di Israele e lo spirito greco operata in Gesù Cristo: «L’Europa in senso stretto (…) nasce da questa sintesi e si basa su di essa». In altre parole, l’Europa non nasce da popoli diversi che un giorno si mettono intorno a un tavolo e dialogando trovano un accordo per costituire l’unità politica del Continente, né che organizzano preghiere interreligiose per riconoscersi in un comune anelito spirituale. È l’evangelizzazione che ha fatto l’Europa, è la Chiesa che ha attratto e valorizzato le singole culture portandole a Cristo. Questa è l’identità da rivivere e riproporre.
Proprio l’aver dimenticato questo fattore, questa identità, proprio il “vuoto interiore” dell’Europa è all’origine dei nostri problemi e del pericolo mortale che corriamo. Diceva ancora il cardinale Ratzinger, questa volta in una conferenza a Berlino nel novembre 2000: «La rinascita dell’islam non è solo collegata con la ricchezza materiale dei paesi islamici, bensì è anche alimentata dalla consapevolezza che l’islam è in grado di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli, una base che sembra essere sfuggita di mano alla vecchia Europa, la quale così, nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto».
Tanto per entrare nel concreto, pensare di rispondere a questa sfida invitando i musulmani a messa è solo un modo per accelerare il tramonto. Un dialogo vero può esserci solo se siamo convinti di portare, con la fede in Cristo, una novità che è il bene anche per l’altro e che la diversità dell’altro mi aiuterà a rendere ancora più vero
Paradossalmente però tanto più la storia ci dimostra la necessità di questa dipendenza reciproca, del riconoscimento del bene che l’altro è per me, quanto più trionfa – almeno in Occidente – un’ideologia individualista che addirittura teorizza lo scioglimento di qualsiasi legame, una libertà individuale dove l’uomo pretende di realizzarsi liberandosi da qualsiasi appartenenza. Divorzio, aborto, procreazione artificiale, eutanasia sono tutti passaggi successivi di questa ideologia, arrivata oggi – con il gender - a proporre addirittura la liberazione dal vincolo della propria natura corporea. Il risultato è già sotto gli occhi di tutti: solitudine, disperazione, violenza, più in generale società inquiete e conflittuali. Situazioni personali e rapporti internazionali risultano così straordinariamente legati. Non a caso Madre Teresa di Calcutta – a cui il Meeting dedica una mostra - diceva con chiarezza che l’aborto è la più grave minaccia per la pace. E chissà se qualcuno avrà il coraggio e l’onestà di ricordarlo da qui al 4 settembre, quando Madre Teresa sarà canonizzata in San Pietro?
Gli organizzatori del Meeting giustamente ricordano che il tema va anche al centro delle varie crisi che viviamo: guerre, migrazioni, terrorismo, conflitti sociali. Il riconoscimento che l’altro è un bene in sé è senz’altro il primo passo per iniziare un cammino di pacificazione e riconciliazione. Basti pensare ai diversi conflitti mediorientali, che ormai si sono fusi in un unico inestricabile groviglio: per tanti paesi della regione il mondo sarebbe sicuramente migliore se Israele e gli ebrei non ci fossero, al punto che i libri di geografia vengono concepiti escludendo lo Stato di Israele; e nel conflitto siriano da anni si va avanti con una parte che considera preliminare a eventuali negoziati di pace «l’eliminazione» del presidente siriano Assad. E non parliamo di quanto sta avvenendo in Turchia. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, perché in fondo ogni guerra e ogni conflitto inizia dal convincimento che eliminando qualcuno si possa essere più felici. È anche la tentazione che viviamo tutti quotidianamente, pensando che senza quel capo, senza quel collega, senza la moglie o il marito, la vita sarebbe senz’altro migliore.
Ma visto che tutti, in un modo o nell’altro, cadiamo in questa tentazione, la vera domanda da porsi è allora come sia possibile riconoscere che l’altro è davvero un bene per me, e come è possibile permanere in questo giudizio. Non basta certamente un richiamo morale all’accoglienza, né evocare la parola magica “dialogo”, che senza il riconoscimento di una verità oggettiva da ricercare può al massimo condurre a un effimero compromesso.
Bisogna anzitutto avere chiaro che nella storia solo il Cristianesimo ha concepito e realizzato esperienze di comunione in cui l’appartenenza a un popolo si è rivelata fattore di creatività, di speranza, di esaltazione della persona. Basta guardare a cosa è nato dalla civiltà cristiana medievale. E ancora oggi soltanto nei paesi che ancora godono dell’eredità di questa grande civiltà o che ne sono stati influenzati, si trova anche nel diritto questa concezione ideale dell’altro come un bene per sé e per la comunità, sebbene poi questo possa essere contraddetto mille volte da nuove leggi o da alcune espressioni politiche. Se non si vuole restare nell’astratto, non si può proporre il tema del bene che l’altro è per me senza far riecheggiare la pretesa di Cristo di essere la risposta esauriente al desiderio di bene, di giustizia, di felicità che c’è nel cuore di ogni uomo.
A volte si nota invece anche tra i cattolici quasi una vergogna della propria fede, la ricerca di un dialogo che non arriva mai alle ragioni ultime ma che resta sospeso tra sentimentalismo e ricerca di un minimo denominatore comune. Ma come si può riconoscere l’altro come un bene se non nella coscienza che Cristo ha sofferto ed è morto e risorto anche per la sua salvezza?
Un caso tipico è quello del nostro continente: spesso, soprattutto in merito al tema dell’immigrazione, si presenta l’Europa medievale che ha saputo fondere tanti popoli diversi in un’unica cultura, e l’Europa della seconda metà del Novecento che ha costruito la pace dopo due guerre mondiali, come il risultato di un dialogo, di un’accoglienza reciproca che però non si sa bene da cosa sia stata generata. Così si ripropongono sentimentalmente i valori dell’accoglienza, del dialogo, della democrazia come la vera identità europea.
Con molta più precisione invece l’allora cardinale Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, in una conferenza tenuta a Strasburgo nel 1979, spiegava che il Cristianesimo è la sintesi tra la fede di Israele e lo spirito greco operata in Gesù Cristo: «L’Europa in senso stretto (…) nasce da questa sintesi e si basa su di essa». In altre parole, l’Europa non nasce da popoli diversi che un giorno si mettono intorno a un tavolo e dialogando trovano un accordo per costituire l’unità politica del Continente, né che organizzano preghiere interreligiose per riconoscersi in un comune anelito spirituale. È l’evangelizzazione che ha fatto l’Europa, è la Chiesa che ha attratto e valorizzato le singole culture portandole a Cristo. Questa è l’identità da rivivere e riproporre.
Proprio l’aver dimenticato questo fattore, questa identità, proprio il “vuoto interiore” dell’Europa è all’origine dei nostri problemi e del pericolo mortale che corriamo. Diceva ancora il cardinale Ratzinger, questa volta in una conferenza a Berlino nel novembre 2000: «La rinascita dell’islam non è solo collegata con la ricchezza materiale dei paesi islamici, bensì è anche alimentata dalla consapevolezza che l’islam è in grado di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli, una base che sembra essere sfuggita di mano alla vecchia Europa, la quale così, nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto».
Tanto per entrare nel concreto, pensare di rispondere a questa sfida invitando i musulmani a messa è solo un modo per accelerare il tramonto. Un dialogo vero può esserci solo se siamo convinti di portare, con la fede in Cristo, una novità che è il bene anche per l’altro e che la diversità dell’altro mi aiuterà a rendere ancora più vero
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