Ci troviamo di fronte a due diverse visioni d’insieme (la concezione greca e quella biblica), che non si possono assolutamente addizionare l’una all’altra: l’idea che in esse ci si fa dell’uomo, di Dio e del futuro, sono completamente differenti, per cui in fondo ciascuna delle due visioni va considerata unicamente come un tentativo di dare una risposta totale al problema del destino umano. La concezione greca si basa sull'idea che nell'uomo risultino giustapposte due sostanze intrinsecamente estranee fra loro, di cui l'una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l'altra (l'anima) è di per sé imperitura, ragion per cui di suo stesso impulso, indipendentemente da qualsiasi altro essere, continua a sussistere. Anzi, sarà proprio nella separazione dal corpo totalmente estraneo alla sua natura, che l'anima perverrà al suo stadio tipico e perfetto.
Viceversa, il pensiero biblico dà per presupposta l'inscindibile unità dell'uomo; tanto per fare un esempio, la Scrittura non conosce alcun termine che indichi soltanto il corpo (separato e distinto dall'anima), ma anzi per essa anche il solo termine ‘anima’ denota nell'assoluta maggioranza dei casi l'intero uomo, esistente pure col corpo; i pochi passi in cui si delinea una visione diversa, rimangono in certo qual modo nel vago, oscillando tra il pensiero greco e quello ebraico, senza comunque intaccare l'antica visione delle cose. La risurrezione dei morti (non dei corpi!) di cui parla la Scrittura, si riferisce quindi alla salvezza dell'unicoed indiviso uomo, non quindi soltanto ad una mera metà (magari addirittura secondaria) dello stesso. Appare adesso chiaro che il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell'idea della restituzione dei corpi, alla quale l'abbiamo ridotto nel nostro modo di pensare; ciò rimane assodato, quantunque tale idea immaginifica venga correntemente usata nella Bibbia. Ma vediamo un po': qual è il vero contenuto di ciò che la Bibbia intende annunziare agli uomini mediante la cifra della risurrezione dei morti, presentandola loro come oggetto di speranza?
Ritengo che si possa enuclearlo, meglio di tutto, mettendoci a raffronto con la concezione dualistica della filosofia antica.
1. L'idea d'immortalità espressa dalla Bibbia col ribadire la risurrezione sottintende un'immortalità della persona, dell'unico impasto umano. Mentre nel mondo greco il tipico essere umano è un prodotto della disintegrazione, che come tale non sopravvive, ma per colpa della sua eterogenea costituzione composta di corpo ed anima batte due vie diverse, in base alla fede biblica è invece proprio questo essere detto uomo che continua a sussistere in quanto tale, sebbene trasfigurato.
2. Si tratta d'una immortalità ‘dialogica’ (risurrezione, richiamo alla vita!); è quanto a dire che l’immortalità non fluisce semplicemente dall'ovvia facoltà del non-poter-morire, da cui è caratterizzato quest'essere indivisibile, ma scaturisce invece dall'azione salvifica di colui che ci ama ed ha il potere di compiere anche questo: l'uomo non può sparire totalmente, perché è conosciuto ed amato da Dio. Se ogni amore anela all'eternità, l'amore di Dio non solo la brama, ma la realizza e la impersona. Ed effettivamente, il pensiero biblico della risurrezione nasce direttamente da questo motivo dialogico: chi prega, sa per via di fede che Iddio ristabilirà la giustizia (Giobbe19,25 ss.; Sal73,23 ss.); la fede è convinta che coloro i quali hanno sofferto per la causa di Dio, condivideranno anche l'adempimento della promessa (2 Macc. 7,9 ss.).
Siccome l'immortalità presentataci dalla Bibbia non proviene dal potere autonomo del soggetto di per sé indistruttibile, bensì dal suo esser incluso nel dialogo col creatore, essa deve necessariamente chiamarsi risurrezione (richiamo alla vita). Siccome poi il creatore avvince a sé non soltanto l'anima, bensì l'intero uomo che si realizza nella corporeità della storia, accordando proprio a lui l'immortalità, essa deve chiamarsi risurrezione dei morti, ossia degli uomini. Occorre far notare qui come anche nella formula usuale del nostro attuale Simbolo, che parla di «risurrezione della carne», il termine 'carne' equivalga a 'mondo degli uomini' (nel senso inteso dal linguaggio biblico, quando ci dice ad esempio: «Ogni carne vedrà la salvezza di Dio», ecc.); anche qui perciò, il termine non sottintende affatto una corporeità isolata dall'anima.
3. Il fatto che la risurrezione sia attesa per gli 'ultimissimi giorni', alla fine della storia e in compagnia di tutti gli altri uomini, dimostra il carattere profondamente umanitario della immortalità umana, la quale sta in relazione con l'umanità presa nel suo complesso, di cui, per cui e con cui il singolo individuo è vissuto, derivandone ora la beatitudine o l'eterna infelicità. In fondo, questa connessione fluisce automaticamente dal carattere genericamente umano dell'idea biblica d'immortalità. L'anima intesa alla maniera greca risulta completamente estranea al corpo, e quindi anche alla storia; essa esiste svincolata da tali ceppi, e per farlo non abbisogna di alcun altro essere. Viceversa, per l'uomo inteso come compatta unità, la vita comunitaria è costitutiva; se egli deve sopravvivere, questa dimensione della sua natura non può rimanere esclusa. Sicché, movendo dallo spunto biblico fondamentale, la dibattutissima questione se dopo la morte possa darsi una comunione vicendevole fra gli uomini appare automaticamente risolta; in definitiva, il quesito potrebbe insorgere unicamente in conseguenza d'un prevalere dell'elemento greco sull'impostazione del pensiero: quando si crede la «comunione dei santi», l'idea di 'anima separata' (di cui parla la teologia scolastica) risulta ormai superata.
Tutti questi pensieri ebbero modo di espandersi, in tutto il loro rigoglio, unicamente nella concretizzazione della speranza biblica propugnata dal Nuovo Testamento; l'Antico Testamento, preso isolatamente, lascia in sostanza il problema concernente il futuro dell'uomo del tutto in sospeso. Soltanto con Cristo, l'uomo che «forma una sola cosa col Padre», l'uomo grazie al quale la natura dell'uomo è entrata nell'eternità di Dio, l'avvenire dell'uomo si presenta definitivamente aperto. Solo in lui, nel 'secondo Adamo', quel problema costituito dall'uomo stesso s'avvia ad ottenere una risposta. Cristo è uomo, tipicamente e integralmente uomo; pertanto, è presente anche in lui il problema rappresentato da noi uomini. Egli è però al contempo anche allocuzione di Dio a noi, 'Verbo di Dio'. Il dialogo fra Dio e l'uomo, che sin dai primordi della storia va a tentoni qua e là, è entrato con lui in uno stadio nuovo: in lui, il Verbo di Dio si è fatto `carne', inserendosi realmente nella nostra esistenza. Ora, se il dialogo intavolato da Dio con l'uomo produce la vita, se è vero che l'interlocutore dialogante con Dio, appunto grazie al suo esser apostrofato da colui che vive eternamente, consegue egli stesso la vita, allora ciò significa che Cristo stesso, nella sua qualità di Verbo a noi diretto da Dio, è davvero «la risurrezione e la vita» (Gv11,25).
Ciò significa inoltre che il proiettarsi in Cristo, ossia l'aver fede, diventa in senso specifico un addentrarsi in quell'esser conosciuti ed amati da Dio stesso, che costituisce davvero l'immortalità: «Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna» (Gv3,15 ss.; 3,36; 5,24). Solo movendo da queste posizioni, è possibile comprendere la linea di pensiero seguita dal quarto evangelista, il quale, narrandoci la vicenda di Lazzaro, vuol far intendere al lettore che il risorgere non è solo un evento ancor lontano, relegato alla fine dei tempi, bensì un fatto che grazie alla fede si verifica pure adesso. Chi crede è impegnato in un dialogo con Dio, in un colloquio che è vita ed ha ormai partita vinta sulla morte. In tal modo, vengono a coincidere fra loro anche la linea `dialogica', risalente per via diretta a Dio, e la linea comunitaria umana del pensiero biblico concernente l'immortalità. In effetti, nel Cristo fattosi uomo, noi incontriamo Dio; in lui però ritroviamo anche la comunanza con gli altri, il cui itinerario a Dio passa attraverso lui, affiancandosi quindi al nostro. La polarizzazione su Dio costituisce in lui al contempo anche una polarizzazione sulla comunità degli uomini; sicché, soltanto l'accettazione di questa nota comunitaria rappresenta davvero un accostamento a Dio, il quale per noi non esiste avulso da Cristo, e quindi nemmeno avulso dal contesto dell'intera vicenda storica umana e dei suoi compiti umanitari.
Risulta così chiarita anche la questione, assai dibattuta ai tempi dei Padri e nuovamente da Lutero in poi, del cosiddetto «stato intermedio» delle anime tra la morte e la risurrezione: l'essere uniti a Cristo, reso possibile* dalla fede, è già un'iniziale vita di risurrezione che ha ormai vinto la morte (Fil1,23; 2Cor5,8; 1Tess5,10). Il dialogo instaurato nella fede è già sin d'ora vita: una vita che non potrà mai venir troncata dalla morte. Pertanto, l'idea del sonno della morte, continuamente ribadita dai teologi luterani e recentemente rispolverata anche dal catechismo olandese, in base al Nuovo Testamento non si può affatto sostenere, e nemmeno giustificare appellandosi al frequente ricorrere del verbo 'dormire' nello stesso Nuovo Testamento. La mentalità ispiratrice del Nuovo Testamento si oppone per principio e in ogni suo scritto ad un'interpretazione del genere, che del resto, anche tenendo presente il pensiero sulla vita d'oltretomba venuto ad affermarsi nel tardo ebraismo, risulterebbe quasi del tutto incomprensibile...
Giunti a questo punto, s'affaccia alla nostra mente tutta una fitta serie di interrogativi. Il primo è il seguente: in questo modo, l'immortalità non vien forse fatta consistere in una pura grazia, benché in realtà debba spettare alla natura dell'uomo in quanto tale? O, per dirla in altri termini: non si finisce qui per approdare ad una immortalità riservata solo alle persone pie, e perciò stesso per ammettere un'inammissibile differenziazione del destino umano? Teologicamente parlando, non si scambia forse qui l'immortalità naturale della creazione umana col dono soprannaturale dell'eterno amore, che rende l'uomo beato?...
(Joseph Ratzinger - da “Introduzione al cristianesimo”, pp.287-297)
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