La parola di Dio e la Chiesa
di don Giovanni Tangorra
A) L’importanza della parola
Cominciamo con due domande: cosa rappresenta la parola nella vita dell’uomo e cosa intendiamo quando diciamo “parola di Dio”.
1. La “parola”, come ci dicevano i maestri di scuola elementare, è la parte fondamentale del discorso, a noi interessa rilevare come sia pure la componente fondamentale dell’uomo, ciò che lo distingue dalle altre specie. “Ha detto la sua prima parola” si dice di un neonato, come a ricalcare che ormai è diventato un uomo. Fin dal primo vagito noi siamo chiamati ad abitare in mezzo alle parole e molto dipenderà da esse, perché chi cresce in mezzo a parole di odio o di pace è quasi inevitabile che diventi odio o pace lui stesso. La Genesi racconta che Adamo fu creato da Dio con parola e polvere, e che il suo primo atto fu di dare un nome a ogni cosa (2,20). Si sentiva piccolo nel grande universo e se lo rese amico trasformando il mondo nella casa delle parole.
Ma perché l’uomo ha tanto bisogno della parola? La risposta è che la nostra natura è per sua essenza dialogica. Lo sappiamo tutti: da soli non stiamo bene. Tanto forte è questo nostro bisogno che parliamo con tutto noi stessi, coi gesti, col vestire, con lo sguardo, con le azioni, col silenzio. Oltre che a fabbricare la casa, le parole ci servono perciò come mattoni per costruire i ponti della relazione. Ritorniamo ad Adamo. Nonostante avesse dato un nome a ogni cosa avvertì la solitudine ed è solo con la creazione di Eva che poté stabilire un contatto, pronunciando la prima dichiarazione di amore della storia. L’opera della creazione è ora completa: il primo uomo dialoga con Dio, con le cose che lo circondano e con l’altro che gli sta accanto.
Ma perché l’uomo ha tanto bisogno della parola? La risposta è che la nostra natura è per sua essenza dialogica. Lo sappiamo tutti: da soli non stiamo bene. Tanto forte è questo nostro bisogno che parliamo con tutto noi stessi, coi gesti, col vestire, con lo sguardo, con le azioni, col silenzio. Oltre che a fabbricare la casa, le parole ci servono perciò come mattoni per costruire i ponti della relazione. Ritorniamo ad Adamo. Nonostante avesse dato un nome a ogni cosa avvertì la solitudine ed è solo con la creazione di Eva che poté stabilire un contatto, pronunciando la prima dichiarazione di amore della storia. L’opera della creazione è ora completa: il primo uomo dialoga con Dio, con le cose che lo circondano e con l’altro che gli sta accanto.
2. Quando noi diciamo “parola di Dio” pensiamo subito alla Bibbia. In realtà le cose non stanno esattamente così, perché Dio si esprime in molti modi e quindi la realtà che racchiudiamo nell’espressione “parola di Dio” è più grande e più vasta della Bibbia stessa. Con essa intendiamo l’attività di Dio che si intrattiene con gli uomini come ad amici, per invitarli alla comunione con sé e far conoscere il suo disegno di salvezza (DV 2). Ci si chiede perché Dio privilegi la “parola” e non altri mezzi come la “visione”. Il motivo è che Egli non può essere visto. Se riuscissimo a vederlo, sarebbe uno dei tanti fenomeni di questo mondo. L’unico mezzo umano che è visibile e invisibile al tempo stesso è la parola ed è dunque tramite la parola che Dio discende tra gli uomini.
Quest’attività trova il suo centro in Cristo, di modo che quando noi cristiani diciamo “parola di Dio” intendiamo “Gesù Cristo”. La sua autorità è unica, sovrana, assoluta. I medioevali lo chiamavano il Verbum abbreviatum, cioè la sintesi di tutto ciò che Dio ha da dire agli uomini. I Vangeli lo dichiarano profeta potente in “parole e opere” (Mc 6,15; Mt 21,11.46) e, dopo la risurrezione, la comunità confessa la propria fede, riconoscendo in lui non solo uno che dice le parole di Dio, come i profeti, ma la Parola stessa che si incarna e che costruisce la sua casa in mezzo agli uomini: «In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio […]. E la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1-3.14).
C’è un altro punto che è necessario conoscere. Il semita aveva una percezione fortemente operativa della parola. Il termine ebraico per dire “parola” è Dabar, che letteralmente vuol dire “azione”, da dabar viene infatti anche barah, che vuol dire “creare”. Ci riesce difficile capire questa cosa perché per noi la parola è soprattutto uno strumento di conoscenza, chi parla fa conoscere i suoi pensieri, mentre nella cultura biblica è veicolo di una presenza: chi parla “è” nelle sue parole. Dire “parola di Dio” non significa perciò parlare di Dio, ma che lui è la sua Parola. Per questo è parola efficace: Dio parla e crea, agisce, trasforma, salva. Geremia narra che la parola di Dio gli arde dentro come un fuoco acceso, e Isaia la paragona all’acqua che feconda la terra:
Quest’attività trova il suo centro in Cristo, di modo che quando noi cristiani diciamo “parola di Dio” intendiamo “Gesù Cristo”. La sua autorità è unica, sovrana, assoluta. I medioevali lo chiamavano il Verbum abbreviatum, cioè la sintesi di tutto ciò che Dio ha da dire agli uomini. I Vangeli lo dichiarano profeta potente in “parole e opere” (Mc 6,15; Mt 21,11.46) e, dopo la risurrezione, la comunità confessa la propria fede, riconoscendo in lui non solo uno che dice le parole di Dio, come i profeti, ma la Parola stessa che si incarna e che costruisce la sua casa in mezzo agli uomini: «In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio […]. E la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,1-3.14).
C’è un altro punto che è necessario conoscere. Il semita aveva una percezione fortemente operativa della parola. Il termine ebraico per dire “parola” è Dabar, che letteralmente vuol dire “azione”, da dabar viene infatti anche barah, che vuol dire “creare”. Ci riesce difficile capire questa cosa perché per noi la parola è soprattutto uno strumento di conoscenza, chi parla fa conoscere i suoi pensieri, mentre nella cultura biblica è veicolo di una presenza: chi parla “è” nelle sue parole. Dire “parola di Dio” non significa perciò parlare di Dio, ma che lui è la sua Parola. Per questo è parola efficace: Dio parla e crea, agisce, trasforma, salva. Geremia narra che la parola di Dio gli arde dentro come un fuoco acceso, e Isaia la paragona all’acqua che feconda la terra:
Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata (55,10-11).
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata (55,10-11).
B) La Chiesa di fronte alla parola di Dio
Prima di cominciare questo secondo approfondimento è necessaria una precisazione: quando si pronuncia il termine “Chiesa” molti pensano subito al Vaticano, al papa o ai preti, ma non è così. La Chiesa è l’assemblea dei fedeli, cioè coloro che hanno risposto alla parola di Dio con fede. Essa comprende piccoli e grandi, giovani e vecchi, poveri e ricchi, malati e sani, intellettuali e ignoranti, ferventi e dubbiosi, laici, preti e suore. Insomma, la Chiesa è il popolo di Dio. Essa, però, non vive di vita propria ma di luce riflessa come la luna dinanzi al sole. Le fonti della sua luce sono la parola di Dio e i sacramenti. Qui consideriamo il rapporto con la prima, sintetizzandolo in tre atti: la sottomissione, l’ascolto, la proclamazione.
1. Per sottomissione intendiamo il fatto che la Chiesa nasce e cresce con la potenza della parola di Dio. San Paolo dice di aver generato le Chiese «mediante il Vangelo» (1Cor 4,15), e il concilio Vaticano II pone questo dato al centro della sua riflessione, affermando che «i credenti in Cristo sono generati dal seme incorruttibile della parola di Dio» (LG 9). Principio di ogni cosa, la parola di Dio è dunque anche all’origine della Chiesa. Più che per conoscerlo ci accostiamo a essa per essere generati da Dio e questo non solo una volta, nel passato, alle origini della Chiesa, ma continuamente.
Oggi come ieri, il popolo di Dio, dal papa all’ultimo dei fedeli, si genera e rigenera pronunciando il fiat di Maria che dice, «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Possiamo quindi dichiarare apertamente che non è possibile costruire una comunità cristiana senza lasciarsi guidare dalla parola di Dio. I sacramenti da soli non bastano, occorrono la parola di Dio e i sacramenti. Sono le fondamenta della casa, i due piloni che reggono le estremità del ponte. Ho detto “comunità” e non “individuo”, perché una caratteristica della parola di Dio è di costruire un popolo. Dietrich Bonhoeffer, ucciso in un campo di concentramento nazista, ha scritto:
1. Per sottomissione intendiamo il fatto che la Chiesa nasce e cresce con la potenza della parola di Dio. San Paolo dice di aver generato le Chiese «mediante il Vangelo» (1Cor 4,15), e il concilio Vaticano II pone questo dato al centro della sua riflessione, affermando che «i credenti in Cristo sono generati dal seme incorruttibile della parola di Dio» (LG 9). Principio di ogni cosa, la parola di Dio è dunque anche all’origine della Chiesa. Più che per conoscerlo ci accostiamo a essa per essere generati da Dio e questo non solo una volta, nel passato, alle origini della Chiesa, ma continuamente.
Oggi come ieri, il popolo di Dio, dal papa all’ultimo dei fedeli, si genera e rigenera pronunciando il fiat di Maria che dice, «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38). Possiamo quindi dichiarare apertamente che non è possibile costruire una comunità cristiana senza lasciarsi guidare dalla parola di Dio. I sacramenti da soli non bastano, occorrono la parola di Dio e i sacramenti. Sono le fondamenta della casa, i due piloni che reggono le estremità del ponte. Ho detto “comunità” e non “individuo”, perché una caratteristica della parola di Dio è di costruire un popolo. Dietrich Bonhoeffer, ucciso in un campo di concentramento nazista, ha scritto:
«Tutti siamo portati dalla parola di Cristo e in questa azione essa crea comunità. E nella misura in cui la parola ci accoglie, fa di noi delle membra del corpo di Cristo. In questo modo la parola di Cristo include la fraternità cristiana. La parola vuole che nessuno sia lasciato solo; in essa nessuno resta solo. La parola fa dei singoli individui un solo corpo».
2. L’atto di sottomissione si concretizza attraverso l’ascolto. La Scrittura lo dichiara apertamente: la fede nasce e si sviluppa ex auditu (Rom 10,17). Da ciò se ne ricava che sono le orecchie a fare il cristiano. Grazie all’incarnazione, la parola di Dio in Gesù Cristo può essere vista, toccata, sperimentata, mangiata, gustata, persino odorata (2Cor 2,14), tuttavia sul monte della trasfigurazione il Padre dice: «Ascoltatelo» (Mc 9,7). Luca propone alla Chiesa il modello di Maria, l’uditrice fedele che custodisce nel suo cuore le parole di Dio (Lc 2,19.51). Un’antica immagine giunge a raffigurarla nell’atto di generare Gesù attraverso l’orecchio.
Diventare uomini dell’ascolto significa pure saper cogliere i frammenti della parola di Dio in ogni nostra esperienza. Si dice che il cristianesimo non può essere definito una religione del libro e questo perché, come abbiamo già detto, Dio parla in molti modi e maniere: anche nel filo d’erba, nel cielo notturno, nell’incontro con le persone, negli avvenimenti della storia. Quante parole di Dio a volte incontriamo senza riuscire a riconoscerle! L’uomo dell’ascolto non si limita perciò a diventare esperto del Vangelo, ma scruta il suo tempo, per «conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche» (GS 4).
La pratica dell’ascolto non è semplice, è un’arte che richiede esercizio, attenzione, sensibilità. Nelle scuole ci insegnano a scrivere e a parlare; studiamo lo stile, la letteratura, le lingue straniere, ma non ci insegnano mai come si ascolta. La conseguenza è di aver trasformato il mondo in un enorme talk show, dove tutti parlano e si parlano addosso, e per questo urlano. Per ascoltare è necessario il silenzio ed è dal silenzio che scaturisce la vera parola, come dal silenzio eterno di Dio venne fuori il Verbo. Il salmista dichiara che Dio non gradisce sacrifici e offerte, ma solo «un orecchio ben aperto», e giunge a pregare che gli si fori l’orecchio perché impari ad ascoltare (Sal 40,7).
Diventare uomini dell’ascolto significa pure saper cogliere i frammenti della parola di Dio in ogni nostra esperienza. Si dice che il cristianesimo non può essere definito una religione del libro e questo perché, come abbiamo già detto, Dio parla in molti modi e maniere: anche nel filo d’erba, nel cielo notturno, nell’incontro con le persone, negli avvenimenti della storia. Quante parole di Dio a volte incontriamo senza riuscire a riconoscerle! L’uomo dell’ascolto non si limita perciò a diventare esperto del Vangelo, ma scruta il suo tempo, per «conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole spesso drammatiche» (GS 4).
La pratica dell’ascolto non è semplice, è un’arte che richiede esercizio, attenzione, sensibilità. Nelle scuole ci insegnano a scrivere e a parlare; studiamo lo stile, la letteratura, le lingue straniere, ma non ci insegnano mai come si ascolta. La conseguenza è di aver trasformato il mondo in un enorme talk show, dove tutti parlano e si parlano addosso, e per questo urlano. Per ascoltare è necessario il silenzio ed è dal silenzio che scaturisce la vera parola, come dal silenzio eterno di Dio venne fuori il Verbo. Il salmista dichiara che Dio non gradisce sacrifici e offerte, ma solo «un orecchio ben aperto», e giunge a pregare che gli si fori l’orecchio perché impari ad ascoltare (Sal 40,7).
3. Il termine proclamazione indica tutto ciò che ha a che fare con la divulgazione della parola di Dio. La Chiesa è comunità uditrice che si fa comunità proclamatrice. Ho messo quest’aspetto al terzo posto, in realtà è al primo, come fa notare san Paolo: «Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rom 10,14). La Chiesa è comunità annunciatrice, ma deve stare attenta a non predicare la propria parola bensì quella di Cristo. La sua funzione è la stessa di Giovanni Battista: non era lui la Parola, ma venne per dare voce alla Parola.
La Chiesa deve farsi voce. Questo atto può assumere varie forme: l’annuncio, che si rivolge a chi non crede, la catechesi, l’omelia, la preghiera, la testimonianza, l’arte, anche la semplice conversazione tra due persone. Tutti sono chiamati a farsi voce e l’efficacia della parola di Dio è assicurata a ognuna di queste operazioni, benché non tutte sullo stesso piano. Se nel caso della Bibbia il risultato è insito alle parole che la compongono, in tutte le altre forme molto dipende dalla capacità delle persone. Non ci si improvvisa predicatori, occorrono ascolto, studio e preparazione, tuttavia Dio, nella sua liberalità, può far profetizzare persino l’asina di Balaam (Nm 22,27-30).
Il luogo in cui la parola di Dio risuona con tutta la sua forza è la liturgia. La Sacrosanctum concilium scrive che nella liturgia Cristo stesso «parla al suo popolo e il popolo a sua volta risponde» (SC 33). Dobbiamo rilevare come la liturgia raduni l’assemblea che è la Chiesa qui e ora. Il teologo Heinrich Schlier dice che i cristiani non hanno ancora una sufficiente comprensione di quanto sia fecondo proclamare la parola di Dio in assemblea. Se il fine della parola di Dio è di costruire le relazioni, l’assemblea diventa il contesto privilegiato. Ciò dovrebbe condurre ad avere una particolare cura del momento liturgico dedicato alla parola di Dio, dal lettore all’omelia e al segno dell’ambone.
La Chiesa deve farsi voce. Questo atto può assumere varie forme: l’annuncio, che si rivolge a chi non crede, la catechesi, l’omelia, la preghiera, la testimonianza, l’arte, anche la semplice conversazione tra due persone. Tutti sono chiamati a farsi voce e l’efficacia della parola di Dio è assicurata a ognuna di queste operazioni, benché non tutte sullo stesso piano. Se nel caso della Bibbia il risultato è insito alle parole che la compongono, in tutte le altre forme molto dipende dalla capacità delle persone. Non ci si improvvisa predicatori, occorrono ascolto, studio e preparazione, tuttavia Dio, nella sua liberalità, può far profetizzare persino l’asina di Balaam (Nm 22,27-30).
Il luogo in cui la parola di Dio risuona con tutta la sua forza è la liturgia. La Sacrosanctum concilium scrive che nella liturgia Cristo stesso «parla al suo popolo e il popolo a sua volta risponde» (SC 33). Dobbiamo rilevare come la liturgia raduni l’assemblea che è la Chiesa qui e ora. Il teologo Heinrich Schlier dice che i cristiani non hanno ancora una sufficiente comprensione di quanto sia fecondo proclamare la parola di Dio in assemblea. Se il fine della parola di Dio è di costruire le relazioni, l’assemblea diventa il contesto privilegiato. Ciò dovrebbe condurre ad avere una particolare cura del momento liturgico dedicato alla parola di Dio, dal lettore all’omelia e al segno dell’ambone.
C) La Sacra Scrittura norma della Chiesa
Concludiamo concentrandoci sul tema della Sacra Scrittura. Qui pure è necessaria una piccola premessa. Le riflessioni che seguono sono di carattere teologico, dico questo per ricordare che la Bibbia può essere studiata anche dal punto di vista culturale. Penso agli insegnanti di religione che devono presentarla sotto questa particolare angolatura. La Bibbia è un testo che proviene da una certa visione religiosa, ma con essa non è nata solo la fede, ebraica o cristiana, bensì una concezione del mondo. Se oggi parliamo di diritti umani, di solidarietà, di uguaglianza e di libertà, si potrebbe dimostrare come ciò sia molto probabilmente dovuto all’influenza biblica. L’intera storia occidentale sarebbe incomprensibile senza la Bibbia. L’approfondimento ci porterebbe lontano, mi limito perciò alle indicazioni teologiche, considerando qui pure tre punti: la normatività, la centralità, la lettura.
1. Abbiamo detto che la parola di Dio ha molteplici manifestazioni, che si identifica con Gesù Cristo, e che ha una particolare efficacia e potenza. Abbiamo inoltre precisato i tre atti della Chiesa posta di fronte alla parola di Dio: la sottomissione, l’ascolto e la proclamazione. Ebbene tutti questi aspetti trovano la loro principale espressione nella Bibbia.
In quanto parola scritta essa è la norma che deve regolare tutti i luoghi, i tempi, le forme e le persone. Il concilio scrive che «le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio» (DV 24). L’avverbio è importante: indica che di tutte le parole che si possono sentire “in nome di Dio” non abbiamo mai la certezza che siano veramente sue, mentre quelle contenute nella Scrittura lo sono sicuramente. Per questo niente è superiore alla Bibbia e tutto le è subordinato, gli insegnamenti dei santi, dei vescovi o dei teologi, le rivelazioni private o le apparizioni straordinarie. Il testo conciliare dice anche il motivo di questa peculiarità ed è la prerogativa dell’ispirazione, che si applica solo alla Sacra Scrittura.
Chi ha studiato un po’ di teologia sa cos’è l’ispirazione. In breve possiamo dire che con essa si riconosce nello Spirito Santo il vero autore della Bibbia. Non dobbiamo però concepire questa operazione quasi che lo Spirito avesse dettato le parole agli scrittori sacri, come alcune correnti islamiche sostengono per il Corano. La Bibbia è per noi veramente parola di Dio, ma al tempo stesso è anche parola degli uomini, perché lo Spirito ha agito negli autori rispettando la loro libertà di scrittori. Ciò spiega perché i settantatré libri della Bibbia siano diversi l’uno dall’altro. Ma che cosa accomuna tutti i testi e in che cosa lo Spirito Santo ha impedito che gli autori sacri si sbagliassero? Nel proporre la via della salvezza.
È ancora la Dei Verbum a confermarlo: «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Quest’affermazione segnala anche ciò che dobbiamo veramente cercare nella Bibbia e cosa essa ci dà effettivamente: l’incontro con Dio, la possibilità di dialogare con lui. Chi si accosta alla Bibbia per cercare altre cose, la bellezza del discorso, la fisica o la chimica, rischia di restare deluso. La Scrittura è parola di salvezza, essa è il ponte che ci mette in comunicazione con Cristo “via, verità e vita”.
In quanto parola scritta essa è la norma che deve regolare tutti i luoghi, i tempi, le forme e le persone. Il concilio scrive che «le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio» (DV 24). L’avverbio è importante: indica che di tutte le parole che si possono sentire “in nome di Dio” non abbiamo mai la certezza che siano veramente sue, mentre quelle contenute nella Scrittura lo sono sicuramente. Per questo niente è superiore alla Bibbia e tutto le è subordinato, gli insegnamenti dei santi, dei vescovi o dei teologi, le rivelazioni private o le apparizioni straordinarie. Il testo conciliare dice anche il motivo di questa peculiarità ed è la prerogativa dell’ispirazione, che si applica solo alla Sacra Scrittura.
Chi ha studiato un po’ di teologia sa cos’è l’ispirazione. In breve possiamo dire che con essa si riconosce nello Spirito Santo il vero autore della Bibbia. Non dobbiamo però concepire questa operazione quasi che lo Spirito avesse dettato le parole agli scrittori sacri, come alcune correnti islamiche sostengono per il Corano. La Bibbia è per noi veramente parola di Dio, ma al tempo stesso è anche parola degli uomini, perché lo Spirito ha agito negli autori rispettando la loro libertà di scrittori. Ciò spiega perché i settantatré libri della Bibbia siano diversi l’uno dall’altro. Ma che cosa accomuna tutti i testi e in che cosa lo Spirito Santo ha impedito che gli autori sacri si sbagliassero? Nel proporre la via della salvezza.
È ancora la Dei Verbum a confermarlo: «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Quest’affermazione segnala anche ciò che dobbiamo veramente cercare nella Bibbia e cosa essa ci dà effettivamente: l’incontro con Dio, la possibilità di dialogare con lui. Chi si accosta alla Bibbia per cercare altre cose, la bellezza del discorso, la fisica o la chimica, rischia di restare deluso. La Scrittura è parola di salvezza, essa è il ponte che ci mette in comunicazione con Cristo “via, verità e vita”.
2. La centralità della Bibbia non è mai stata posta in discussione nella storia della Chiesa, anche se per varie ragioni ha conosciuto lunghi periodi di emarginazione. Il teologo Hans Urs von Balthasar scrive che la Bibbia è il dono che lo sposo-Cristo fa alla Chiesa sua sposa. È la lettera d’amore di Dio, la pedagogia con cui Dio educa i suoi fedeli a diventare un popolo. I padri ne avevano una percezione così alta da non risparmiare arditi parallelismi con l’Eucaristia. San Girolamo scriveva che dobbiamo nutrirci della carne e del sangue del Signore «anche nella lettura della Sacra Scrittura», mentre Cesario di Arles raccomandava di prestare a ogni parola della Bibbia la stessa attenzione che si presta ai frammenti di un’ostia consacrata.
Sintonizzandosi su quest’antica dottrina, il concilio ha riproposto la teoria delle due mense, o meglio dell’unica mensa della parola e del corpo di Cristo: Scrittura ed Eucaristia sono il cibo che nutre il popolo di Dio, dovere della Chiesa è di farne oggetto della medesima venerazione e di alimentarsi con entrambe:
Sintonizzandosi su quest’antica dottrina, il concilio ha riproposto la teoria delle due mense, o meglio dell’unica mensa della parola e del corpo di Cristo: Scrittura ed Eucaristia sono il cibo che nutre il popolo di Dio, dovere della Chiesa è di farne oggetto della medesima venerazione e di alimentarsi con entrambe:
«La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non tralasciando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita prendendolo dalla mensa sia della parola di Dio sia del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21).
Un obiettivo primario del concilio è stato di risvegliare nella Chiesa l’amore alla Sacra Scrittura. Per sostenere questo pensiero fa una serie di affermazioni notevoli, scrivendo che essa è «regola suprema della fede», «sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa forza della loro fede, il nutrimento dell’anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale» (DV 21). Auspica quindi che tutti i «fedeli cristiani abbiano largo accesso alla sacra Scrittura» (n. 22) e raccomanda ai vescovi di guidare alla conoscenza della Bibbia, soprattutto dei Vangeli e del Nuovo Testamento. Verifichiamo questi aspetti e fino a che punto abbiamo messo in pratica l’invito di san Paolo: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente» (Col 3,16).
3. In quanto testo scritto la Scrittura va pure letta. Non dobbiamo trascurare quest’aspetto e nemmeno pensare che sia semplice. Dalla lettura della Scrittura sono sorti i santi ma anche i fondamentalisti. Dobbiamo quindi prestare molta attenzione al tipo di lettura che utilizziamo, non per spaventarci ma per esserne almeno consapevoli. Poiché i libri della Bibbia sono stati composti duemila anni fa, e molto oltre, è necessaria una certa preparazione. La teologia ha due settori che si dedicano a quest’impresa: l’esegesi, che analizza la corretta interpretazione dei testi, e la teologia biblica, che organizza i loro principali insegnamenti. Oggi non mancano comunque i sussidi, accessibili a tutti, che possono aiutarci in questa difficile impresa.
La regola generale è che ogni testo va letto con lo stesso Spirito col quale fu scritto (omnis scriptura debet legi eo spiritu quo scripta est). Questa frase può voler dire molte cose: innanzitutto che si deve tenere conto del senso letterale, cioè di ciò che il testo veramente dice e non di ciò che noi pensiamo che dica; inoltre, che tutta la Scrittura porta a Cristo, tanto da far scrivere a san Gerolamo che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»; infine che lo Spirito Santo opera anche nei lettori, spingendoli non solo indietro nel tempo, ma nel futuro, estraendo dal tesoro della Scrittura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). In questo modo ogni lettura della Bibbia è un fattore di crescita. In sintesi vorrei proporre tre suggerimenti: la lettura credente, la lettura amante e la lettura attualizzante.
La lettura credente condivide la fede della Chiesa in Cristo Signore. Per questo la Bibbia è stata scritta, perché la Chiesa di tutti i tempi possa conformarsi alla fede degli apostoli. La lettura amante è l’atteggiamento più coerente. Poiché chi parla nella Scrittura è il Padre che entra in dialogo coi suoi figli, dobbiamo leggerla come i figli che entrano in dialogo con il Padre. Se la lettura della Scrittura non aumenta il nostro amore significa che l’abbiamo letta male. La lettura attualizzante è la più difficile e anche la più impegnativa, perché ci invita non solo a “conoscere” la Bibbia ma a metterla in pratica nell’oggi. Si tratta di cercare un orientamento per la vita e questo è un lavoro che va fatto con pazienza, come fa l’ape nel raccogliere il nettare dai fiori.
C’è però un mezzo speciale per capire e far fiorire la parola di Dio ed è l’essere parte attiva di un popolo. La Bibbia nasce dal popolo ed è rivolta al popolo. È sempre bene, perciò, leggere la Scrittura insieme, per condividere le opinioni, scambiarsi i pareri, spartire i pensieri. Per fare questo non c’è bisogno di una laurea. La parola di Dio germina in mezzo al popolo di Dio come il seme nella terra buona. La teologia chiama questo dono sensus fidelium e ci ricorda che è comunicato a tutti dal battesimo. Il popolo di Dio è una realtà vivente, che custodisce la verità. Con una punta di ironia papa Francesco ha scritto: «Quando vuoi sapere che cosa crede la Chiesa, rivolgiti al magistero; ma quando vuoi sapere come crede la Chiesa rivolgiti al popolo fedele».
La regola generale è che ogni testo va letto con lo stesso Spirito col quale fu scritto (omnis scriptura debet legi eo spiritu quo scripta est). Questa frase può voler dire molte cose: innanzitutto che si deve tenere conto del senso letterale, cioè di ciò che il testo veramente dice e non di ciò che noi pensiamo che dica; inoltre, che tutta la Scrittura porta a Cristo, tanto da far scrivere a san Gerolamo che «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»; infine che lo Spirito Santo opera anche nei lettori, spingendoli non solo indietro nel tempo, ma nel futuro, estraendo dal tesoro della Scrittura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). In questo modo ogni lettura della Bibbia è un fattore di crescita. In sintesi vorrei proporre tre suggerimenti: la lettura credente, la lettura amante e la lettura attualizzante.
La lettura credente condivide la fede della Chiesa in Cristo Signore. Per questo la Bibbia è stata scritta, perché la Chiesa di tutti i tempi possa conformarsi alla fede degli apostoli. La lettura amante è l’atteggiamento più coerente. Poiché chi parla nella Scrittura è il Padre che entra in dialogo coi suoi figli, dobbiamo leggerla come i figli che entrano in dialogo con il Padre. Se la lettura della Scrittura non aumenta il nostro amore significa che l’abbiamo letta male. La lettura attualizzante è la più difficile e anche la più impegnativa, perché ci invita non solo a “conoscere” la Bibbia ma a metterla in pratica nell’oggi. Si tratta di cercare un orientamento per la vita e questo è un lavoro che va fatto con pazienza, come fa l’ape nel raccogliere il nettare dai fiori.
C’è però un mezzo speciale per capire e far fiorire la parola di Dio ed è l’essere parte attiva di un popolo. La Bibbia nasce dal popolo ed è rivolta al popolo. È sempre bene, perciò, leggere la Scrittura insieme, per condividere le opinioni, scambiarsi i pareri, spartire i pensieri. Per fare questo non c’è bisogno di una laurea. La parola di Dio germina in mezzo al popolo di Dio come il seme nella terra buona. La teologia chiama questo dono sensus fidelium e ci ricorda che è comunicato a tutti dal battesimo. Il popolo di Dio è una realtà vivente, che custodisce la verità. Con una punta di ironia papa Francesco ha scritto: «Quando vuoi sapere che cosa crede la Chiesa, rivolgiti al magistero; ma quando vuoi sapere come crede la Chiesa rivolgiti al popolo fedele».
***
Riassumendo il nostro incontro, abbiamo attraversato alcune stanze della casa della Parola, nella speranza di aver fatto comprendere che con essa si costruiscono anche i ponti della relazione ecclesiale. Nella prima stanza abbiamo cercato di capire l’importanza della parola per l’uomo e che cosa intendiamo quando diciamo “parola di Dio”; la seconda stanza è stata dedicata al rapporto tra la Chiesa e la parola fattasi carne in Gesù Cristo, individuando tre compiti: la sottomissione, l’ascolto, la proclamazione. Con l’ultima stanza abbiamo esaminato la Sacra Scrittura, vedendo alcuni aspetti della sua originalità, della sua importanza per la vita cristiana e dei suoi metodi di lettura. Al termine di questo breve cammino mi auguro resti almeno il gusto di saperne di più, perché molte altre cose potevano essere dette.
Pochi di voi conoscono san Beda il Venerabile, vissuto nell’ottavo secolo. Di lui l’autore medioevale Domenico Cavalca racconta una leggenda. Divenuto ormai cieco, un suo discepolo per scherzare lo portò a predicare la parola di Dio dinanzi a un grosso cumulo di pietre, facendogli credere che fosse una folla di fedeli. Beda non vedeva nulla ma predicò con tale fervore che concluse dicendo “queste cose che vi dico sono vere”. Allora le pietre risposero in coro: «È veramente così, venerabile padre». Questa è la forza della parola di Dio.
Pochi di voi conoscono san Beda il Venerabile, vissuto nell’ottavo secolo. Di lui l’autore medioevale Domenico Cavalca racconta una leggenda. Divenuto ormai cieco, un suo discepolo per scherzare lo portò a predicare la parola di Dio dinanzi a un grosso cumulo di pietre, facendogli credere che fosse una folla di fedeli. Beda non vedeva nulla ma predicò con tale fervore che concluse dicendo “queste cose che vi dico sono vere”. Allora le pietre risposero in coro: «È veramente così, venerabile padre». Questa è la forza della parola di Dio.
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