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martedì 13 ottobre 2015

John Waters: ma io non oso separare fede e ragione



ottobre 12, 2015 Rodolfo Casadei

john-waters-foto-meeting-riminiParla lo scrittore irlandese cattolico “dissidente” che ha pagato cara (nella Chiesa e nel mondo) la sua battaglia per la verità del matrimonio. E per l’indissolubile unione tra bellezza e moralità



Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Per me questo è sicuramente un nuovo inizio. Ho lasciato il lavoro che facevo da 35 anni per non essere complice di una menzogna: quella secondo cui viviamo in un sistema democratico dove le decisioni vengono prese dopo un dibattito svolto in base ad argomenti di ragione. Non è così, e continuare a fare il giornalista come prima avrebbe solo legittimato il nuovo establishment e ostacolato la comprensione della realtà che stiamo vivendo da parte della gente». La prima cosa che colpisce di John Waters è l’integrità. Che non è un casuale tratto del carattere, ma il risultato del serio lavoro di giudizio sulla propria esperienza umana, lavoro di tutta un’esistenza condotta sperimentando su se stesso la proposta ateistica di vita e quella cristiana, l’antropologia individualistica e quella creaturale. L’ormai ex editorialista irlandese, di passaggio in Italia invitato a parlare nei pressi di Firenze, ci racconta quello che ha imparato dalla vicenda del referendum irlandese sul matrimonio fra persone dello stesso sesso dell’aprile scorso, il cui esito è stato una sonora vittoria del “sì” col 62 per cento dei voti. Vicenda di cui lui non è stato spettatore ma parte in
causa, essendo uno dei pochi intellettuali che si sono spesi per il “no” all’emendamento costituzionale proposto, pagando per questo un prezzo piuttosto salato.
«In realtà la sconfitta è stata meno bruciante del previsto, all’inizio i sondaggi indicavano che tre elettori su quattro avrebbero votato “sì”; avevamo contro il 99 per cento dei parlamentari e dei media, persino l’ex capo di Stato Mary McAleese e l’associazione irlandese dei poliziotti sono scesi in campo per il “sì”. Dunque abbiamo recuperato voti. Ma tutto il resto è sconvolgente». Prima di tutto «abbiamo capito che nei dibattiti i fatti reali e gli argomenti di ragione non contano nulla: contano solo le emozioni e i fatti inesistenti che la propaganda fa credere alla gente. Noi uscivamo dai primi dibattiti dicendoci “è andata bene, li abbiamo messi alle strette coi nostri argomenti”, ma non era così. Quando credi di aver vinto un confronto coi tuoi argomenti di ragione, hai sicuramente perso, perché oggi il mondo vive esclusivamente in una dimensione emozionale. I sostenitori del “sì” entravano nei dibattiti con l’aria di chi era costretto a discutere qualcosa che non doveva essere discusso, perché giusto e indiscutibile. Lo slogan della loro campagna era “marriage equality”, e chi era contrario a questa uguaglianza mostrava di essere privo di compassione e moralmente ripugnante come coloro che in passato non ammettevano l’uguaglianza fra bianchi e neri. Se sollevavi la questione delle conseguenze sui figli venivi immediatamente accusato di omofobia. La loro tecnica è stata di evitare una vera discussione attraverso la delegittimazione dell’interlocutore, la sua disumanizzazione».
Una perdita irreparabile
Questa è la cosa che preoccupa di più Waters: «Nel momento in cui gli interessi delle grandi corporation coincidono con quelli di una minoranza che avanza una certa pretesa, quella minoranza si sente legittimata a dirti: “Vogliamo questa cosa e la avremo, devi decidere se sei favorevole o contrario; se sei favorevole ti rilasceremo la patente di progressista, Madonna ti dedicherà una canzone e tutti parleranno bene di te, se ti opponi ti rovineremo la vita, distruggeremo la tua rispettabilità, faremo in modo che i tuoi figli si vergognino di te. Ti trasformeremo in un esempio di quello che succede a chi si oppone”. È una cosa che va ben al di là della questione del matrimonio fra persone dello stesso sesso. Abbiamo dato il permesso a un nuovo fascismo di prendere il potere nelle nostre società. Un cristiano non può che opporsi a tutto questo».
Che un cristiano debba opporsi a tutto questo non è più ovvio come un tempo, facciamo notare. Si rischia l’accusa di moralismo. Waters non arretra: «Giustamente don Giussani ha spiegato che il moralismo è idolatria. Ridurre il cristianesimo a regole è idolatria. Nessuno è attratto dalle regole, è necessario l’incontro con Cristo. La morale viene come conseguenza naturale dell’incontro con Cristo. Questo però non è la stessa cosa che dire che dobbiamo rinviare il nostro impegno con la realtà a più tardi, quando il nostro rapporto personale con Cristo sarà diventato più felice. La strada che porta a Cristo è la realtà, tutta! Se saltiamo alcune questioni perché sono scomode, non ci ritroviamo più vicino a Cristo, ma più lontano. Non ho scelto io di indire un referendum, è un fatto che mi sono trovato davanti come giornalista. Era mio compito entrare nella discussione, anche se sapevo come sarebbe andata a finire; l’alternativa era dimettermi da giornalista prima, e non dopo lo svolgimento del referendum. Dopo il voto sono andato a riposarmi nella mia casa di campagna. La bellezza della natura mi ha riempito di pace. Allora la bellezza è un analgesico, come lo sarebbe un buon whisky? No, è che la bellezza rimanda alla coerenza, all’unità di senso della realtà. La stessa cosa vale per la moralità: infonde pace perché rimanda all’intima unità della realtà, al suo aver senso. Non c’è separazione fra bellezza e moralità. A un figlio a cui vuoi insegnare a giocare a calcio, mostri quanto è bello correre, calciare e fare goal, nello stesso tempo in cui gli spieghi che tutta questa bellezza si realizza attraverso le regole del gioco: le due cose non sono separabili».
Fatto sta che la prima a mostrarsi timida davanti al referendum è stata la Chiesa cattolica irlandese: a parte un paio di vescovi, gli altri hanno ripetuto così stancamente la posizione della Chiesa, che sembravano giocare per l’altra squadra. «È andata esattamente così, e ci sono due spiegazioni di ciò. La prima è che gran parte della Chiesa irlandese non ha mai fatto proprio l’insegnamento di Benedetto XVI sull’amicizia fra fede e ragione, tante volte mi sono trovato a fare conferenze insieme a sacerdoti, e dopo un po’ mi accorgevo che mentre io valorizzavo l’insegnamento di Benedetto, loro si mostravano critici. Perciò affrontano le tematiche di oggi sulla base del sentimentalismo, e lasciano intendere che se potessero cambierebbero l’attuale dottrina. In secondo luogo, la Chiesa irlandese deve farsi perdonare molto sulla vicenda della pedofilia nel clero, e questo la spinge a prendere posizioni in sintonia con lo spirito del tempo, per dimostrare di essere aperta e moderna. Alla base di tutto, c’è una crisi di fede: la Chiesa stessa ha cessato di credere che la proposta cristiana sia ragionevole, in Irlanda il cristianesimo è diventato una conchiglia vuota, un’eredità del passato che va adattata al mondo moderno per poter mantenere aperta la bottega. Fra la popolarità e la verità, la Chiesa irlandese sembra voler scegliere la prima. Sarebbe una perdita irreparabile, perché la Chiesa ha il compito di proclamare la verità intorno alla natura umana, di richiamare l’uomo a riconoscere i propri limiti e le conseguenze negative quando non vengono riconosciuti. La Chiesa è “esperta di umanità”, come ha detto papa Ratzinger riprendendo Paolo VI: se non offre il suo patrimonio di saggezza e di conoscenza dell’uomo, che cosa se ne fa? Si possono aggiornare le dottrine, ma non per compiacere il mondo! Non si può cambiare la verità solo perché i tempi sono duri. Non è vero, come ci vogliono far credere, che c’è una visione tradizionalista del mondo che si oppone a una visione più illuminata. La verità è che se rompiamo le leggi che definiscono la nostra limitatezza creaturale, ne deriveranno disastri. Questo la Chiesa deve dirlo senza paura, fosse anche solo perché venga messo a verbale. Domani potrà dire che aveva messo in guardia dalle conseguenze negative che poi si sono realizzate».
La tirannia della maggioranza
Ma ritirarsi dal giornalismo non è comportamento analogo a quello di certa Chiesa? Non è un’altra forma di diserzione? «Mi ritiro dal giornalismo ma non mi ritiro dalla scrittura», spiega Waters. «Riprenderò a fare lo scrittore, perché è l’unico modo di scrivere che permetta ancora di trattare il tema del Mistero dentro alla vita dell’uomo, mentre la degenerazione del giornalismo e le nuove tecnologie stanno annientando ogni autentica forma di comunicazione».
Il suo giudizio sul giornalismo è durissimo: «Per John Stuart Mill occorre proteggere la possibilità di espressione di ogni opinione, anche la più stravagante, per il bene della società, perché altrimenti la democrazia è destinata a morire. La libertà di stampa dovrebbe servire a questo. Invece oggi la professione giornalistica consiste nell’imporre al pubblico un pensiero unico e nell’attaccare chi dissente. I giornalisti sono al servizio del pensiero dominante, devono ripetere quello che già si dice, seguono la moda come pecore».
Infine c’è la faccenda per nulla secondaria delle tecnologie informatiche. «Immaginare un mondo perfettamente interconnesso, con un flusso costante e senza ostacoli di informazioni, musica ed altre espressioni artistiche cinquant’anni fa era sognare una condizione paradisiaca. Adesso che si è realizzata, abbiamo scoperto che non è il paradiso, ma una nuova dittatura che si impone. Il progresso morale non ha tenuto il passo del progresso tecnologico, come ha ammonito Benedetto XVI. Le nuove tecnologie sono concepite in un modo tale che riducono la capacità di dire cose complesse: si pensi a Twitter. Oppure accentuano il conformismo, la tirannia della maggioranza predetta da Tocqueville: non consentono all’individuo di esprimere il suo pensiero, ma fanno sì che l’onda enorme del conformismo si abbatta sull’individuo e lo schiacci. Se mettete in Google il nome di una persona che è stata oggetto di una campagna di denigrazione, i risultati della ricerca vi offriranno il nome di quella persona associata a parole come “omofobo”, “bigotto”, “di destra”, eccetera. Questo è sintomo del fatto che le nuove tecnologie informatiche sono funzionali a un disegno totalitario. Abbiamo l’illusione di essere liberi, e invece stiamo contribuendo a un nuovo totalitarismo».


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