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lunedì 26 settembre 2016

Lutero, una differenza incolmabile

                    
    
di Luigi Negri*                                         26-09-2016
Martin Lutero
Nella particolare contingenza storica in cui si muove il mondo ecclesiale ed ecclesiastico mi sembra giusto indicare una linea di lettura del fenomeno di Lutero e, al di là di essa, del fenomeno del Protestantesimo, in modo che siamo attrezzati a vivere quel passaggio che si prospetta così significativo dell’ottobre 2016.
Tenendo presente che al riguardo la migliore storiografia ha già da tempo superato la distinzione fra riformatore ed eretico, si può affermare con evidenza che Lutero si caratterizza per la volontà di introdurre una concezione della fede radicalmente alternativa a quella cattolica.
La fede, nella dottrina cattolica, è l’esperienza di un’appartenenza al mistero di Cristo nel mistero del suo popolo e quindi ha un essenziale riferimento alla struttura sacramentale della Chiesa e una dipendenza concreta della persona dal contesto ecclesiale come condizione della sua maturazione.
La visione dell’uomo a cui fa riferimento Lutero non è più quella della persona in rapporto col mistero di Cristo nel mistero della Chiesa; la sua è un’antropologia di carattere, anticipatamente ma realisticamente, individualistico- soggettivistica.
La fede non è più la chiamata ad un cambiamento totale dell’intelligenza e del cuore al mistero di Cristo ma, in Lutero, diventa il tentativo di salvaguardare una sostanziale sicurezza nella vita, il superamento di un’angoscia ricorrente, legata alla paura del giudizio universale e alla difficoltà di riuscire a superare l’esperienza di quella incoerenza etica che caratterizza sempre la vita di ogni uomo.
La fede - che tutta la tradizione cristiana aveva visto in sintonia profonda con la ragione e l’affettività - non può più fare riferimento ad una ragione che, come esito del nominalismo a cui Lutero si era formato, è eminentemente dialettica, negativa, per cui non si possono chiedere ragioni per la fede: la ragione demolisce e decostruisce la pretesa di certezze reali e radicali, comprese quelle della fede. Il tutto viene ridotto ad un fatto sentimentale e l’esperienza della fede, colta nella sua ultima irriducibilità, diventa il sentimento irresistibile provocato dalla lettura delle Sacre Scritture di essere stati salvati dal mistero di Dio con una giustificazione che è assolutamente gratuita, totalmente svincolata da ogni tipo di opera dell’uomo: sola scriptura, sola fide, sola gratia.
La fede, dunque, con Lutero subisce una modificazione sostanziale e dall’essere partecipazione ad un avvenimento oggettivo diventa esperienza di carattere psicologico e soggettivo. La chiesa degli eletti è la chiesa di coloro che si sentono chiamati a fare esperienza della fede e come tale sono una realtà eminentemente invisibile, che non ha nessuna espressione di carattere sociale ovvero una chiesa invisibile o degli eletti.
Questo salto nella percezione dell’evento cristiano, o dell’evento della fede, porta poi, come è ovvio e comprensibile, alla demolizione sia dell’organismo sacramentale che della realtà della Chiesa stessa, intesa come presupposto essenziale per la custodia, la comunicazione e l’educazione della fede.
La dinamica del credere, come ho già sottolineato, diventa un evento eminentemente soggettivo, in cui il singolo è il padrone dall’inizio alla fine. Una posizione come questa non può avere la pretesa di attuare un’autentica riforma della Chiesa, perché qui stiamo parlando - e la storiografia più importante e più significativa, cattolica e non, lo ha sempre riconosciuto – di una precisa volontà eversiva.
Certamente in Lutero, resta il problema di quelle realtà sociali di fede ancora legate a formulazioni di carattere nazionale, politico, istituzionale, la cosiddetta chiesa intesa come organismo liturgico e soprattutto come congregazione morale ovvero la chiesa come istituzione. È stupefacente, come osservato da alcuni interventi recenti, la soluzione che nel 1526, all’inizio del suo cammino protestante, Lutero individua e propone, ovvero la nascita di una Chiesa di Stato.
La Chiesa come organismo reale di coloro che vivono una pratica religiosa e di pietà, secondo questa concezione, ha come radice ultima la difesa che lo Stato gli offre.
Con i discorsi ai Principi della nazione tedesca avviene qualche cosa che non era mai accaduta nella storia della Chiesa, anzi, era sempre stato vivacissimamente contestato come una delle eresie più gravi, ovvero  la subordinazione della libertà della Chiesa al volere dello Stato. Nasce dunque la Chiesa di Stato di tipo protestantico, vuoi luterano, vuoi calvinista, vuoi anglicano dopo l’esperienza di Enrico VIII, che non hanno nessuna giustificazione sacramentale, ma soltanto socio-politica.
Molti si sono interrogati sulla singolare debolezza di tutte le formulazioni protestanti nei confronti delle degenerazioni totalitarie ma, probabilmente, non esisteva la possibilità di una alternativa al totalitarismo, perché l’esperienza della chiesa protestante già per sua natura tende a costituirsi all’interno della supremazia del politico su qualsiasi altra dimensione della vita personale e sociale.
Io credo che rendersi conto della lontananza, sia teologica sia dogmatica sia ecclesiale, dalla esperienza luterana e quindi dal protestantesimo possa diventare uno spunto per un approfondimento critico ancora maggiore della nostra identità di fede perché, se il dialogo c’è o deve incrementarsi, come tutti si augurano, deve essere un dialogo fra persone coscienti della loro diversità.
A questo punto, vale un’osservazione che deduco da uno dei più grandi filosofi e storici della nostra esperienza e della nostra cultura cattolica del secolo scorso, Jean Guitton, che nel suo capolavoro, Il Cristo dilacerato - che tratta delle eresie e dei Concili nella storia della Chiesa - alla fine di un capitolo dedicato alla crisi protestantica interpretata come il riproporsi di una gnosi, così scrive: «Se invece si tratta nella questione protestantica -come io ritengo- di una differenza abissale che riguarda l’essenza del cristianesimo, tocca a noi cattolici e protestanti, riuniti attorno allo stesso tavolo, vedere insieme, con uno sforzo di tutto il nostro essere e di tutte le nostre conoscenze, la via che Dio ha voluto. E se, dopo questo dialogo, sussiste una differenza incolmabile, che la soluzione sia rimessa alla profondità del segreto di Dio, e ognuno riprenda il suo cammino, nel dolore della separazione, ma con amore, ormai, e con speranza».
Ritengo che sia con questa chiarezza che il mondo cattolico debba prepararsi ad una celebrazione che non può essere puramente formale e che non può essere irrealisticamente fissata in vicinanze che non esistono. Il Concilio di Trento ha parlato chiaramente, e contro un concilio nessuno può andare. È necessario che prendiamo coscienza delle diversità o della vera e propria alternativa che c’è fra cattolicesimo e protestantesimo, in modo che quello che Guitton suggerisce diventi l’ispirazione reale di tutti i nostri incontri e di tutti i nostri dialoghi.
*Arcivescovo di Ferrara e Comacchio

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