ottobre 5, 2015 Francesco Agnoli
La sfida di rifare la pastorale senza disfare il sacramento. Così, dall’Africa al Vietnam, la Chiesa viva combatte il pensiero debole del “divorzio cattolico”
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
La convinzione che molti matrimoni oggi celebrati in chiesa siano nulli, accomuna Marcel Lefebvre (che oltre quarant’anni fa metteva in guardia da ciò, e invocava un processo rotale più veloce), a Benedetto XVI e papa Francesco. Su come rendere possibile l’identificazione, spesso non facile, della nullità, attraverso la modifica del processo matrimoniale, forse i tre non si sarebbero trovati d’accordo. Ma perché tanti casi di nullità? Perché il matrimonio in chiesa è un contratto tra due persone, gli sposi, che sono anche i ministri del sacramento. Affinché il contratto sia valido non occorre certo la santità degli sposi e neppure, di per sé, la fede cattolica, ma il pieno consenso dei due contraenti riguardo ai “sì” che andranno a pronunciare. Occorre cioè la volontà originaria di vivere un’unione fedele, indissolubile e aperta alla vita.
Tra i vari capi di nullità previsti dal codice di diritto canonico infatti vi sono la simulazione totale («si
nega la coniugalità del proprio consenso, da cui non si vuole far derivare alcun obbligo, bensì solo qualche vantaggio estrinseco, per esempio di natura sociale o patrimoniale») e la «simulazione parziale, in cui il soggetto vuole il matrimonio, ma lo priva positivamente di un suo elemento o proprietà essenziale», ad esempio escludendo a priori il bonum prolis, cioè la prole, e l’unità e indissolubilità del matrimonio. Questo significa che per la Chiesa, unità, indissolubilità e apertura ai figli sono le condizioni naturali, che ogni uomo, cristiano o meno, può riconoscere previamente come costituenti una nascente unione vera e buona.
Dove sta allora il problema? Che ciò che per la Chiesa è di diritto naturale, oggi, per il pensiero comune, è talvolta innaturale, illogico, assurdo. Quanti tra coloro che si sposano in chiesa, per fare un favore alla mamma, alla sposa, allo sposo, oppure persino perché si ritengono cattolici, escludono a priori l’apertura ai figli, e considerano l’indissolubilità assurda e impraticabile? Ricordava alcuni anni fa Benedetto XVI che l’«accentuato soggettivismo e relativismo etico e religioso» della cultura contemporanea ritiene che un «legame che duri per tutta la vita (…) non corrisponda alla natura dell’uomo e sia piuttosto in contrasto con la sua libertà e autorealizzazione».
Analogamente, nel 2013, il cardinal Müller affermava: «La mentalità contemporanea si pone piuttosto in contrasto con la comprensione cristiana del matrimonio, specialmente rispetto alla sua indissolubilità e all’apertura alla vita. Poiché molti cristiani sono influenzati da tale contesto culturale, i matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato».
Cerchiamo di esemplificare: un matrimonio in cui lo sposo fosse intenzionato a non avere figli e imponesse alla moglie, in vario modo, la rinuncia a essi, sarebbe per la Chiesa del tutto nullo; così come un matrimonio in cui si scoprisse che la moglie, mentre si sposava, aveva un amante: impossibile ipotizzare che credesse nell’unicità del matrimonio chi, mentre pronunciava i suoi sì, viveva in modo del tutto opposto alle sue dichiarazioni. Se siamo rigorosi nel seguire questo ragionamento, due cattolici che si sposano in chiesa credendo che il divorzio sia un’opzione praticabile, giurano il falso e celebrano un matrimonio nullo. Il che succede, forse non di rado.
Rifiutare di dare il sacramento?
Se tutto questo è vero, per la Chiesa non basta riconoscere in linea generale che i matrimoni nulli sono effettivamente molti; occorre capire come poterlo dimostrare, nei singoli casi. Qui si apre appunto il dibattito su quale sia il giusto processo matrimoniale. Ma, dopo il motu proprio del Papa, qualunque cosa uno possa pensare, una strada si è intrapresa.
Il Sinodo sulla famiglia dovrà partire da qui: i matrimoni nulli oggi sono molti; riconoscerlo nei singoli casi, previa onesta indagine, non è tanto un problema di misericordia, ma di giustizia. Risolvere i problemi dei matrimoni già contratti, però, per quanto doveroso, non è sufficiente: intasare i tribunali, perché la nullità è diffusa, rischia di creare l’idea di un “divorzio cattolico” e ampliare ancora maggiormente il fenomeno. È qui, appunto, che il Sinodo può dire qualcosa di interessante: proprio la nullità di molti matrimoni passati deve spingere a tornare anzitutto a spiegare ai cattolici cosa è davvero il matrimonio. Occorre cioè che la Chiesa faccia una pastorale dei fidanzati seria, attenta, premurosa.
Cosa sia il matrimonio, lo ha già detto Cristo, e lo ha ribadito la Chiesa per duemila anni. Come annunciarlo ai giovani, come aiutarli a comprenderlo, a prepararlo, a viverlo è compito, appunto, della Chiesa, della sua dimensione educativa e pastorale. Non tanto a parole, quanto con i fatti. Ad esempio, al fine di evitare il ricorso ai tribunali come qualcosa di ordinario, e per tutelare la sacralità del matrimonio, sarebbe opportuno rifiutare, come spiegavano i vecchi manuali di teologia morale, il sacramento quando non vi sia negli sposi una motivazione, per quanto umanamente rilevabile, vera. Non ha infatti alcun senso continuare a sposare in chiesa chi al matrimonio non crede.
Accanto a una seria pastorale per i fidanzati – questa è l’opinione di chi scrive – la Chiesa dovrebbe poi impegnarsi ad aiutare maggiormente le coppie in difficoltà: ad esempio istituendo punti di ascolto in ogni parrocchia, visto che spesso, per salvare un legame coniugale (e i figli che vi sono coinvolti), bastano un po’ di ascolto e di sostegno.
Rimane una domanda: quale pastorale per i divorziati risposati? Riconosciuti con serietà i casi di nullità, proprio per rispetto al Vangelo, alla ragione, alla coerenza, tale pastorale non può divenire semplicemente un altro modo per annullare de facto matrimoni non nulli, rendendo quindi la nullità universale, e stravolgendo così, senza dirlo, la dottrina. La pastorale dei divorziati risposati deve essere dunque il modo di accompagnare e stare vicini alle persone che, pur in quella situazione, vogliono ugualmente partecipare in qualche modo alla vita della Chiesa, magari anche per i loro figli. Senza dire che il bianco è nero e il nero è bianco, in nome di una malintesa misericordia di cui gli stessi interessati potrebbero, se coscienziosi, scandalizzarsi. Anche perché una “pastorale” di questo tipo annullerebbe in un sol colpo sia la necessità dei processi per annullamento (a cosa servono, se risposarsi è di per sé lecito?), sia la necessità di impegnarsi con i fidanzati e con le coppie in difficoltà (perché farlo, se ogni scelta è di per sé buona?).
La strada dell’impegno
La strada del disimpegno pastorale, indicata da alcuni (pochi) padri sinodali, è molto meno affascinante di quella dell’impegno, di cui sono portatori credibili tanti pastori che hanno a cuore la famiglia, in particolare quelli che vengono dalle periferie. Monsignor Paul Bui Van Doc, arcivescovo di Hô Chi Minh, durante il sinodo sulla famiglia del 2014 ha ricordato che in Vietnam si praticano 1.600.000 aborti all’anno, dei quali 300 mila da parte di giovani fra i quindici e i diciannove anni: solo la ricostruzione di famiglie cristiane può rendere meno disumana una simile civiltà.
Dal canto suo, il cardinal Robert Sarah – esponente di spicco dell’episcopato africano, chiamato da papa Benedetto XVI a occuparsi dei poveri e a dirigere il Pontificio Consiglio Cor Unum, e da papa Francesco a guidare la ancor più prestigiosa Congregazione per il Culto divino –, nel suo bellissimo Dio o niente (Cantagalli) ricorda come gli attacchi alla famiglia siano oggi fortissimi, sia attraverso la diffusione dell’ideologia gender sia attraverso ricatti da parte di alcuni grandi poteri ai danni dei paesi in via di sviluppo. Ma è nella famiglia come la vuole Dio, ricorda Sarah, che l’Africa può trovare la forza per un vero progresso, attraverso il superamento di mali atavici come la poligamia, l’abbandono dei figli, una certa concezione della donna. Perché è anzitutto nella famiglia cristiana che si possono sperimentare e imparare l’amore fedele di Dio e la carità verso il prossimo.
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