di Costanza Miriano
Se sapessi davvero scrivere questo articolo che ho incautamente accettato di scrivere, tutti i miei problemi esistenziali sarebbero risolti. Se sapessi come si fa a trasmettere la fede ai figli sarei salva: significherebbe che sono così credibile come cristiana che riesco addirittura a convincere chi mi vede sempre, giorno e notte, chi vede tutti i lati di me, non solo quelli pubblici, ma anche le mie debolezze e i momenti di caduta, le crisi di nervosismo e gli attacchi di pigrizia e di sonnolenza inconsulta.
Significherebbe inoltre che avrei già trasmesso la fede ai miei figli, garantendo loro la salvezza eterna, per cui potrei anche morire in pace, anzi, sarebbe meglio che morissi, perché ci sono anche persone che passano la parte finale della loro vita a distruggere o a indebolire il buono che hanno costruito nella prima parte.
Invece no, non ho una ricetta sicura per mettere in salvo i miei figli, e quindi pare che per il momento mi tocchi rimanere in vita, e assumermi tutto il rischio educativo, cioè l’appassionante impresa di indicare alla mia prole una strada, di percorrerla io nel modo più serio possibile, e poi di limitarmi a tifare per loro, resistendo alla tentazione di prenderli in braccio per portarli alla meta. Tra l’altro
pesano troppo, uno è più alto di me tra l’altro, e la natura prevede che i bambini stiano nella pancia solo nove mesi (troppo poco!), e poi comincino a camminare con le loro gambette grassocce e i piedi a forma di pagnotta, per diventare via via sempre più grandi e autonomi (e calzare in certi casi il 45, per dire).
Quindi, ecco, io non ho delle istruzioni. Però qualche punto fermo qua e là posso provare a metterlo per me stessa, e a condividerlo. Innanzitutto vorrei dire che credo che nella trasmissione della fede il ruolo delle mamme sia fondamentale: la donna è la porta della vita; Dio, scrive San Giovanni Paolo II, affida l’umanità alla donna. Lo dico perché tante volte incontro mamme preoccupate della lontananza del padre alla fede (molto più raramente il caso opposto), e io sempre le incoraggio a testimoniare senza spaventarsi dell’essere sole. Se noi donne siamo belle – spiritualmente – degne di ammirazione, piacevoli e accoglienti, piano piano la famiglia segue tutta.
Il ruolo della donna poi è fondamentale per permettere all’uomo di essere padre, per dargli o negargli l’accesso al rapporto con il figlio (noi mamme se vogliamo siamo bravissime a sminuire l’uomo, a escluderlo, ad allontanarlo dai figli), e poiché la fede è la ricerca del padre, è prezioso se noi mamme riusciamo a trasmettere un’idea di paternità come una cosa positiva, non da rifiutare ma da accogliere. Mi chiedo se l’allontanamento diffuso dalla fede, se il rifiuto generalizzato dell’idea di Paternità e di autorità non possa anche dipendere dall’ondata femminista in senso lato, ondata che ha coperto tutta la cultura di massa dalla seconda metà del Novecento, e che ha visto le donne affannarsi a sottolineare le mancanze dell’uomo invece che esaltare il bisogno che abbiamo di lui (come lui di noi).
Il terzo punto è quello centrale, è per me il cuore della questione, ne accennavo all’inizio: io credo che la fede si trasmetta prima di tutto avendola, e poi vivendola in modo credibile, affascinante. Perciò sono certa che il lavoro educativo più grande che si possa fare sia quello sulla nostra conversione personale. Trovare tempo per un rapporto vivo con il Signore è decisivo ai fini dell’educazione: lo sottolineo per me stessa e per tutte le mamme che come me faticano a trovare il coraggio di prendersi del tempo per la vita spirituale. Non è tempo tolto ai figli, ma è una risorsa che poi trasmetteremo anche a loro. Anzi, a loro prima di tutti. L’esempio che faccio sempre ai mie ragazzi (veramente io di solito lo faccio quando la mattina mi chiedono le cose prima che abbia preso il caffè) è che anche in aereo si raccomanda sempre di infilare prima per se stessi la mascherina per l’ossigeno, e solo dopo di pensare al vicino. Non si può trasmettere il desiderio di un rapporto vivo con il Signore se non lo si vive per primi.
Un ultimo punto, che forse non troverà tutti d’accordo, è questo: io avrei tanto voluto che i nostri figli aderissero a qualche movimento, a qualche spiritualità diciamo comunitaria. Un po’ perché credo che dall’adolescenza in poi l’influsso degli amici possa diventare molto importante. Un po’ per la segreta speranza che “iscrivendoli” a qualcosa avrei stampato su di loro una sorta di bollino, un certificato di garanzia per la vita eterna (lo so, è una stupidaggine, ma noi mamme pur di placare le nostre ansie faremmo di tutto). Fino a ora non mi è riuscito, anche perché mio marito invece ritiene che non li si debba forzare. Frequentano il catechismo, vanno a messa, ma niente bollino.
La verità è che la fede è un incontro con una persona, con Gesù Cristo figlio del Dio vivente, e non esiste un protocollo, un pacchetto con le istruzioni che una mamma ansiosa possa applicare scrupolosamente. I genitori possono fare due cose, che però sono preziosissime. Prima cosa: come ho detto, possono tenere vivo in se stessi (o cercarlo, se ancora non lo hanno fatto) questo incontro con Gesù. Devono essere belli, invidiabili, degni di ammirazione (l’evangelizzazione per inseguimento che dice il Papa), devono far vedere che la vita con Dio è bella, allegra, divertente anche nella prova. Seconda cosa: possono creare le condizioni perché questo incontro avvenga anche ai loro figli, metterli in contatto con le persone giuste, credibili, affascinanti, perché vedano quanto è bella e pienamente umana e realizzata una persona che incontra Dio. Per il resto, preghiera preghiera preghiera, perché la fede non è un diritto che si conquista, ma un regalo gratuito e sempre immeritato.
fonte: IL TIMONE
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