I giornali hanno ampiamente riportato l’intervista che Benedetto XVI ha concesso al gesuita Jacques Servais e pubblicata nel libro Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali a cura di Daniele Libanori (San Paolo). Bisogna notare che sugli interventi del Papa emerito - rari, a dire il vero, molto rari – si avventano subito con famelica voracità i fautori di una qualche teoria circa il progressismo o la conservazione di papa Benedetto, specialmente rispetto a Papa Francesco. Ne abbiamo avuto molti esempi proprio nelle scorse ore.
Del resto, è sempre più difficile valutare con chiarezza quali affermazioni pontificie abbiano un autentico valore magisteriale. Questo capita per Papa Francesco, che si esprime con diverse modalità e a diversi livelli (da un’intervista in aereo a un’enciclica, da un gesto ad una domanda), ma capita anche per i pur rari interventi di Benedetto XVI. In questa intervista egli pone delle questioni, indica delle piste di riflessione, solleva dei problemi e chiude dicendo: «È chiaro che dobbiamo riflettere sull’intera questione». Apre campi di indagine con affermazioni volutamente problematiche attorno a questioni molto complesse. Sembra quindi esprimersi più come teologo che come Papa emerito. D’altro canto, cosa significa esprimersi “come Papa emerito”? Come si vede, la comunicazione nella Chiesa incontra nuove rilevanti difficoltà.
Ma veniamo all’intervista. Una prima parte nega validità all’idea di una “Chiesa dal basso”, che oggi va tanto di moda. La Chiesa nasce dall’alto, per con-vocazione di Cristo, che ci interpella. Si deve abbandonare, dice Ratzinger, «l’idea di una
Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo». La fede, continua Ratzinger, deriva dall’ascolto di Dio che mi interpella ed egli lo fa sempre tramite dei testimoni «che hanno incontrato Dio e che lo rendono accessibile». La Chiesa fa i fedeli, non sono i fedeli a fare la Chiesa. La vita sacramentale è lo strumento non già di una socializzazione comunitaria orizzontale, ma di un inserimento vitale – «la fede cristiana non è un’idea ma una vita» – in qualcosa che ci precede e che ci accoglie: «Io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé». Queste affermazioni di Benedetto XVI, in continuità con la dottrina del Corpo Mistico di Cristo, contraddicono le varie forme contemporanee di una Chiesa solo sociologica e che si forma per aggregazione dal basso. È presumibile che questa parte sia scarsamente considerata dagli interpreti progressisti.
Il secondo grande tema dell’intervista riguarda la giustificazione per fede. Ratzinger dice che l’uomo contemporaneo non pensa di dover essere giustificato da Dio per i propri peccati ma che sia Dio ad avere bisogno di giustificazione per il male che Egli permette. È l’effetto dell’antropocentrismo anti-teistico della modernità. Non sembra quindi molto proficuo insistere sulla giustificazione.
Invece, continua Benedetto XVI, l’uomo di oggi è sensibile alla grazia e al perdono, che può essere il modo con cui egli intende la giustificazione: «È la misericordia che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto». L’uomo moderno non si ritiene non bisognoso di giustizia, però vive questo bisogno come bisogno di amore e perdono gratuito: «Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede».
Benedetto XVI propone di «interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione». Certo che questo non potrà avvenire se non tenendo conto che la distinzione che noi facciamo tra giustizia e misericordia divina non vale per Dio, che, essendo assolutamente semplice, è alieno da ogni composizione. Egli è assolutamente misericordioso e contemporaneamente assolutamente giusto. Se alle orecchie dell’uomo contemporaneo suona meglio la parola misericordia che la parola giustizia, bisognerà presentare la misericordia non come qualcosa di contrario alla giustizia. Non esiste infatti una misericordia ingiusta, nemmeno a livello umano. Del resto, se la giustizia divina appartiene al deposito della fede, i teologi potranno sì interpretarla daccapo ma per «farla apparire ancora in tutta la sua rilevanza», come appunto auspica Benedetto XVI. Il quale considera un «segno dei tempi» il fatto che il tema della miericordia di Dio «diventi sempre più centrale e dominante» lungo una linea temporale che parte da suor Faustina Kowalska e che, passando da Giovanni Paolo II, arriva fino a papa Francesco. È in ogni caso certo che gli interpreti progressisti elogeranno molto questa parte dell’intervista.
Il terzo blocco di riflessioni è dedicato alla salvezza degli uomini che non conoscono Cristo. Usando l’espressione, in sé molto problematica, di «evoluzione del dogma», Benedetto XVI spiega che l’idea secondo cui chi non è battezzato non si salva è stata definitivamente archiviata dal Vaticano II. Questo, egli aggiunge, ha messo in crisi la missione ad gentes e ha indotto a relativizzare la stessa vita cristiana dei battezzati: se tale vita di fede non è fondamentale per la salvezza dei non battezzati, perché dovrebbe esserlo per i battezzati? Ecco la necessità di evitare queste derive e a tale scopo egli propone la tesi di de Lubac, che nell’intervista suona più come una proposta di indagine teologica che altro. Se mi è concesso, sarei dell’idea di attenermi a quanto scritto da Joseph Ratzinger altrove, per esempio nella Dichiarazione “Dominus Jesus”.
Le espressioni di un Papa alle domande dei giornalisti sono una cosa, quelle di un Papa che scrive un’enciclica un’altra, quelle di un Papa emerito un’altra ancora, quelle di un Papa emerito che parla in quanto teologo un’altra ancora… In questa varietà di livelli espressivi una cosa è certa: le interpretazioni forzate trovano pane per i loro denti. A beneficio di chi non si sa
Del resto, è sempre più difficile valutare con chiarezza quali affermazioni pontificie abbiano un autentico valore magisteriale. Questo capita per Papa Francesco, che si esprime con diverse modalità e a diversi livelli (da un’intervista in aereo a un’enciclica, da un gesto ad una domanda), ma capita anche per i pur rari interventi di Benedetto XVI. In questa intervista egli pone delle questioni, indica delle piste di riflessione, solleva dei problemi e chiude dicendo: «È chiaro che dobbiamo riflettere sull’intera questione». Apre campi di indagine con affermazioni volutamente problematiche attorno a questioni molto complesse. Sembra quindi esprimersi più come teologo che come Papa emerito. D’altro canto, cosa significa esprimersi “come Papa emerito”? Come si vede, la comunicazione nella Chiesa incontra nuove rilevanti difficoltà.
Ma veniamo all’intervista. Una prima parte nega validità all’idea di una “Chiesa dal basso”, che oggi va tanto di moda. La Chiesa nasce dall’alto, per con-vocazione di Cristo, che ci interpella. Si deve abbandonare, dice Ratzinger, «l’idea di una
Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo». La fede, continua Ratzinger, deriva dall’ascolto di Dio che mi interpella ed egli lo fa sempre tramite dei testimoni «che hanno incontrato Dio e che lo rendono accessibile». La Chiesa fa i fedeli, non sono i fedeli a fare la Chiesa. La vita sacramentale è lo strumento non già di una socializzazione comunitaria orizzontale, ma di un inserimento vitale – «la fede cristiana non è un’idea ma una vita» – in qualcosa che ci precede e che ci accoglie: «Io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé». Queste affermazioni di Benedetto XVI, in continuità con la dottrina del Corpo Mistico di Cristo, contraddicono le varie forme contemporanee di una Chiesa solo sociologica e che si forma per aggregazione dal basso. È presumibile che questa parte sia scarsamente considerata dagli interpreti progressisti.
Il secondo grande tema dell’intervista riguarda la giustificazione per fede. Ratzinger dice che l’uomo contemporaneo non pensa di dover essere giustificato da Dio per i propri peccati ma che sia Dio ad avere bisogno di giustificazione per il male che Egli permette. È l’effetto dell’antropocentrismo anti-teistico della modernità. Non sembra quindi molto proficuo insistere sulla giustificazione.
Invece, continua Benedetto XVI, l’uomo di oggi è sensibile alla grazia e al perdono, che può essere il modo con cui egli intende la giustificazione: «È la misericordia che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto». L’uomo moderno non si ritiene non bisognoso di giustizia, però vive questo bisogno come bisogno di amore e perdono gratuito: «Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede».
Benedetto XVI propone di «interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione». Certo che questo non potrà avvenire se non tenendo conto che la distinzione che noi facciamo tra giustizia e misericordia divina non vale per Dio, che, essendo assolutamente semplice, è alieno da ogni composizione. Egli è assolutamente misericordioso e contemporaneamente assolutamente giusto. Se alle orecchie dell’uomo contemporaneo suona meglio la parola misericordia che la parola giustizia, bisognerà presentare la misericordia non come qualcosa di contrario alla giustizia. Non esiste infatti una misericordia ingiusta, nemmeno a livello umano. Del resto, se la giustizia divina appartiene al deposito della fede, i teologi potranno sì interpretarla daccapo ma per «farla apparire ancora in tutta la sua rilevanza», come appunto auspica Benedetto XVI. Il quale considera un «segno dei tempi» il fatto che il tema della miericordia di Dio «diventi sempre più centrale e dominante» lungo una linea temporale che parte da suor Faustina Kowalska e che, passando da Giovanni Paolo II, arriva fino a papa Francesco. È in ogni caso certo che gli interpreti progressisti elogeranno molto questa parte dell’intervista.
Il terzo blocco di riflessioni è dedicato alla salvezza degli uomini che non conoscono Cristo. Usando l’espressione, in sé molto problematica, di «evoluzione del dogma», Benedetto XVI spiega che l’idea secondo cui chi non è battezzato non si salva è stata definitivamente archiviata dal Vaticano II. Questo, egli aggiunge, ha messo in crisi la missione ad gentes e ha indotto a relativizzare la stessa vita cristiana dei battezzati: se tale vita di fede non è fondamentale per la salvezza dei non battezzati, perché dovrebbe esserlo per i battezzati? Ecco la necessità di evitare queste derive e a tale scopo egli propone la tesi di de Lubac, che nell’intervista suona più come una proposta di indagine teologica che altro. Se mi è concesso, sarei dell’idea di attenermi a quanto scritto da Joseph Ratzinger altrove, per esempio nella Dichiarazione “Dominus Jesus”.
Le espressioni di un Papa alle domande dei giornalisti sono una cosa, quelle di un Papa che scrive un’enciclica un’altra, quelle di un Papa emerito un’altra ancora, quelle di un Papa emerito che parla in quanto teologo un’altra ancora… In questa varietà di livelli espressivi una cosa è certa: le interpretazioni forzate trovano pane per i loro denti. A beneficio di chi non si sa
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