Un anno fa, l'11 luglio 2015, moriva il cardinale Giacomo Biffi, che - come lo ha definito recentemehte su queste colonne monsignor Luigi Negri - è stato «uno dei cristiani più grandi di questo secolo». Soprattutto le sue riflessioni teologiche e pastorali restano come punti di riferimento sempre attuali. Proprio per ricordarlo vogliamo proporre una selezione di suoi interventi sul rapporto tra coscienza e verità, tema che ha tenuto banco nel recente dibattito sinodale e continua tuttora. Certi che saranno ancora di edificazione per quanti desiderano sinceramente seguire Cristo. (Selezione a cura di Alessandro Martinetti)
«Il maestro è Cristo: quindi nessuno di noi è maestro a se stesso. Proprio perché l'orgoglioso attaccamento al nostro personale modo di sentire non intralci il nostro cammino verso la verità, dobbiamo mantenerci di fronte a Gesù nell'atteggiamento più docile di chi vuole imparare. Sulle questioni religiose e morali non ha molto senso ripetere, come se fosse una sentenza definitiva: “Io la penso così”; dobbiamo sempre ricercare che cosa oggettivamente ne pensi il Maestro... Cristo è il nostro maestro, cioè mandato apposta per noi dalla misericordia del Padre, perché lo scoraggiamento e lo scetticismo non ci paralizzasse nella esplorazione di ciò che è giusto e vero». (Stilli come rugiada il mio dire. Omelie per le Domeniche del Tempo Ordinario, Bologna 2015, p. 152)
«La coscienza morale è la norma prossima dell'agire: ognuno deve sempre seguire la sua coscienza, qualunque cosa comandi, qualunque cosa proibisca. Ma la può seguire con tranquillità solo se prima si è preoccupato che la sua coscienza sia vera, cioè corrisponda effettivamente alla verità oggettiva di Dio, la quale è legge di comportamento che precede ogni parere e ogni decisione dell'uomo. Perché Dio, e non l'uomo, è il Signore cui è dovuta obbedienza.
In pratica, la “verità” della mia coscienza sarà garantita dal mio amore disinteressato e assoluto per la verità; vale a dire dalla continua determinazione non tanto di affermare enfaticamente ciò che io ritengo giusto, ma di conoscere ciò che è giusto in sé, a prescindere dai miei interessi e dalle mie personali preferenze». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, Siena 2008, p. 88)
«La “mia coscienza” (citata ai miei interlocutori, che non la vedono e possono solo fidarsi di ciò che io ne dico) non è dunque la parola risolutiva, quasi magica, che mi dispensi dall'appurare dove in effetti stia di casa la giustizia oggettiva. Mi preoccuperò piuttosto che essa diventi sempre più la voce della giustizia eterna, in quanto risuona dentro il mio cuore. Allora ciò che io devo fare non è di addurre a ogni piè sospinto l'autorità della “mia coscienza” nelle discussioni con gli altri (che non la possono verificare). Ricercherò piuttosto come un ideale la sintonia reale più perfetta possibile tra questa mia voce interiore e la voce di colui che unico è Signore e Legislatore assoluto. Diversamente la mia coscienza, invece di essere la presenza eloquente in me del Dio vivo e vero, diventerebbe un idolo eretto nel santuario interiore a mio smarrimento e a mia rovina». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., p. 89)
«Secondo l'opinione che oggi si generalizza, invece, la coscienza non pare debba uscire da se stessa: stia attenta ai propri desideri, alle proprie ritrosie, ai propri entusiasmi, ai propri languori, e non avrà bisogno d'altro. La conoscenza delle norme oggettive le è estranea e quindi indifferente. E così si è finalmente venuti a capo di un equivoco: si era fino a questo momento pensato che la coscienza fosse un mezzo dato da Dio per far conoscere la volontà di Dio. Tutto è così reso più facile: la coscienza è l'abolizione della legge. È la liberazione dalla schiavitù dei precetti e della casistica. L'imperativo morale è perfettamente semplificato:
- Sono leciti i rapporti prematrimoniali? Segui la tua coscienza
- Come devo compilare la denuncia dei redditi? Segui la tua coscienza...
La quale non va affatto informata, va solo seguita. E non è appena il mestiere di moralista a venire in tal modo agevolato, è anche quello più impegnativo di uomo.
Tanto più che, nonostante le apparenze, non c'è nulla di più arrendevole della coscienza che non si raffronti continuamente con la legge divina. All'uomo che obbedisce alla coscienza senza preoccuparsi affatto di conoscere il parere di Dio, la ricompensa è immanente: la coscienza finisce sempre per obbedire all'uomo senza recargli più nessun disturbo». (Il quinto evangelo, Bologna 2008 [prima edizione: Milano 1970], pp. 67-68)
«L'imperativo morale, offrendo dei contenuti che, all'atto del loro notificarsi, vengono necessariamente percepiti come vincolanti per tutti e per sempre, è di sua natura atemporale. Il problema etico nasce dentro di noi appunto dalla esigenza di riferire e sottomettere la concretezza storica nella quale esistiamo e siamo chiamati ad agire a una norma che viene avvertita trascendente i vari momenti e i vari stati.
Concepire l'imperativo come del tutto condizionato alla situazione in cui noi e i nostri atti siamo storicamente racchiusi, significa – di là da ogni astuzia dialettica – vanificarlo. Se non è colto come qualcosa di assoluto ed eterno, non viene neppure colto come realmente impegnativo. L'uccisione del Grillo parlante è un misfatto che può essere perpetrato, oltre che nella vita di un burattino ribelle, anche in qualche celebrata pagina di scienza morale.
La coscienza personale... deve o no riconoscere l'esistenza fuori di sé di una legge obiettiva da esplorare lealmente e appassionatamente, con la quale confrontarsi ogni giorno in un atteggiamento di umile subordinazione? Si tratta in sostanza se ammettere o no una verità trascendente nel campo della vita morale, alla quale sentirsi vincolati.
È una questione di fondo, che coinvolge in sé la visione globale della realtà. Chi, anche implicitamente, concepisce la coscienza individuale come il riflesso di una norma obbiettiva cui ci si deve riferire, ammette, anche se non lo sa, che c'è un Dio al principio di tutto.
Chi ritiene che la coscienza non abbia nessuna necessità di rifarsi a una norma obbiettiva che la preceda, si pone, anche se non lo sa, sulla strada dell'ateismo: il suo atteggiamento interiore è quello di chi non ammette altro Dio all'in fuori di se stesso...
Non per nulla nel nostro libro l'allontanamento da Geppetto si conclude con l'uccisione del Grillo parlante. L'imperativo all'inizio è vivo e operante nel cuore di ogni uomo, ma la sua azione e la sua vivacità subiscono variazioni essenziali a seconda della maggiore o minore intensità del senso di Dio... È probabile che Pinocchio non volesse spingersi fino a uccidere il Grillo: Forse non credeva neppure di colpirlo.
Se si potesse confinarlo in una gabbietta all'esterno, sul balcone di casa, così che i vicini lo vedano e il suo cri-cri petulante arrivi a loro e lasci in pace noi, saremmo contenti tutti. Ma quando il Grillo parlante non si rassegna a questo accomodamento, allora bisogna agire con decisione; e c'è sempre qualche martello di legno a portata di mano». (Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio”, Milano 1977, pp. 49-51)
«Contrariamente a quello che talvolta noi possiamo immaginare, Gesù non è affatto una persona accondiscendente e incline al compromesso, quando si tratta della verità.
Se si imbatte in uomini che sembrano disinteressati all'annuncio, non per questo cambia l'annuncio o lo riduce. Non si affanna a inseguire le ottusità e le svogliatezze del mondo o a rincorrere i capricci dei suoi contemporanei. Egli è il portatore del dono del Padre e la sua preoccupazione è quello di offrirlo integralmente, non di imporlo ad ogni costo alla cattiva volontà di chi lo rifiuta. Egli sa già in partenza che molti rifiuteranno il dono; questo lo fa soffrire, ma non lo induce a formulare una proposta meno impegnativa e più conforme alle attese degli uomini...
E nessuno pensi che tutto questo sia mancanza di amore. Al contrario, è proprio l'amore che spinge Gesù a non cedere di fronte alle nostre esigenze, alle nostre proposte di adattare la verità di Dio ai gusti umani, ai nostri tentativi di immiserire la grandezza e la bellezza del disegno del Padre. A Cafarnao, per esempio, resistendo con fermezza ai suoi contemporanei che gli chiedono un discorso più facile da accettare da parte degli uomini, Gesù salva per noi e per la nostra vita il segno più alto, più efficace, più commovente del suo amore che rinnova, nutre, rianima, cioè il sacramento dell'Eucaristia». (Stilli come rugiada il mio dire. Omelie per le Domeniche del Tempo Ordinario. Anno B, Bologna 2015, pp. 127-28)
«Di fronte alla ribellione, al disinteresse, all'abbandono, egli [Gesù Cristo] si limita a chiedere ai Dodici rimasti: Volete andarvene anche voi?
È una forte lezione per chi crede di poter “trattare” con lui e porre delle condizioni al suo proseguimento nella fede e nella pratica religiosa. È una forte lezione per il cristiano che vive nella paura di perdere l'adesione del mondo moderno e della cultura oggi prevalente. È una forte lezione per chi, invece di credere, si preoccupa di essere credibile e scruta affannosamente le statistiche su quanti vengono a messa e su quanti non vengono più.
Volete andarvene anche voi? Gesù, più che preoccuparsi di coloro che lo rifiutano, sembra preoccuparsi che non ci sia qualcuno, tra quelli che lo seguono, che abbia capito male e possa falsare il suo messaggio.
La risposta di Pietro sia la nostra risposta. Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna.Possiamo essere deboli, possiamo essere infedeli ai nostri impegni e incoerenti coi nostri princìpi; ma Dio nostro Padre ci conceda di sentire sempre questa invincibile nostalgia del Signore Gesù.” (Stilli come rugiada il mio dire. Omelie per le Domeniche del Tempo Ordinario. Anno B, cit., pp. 131-32)
«Nel suo discorso al Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, Giovanni Paolo II si esprime a questo proposito con grande chiarezza: “La fedeltà alla verità è condizione imprescindibile perché i cristiani tutti possano svolgere la loro missione profetica nel mondo” (Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno Ecclesiale di Loreto, 11 aprile 1985, n. 4). E subito dopo: “La 'coscienza di verità', la consapevolezza cioè di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario dell’intera comunità ecclesiale, come testimonia l’esperienza fatta dalla Chiesa fin dalle sue origini. Oggi, in una situazione nella quale è urgente por mano quasi ad una nuova 'implantatio evangelica' anche in un Paese come l’Italia, una forte e diffusa coscienza di verità appare particolarmente necessaria” (ibidem)». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, Siena 2008, p. 75)
«La verità di Dio va amata nella sua integralità e nella sua armoniosa compiutezza. Il cuore davvero credente è affascinato dalla ortodossia e dalla sua capacità di far crescere lo spirito e di approssimarlo a Dio. Le esasperazioni unilaterali delle singole verità; le amplificazioni dell'uno o dell'altro aspetto a scapito della totalità del tesoro rivelato; le eresie, per dirle con parola schietta e antica, possono anche apparire più ricche di originalità e di genio, più gravide di pratiche implicazioni, più capaci di abbagliare le menti e di fare notizia, ma, non essendo la “verità tutta intera”, non sono la divina ricchezza elargitaci dallo Spirito. E alla fine si scoprono sempre nella loro povertà e nelle loro conseguenze mortificanti». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., pp. 84-85)
«La prima realtà da non dimenticare è che nessuno di noi possiede la verità in modo da poterne disporre secondo i suoi calcoli e i suoi progetti. La verità è sempre signora, ed esige da noi un rispetto assoluto e una venerazione incondizionata; non può mai essere piegata al nostro servizio e alle cause da noi difese. Al contrario, dobbiamo sentirci noi i servi docili e fedeli della verità... In particolare, non possiamo avvalerci della verità rivelata come se fosse cosa nostra, passibile dei nostri dosaggi e delle nostre manipolazioni in conformità alle pretese della cultura mondana prevalente e più aggressiva. Lo Spirito Santo ci guida a “tutta la verità” (Gv 16,13); e appunto la verità tutta intera deve essere da noi accolta e adorata, senza mutilazioni e senza astute censure. “La verità rivelata – ha detto ancora Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto [Discorso al Convegno Ecclesiale di Loreto, 11 aprile 1985, n. 4] – è proprietà di Dio; di essa la Chiesa non è padrona arbitraria, ma piuttosto serva e testimone fedele». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., p. 83)
«Naturalmente bisogna guardarsi dal presentare come “coscienza di verità” della Chiesa di Cristo le nostre piccole persuasioni personali, o gli assiomi particolari al nostro raggruppamento sociale, ideologico, ecclesiale, o le idee correnti in un determinato ambiente e in un determinato momento storico. Anche a proposito della verità bisogna preoccuparsi di non mescolare mai nel santuario della nostra coscienza il Dio unico e vivo con la moltitudine degli idoli morti e mortiferi, o anche solo con gli irrilevanti idoletti delle nostre ubbìe e delle nostre opinabili preferenze». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., p. 79)
«Il maestro è Cristo: quindi nessuno di noi è maestro a se stesso. Proprio perché l'orgoglioso attaccamento al nostro personale modo di sentire non intralci il nostro cammino verso la verità, dobbiamo mantenerci di fronte a Gesù nell'atteggiamento più docile di chi vuole imparare. Sulle questioni religiose e morali non ha molto senso ripetere, come se fosse una sentenza definitiva: “Io la penso così”; dobbiamo sempre ricercare che cosa oggettivamente ne pensi il Maestro... Cristo è il nostro maestro, cioè mandato apposta per noi dalla misericordia del Padre, perché lo scoraggiamento e lo scetticismo non ci paralizzasse nella esplorazione di ciò che è giusto e vero». (Stilli come rugiada il mio dire. Omelie per le Domeniche del Tempo Ordinario, Bologna 2015, p. 152)
«La coscienza morale è la norma prossima dell'agire: ognuno deve sempre seguire la sua coscienza, qualunque cosa comandi, qualunque cosa proibisca. Ma la può seguire con tranquillità solo se prima si è preoccupato che la sua coscienza sia vera, cioè corrisponda effettivamente alla verità oggettiva di Dio, la quale è legge di comportamento che precede ogni parere e ogni decisione dell'uomo. Perché Dio, e non l'uomo, è il Signore cui è dovuta obbedienza.
In pratica, la “verità” della mia coscienza sarà garantita dal mio amore disinteressato e assoluto per la verità; vale a dire dalla continua determinazione non tanto di affermare enfaticamente ciò che io ritengo giusto, ma di conoscere ciò che è giusto in sé, a prescindere dai miei interessi e dalle mie personali preferenze». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, Siena 2008, p. 88)
«La “mia coscienza” (citata ai miei interlocutori, che non la vedono e possono solo fidarsi di ciò che io ne dico) non è dunque la parola risolutiva, quasi magica, che mi dispensi dall'appurare dove in effetti stia di casa la giustizia oggettiva. Mi preoccuperò piuttosto che essa diventi sempre più la voce della giustizia eterna, in quanto risuona dentro il mio cuore. Allora ciò che io devo fare non è di addurre a ogni piè sospinto l'autorità della “mia coscienza” nelle discussioni con gli altri (che non la possono verificare). Ricercherò piuttosto come un ideale la sintonia reale più perfetta possibile tra questa mia voce interiore e la voce di colui che unico è Signore e Legislatore assoluto. Diversamente la mia coscienza, invece di essere la presenza eloquente in me del Dio vivo e vero, diventerebbe un idolo eretto nel santuario interiore a mio smarrimento e a mia rovina». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., p. 89)
«Secondo l'opinione che oggi si generalizza, invece, la coscienza non pare debba uscire da se stessa: stia attenta ai propri desideri, alle proprie ritrosie, ai propri entusiasmi, ai propri languori, e non avrà bisogno d'altro. La conoscenza delle norme oggettive le è estranea e quindi indifferente. E così si è finalmente venuti a capo di un equivoco: si era fino a questo momento pensato che la coscienza fosse un mezzo dato da Dio per far conoscere la volontà di Dio. Tutto è così reso più facile: la coscienza è l'abolizione della legge. È la liberazione dalla schiavitù dei precetti e della casistica. L'imperativo morale è perfettamente semplificato:
- Sono leciti i rapporti prematrimoniali? Segui la tua coscienza
- Come devo compilare la denuncia dei redditi? Segui la tua coscienza...
La quale non va affatto informata, va solo seguita. E non è appena il mestiere di moralista a venire in tal modo agevolato, è anche quello più impegnativo di uomo.
Tanto più che, nonostante le apparenze, non c'è nulla di più arrendevole della coscienza che non si raffronti continuamente con la legge divina. All'uomo che obbedisce alla coscienza senza preoccuparsi affatto di conoscere il parere di Dio, la ricompensa è immanente: la coscienza finisce sempre per obbedire all'uomo senza recargli più nessun disturbo». (Il quinto evangelo, Bologna 2008 [prima edizione: Milano 1970], pp. 67-68)
«L'imperativo morale, offrendo dei contenuti che, all'atto del loro notificarsi, vengono necessariamente percepiti come vincolanti per tutti e per sempre, è di sua natura atemporale. Il problema etico nasce dentro di noi appunto dalla esigenza di riferire e sottomettere la concretezza storica nella quale esistiamo e siamo chiamati ad agire a una norma che viene avvertita trascendente i vari momenti e i vari stati.
Concepire l'imperativo come del tutto condizionato alla situazione in cui noi e i nostri atti siamo storicamente racchiusi, significa – di là da ogni astuzia dialettica – vanificarlo. Se non è colto come qualcosa di assoluto ed eterno, non viene neppure colto come realmente impegnativo. L'uccisione del Grillo parlante è un misfatto che può essere perpetrato, oltre che nella vita di un burattino ribelle, anche in qualche celebrata pagina di scienza morale.
La coscienza personale... deve o no riconoscere l'esistenza fuori di sé di una legge obiettiva da esplorare lealmente e appassionatamente, con la quale confrontarsi ogni giorno in un atteggiamento di umile subordinazione? Si tratta in sostanza se ammettere o no una verità trascendente nel campo della vita morale, alla quale sentirsi vincolati.
È una questione di fondo, che coinvolge in sé la visione globale della realtà. Chi, anche implicitamente, concepisce la coscienza individuale come il riflesso di una norma obbiettiva cui ci si deve riferire, ammette, anche se non lo sa, che c'è un Dio al principio di tutto.
Chi ritiene che la coscienza non abbia nessuna necessità di rifarsi a una norma obbiettiva che la preceda, si pone, anche se non lo sa, sulla strada dell'ateismo: il suo atteggiamento interiore è quello di chi non ammette altro Dio all'in fuori di se stesso...
Non per nulla nel nostro libro l'allontanamento da Geppetto si conclude con l'uccisione del Grillo parlante. L'imperativo all'inizio è vivo e operante nel cuore di ogni uomo, ma la sua azione e la sua vivacità subiscono variazioni essenziali a seconda della maggiore o minore intensità del senso di Dio... È probabile che Pinocchio non volesse spingersi fino a uccidere il Grillo: Forse non credeva neppure di colpirlo.
Se si potesse confinarlo in una gabbietta all'esterno, sul balcone di casa, così che i vicini lo vedano e il suo cri-cri petulante arrivi a loro e lasci in pace noi, saremmo contenti tutti. Ma quando il Grillo parlante non si rassegna a questo accomodamento, allora bisogna agire con decisione; e c'è sempre qualche martello di legno a portata di mano». (Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a “Le avventure di Pinocchio”, Milano 1977, pp. 49-51)
«Contrariamente a quello che talvolta noi possiamo immaginare, Gesù non è affatto una persona accondiscendente e incline al compromesso, quando si tratta della verità.
Se si imbatte in uomini che sembrano disinteressati all'annuncio, non per questo cambia l'annuncio o lo riduce. Non si affanna a inseguire le ottusità e le svogliatezze del mondo o a rincorrere i capricci dei suoi contemporanei. Egli è il portatore del dono del Padre e la sua preoccupazione è quello di offrirlo integralmente, non di imporlo ad ogni costo alla cattiva volontà di chi lo rifiuta. Egli sa già in partenza che molti rifiuteranno il dono; questo lo fa soffrire, ma non lo induce a formulare una proposta meno impegnativa e più conforme alle attese degli uomini...
E nessuno pensi che tutto questo sia mancanza di amore. Al contrario, è proprio l'amore che spinge Gesù a non cedere di fronte alle nostre esigenze, alle nostre proposte di adattare la verità di Dio ai gusti umani, ai nostri tentativi di immiserire la grandezza e la bellezza del disegno del Padre. A Cafarnao, per esempio, resistendo con fermezza ai suoi contemporanei che gli chiedono un discorso più facile da accettare da parte degli uomini, Gesù salva per noi e per la nostra vita il segno più alto, più efficace, più commovente del suo amore che rinnova, nutre, rianima, cioè il sacramento dell'Eucaristia». (Stilli come rugiada il mio dire. Omelie per le Domeniche del Tempo Ordinario. Anno B, Bologna 2015, pp. 127-28)
«Di fronte alla ribellione, al disinteresse, all'abbandono, egli [Gesù Cristo] si limita a chiedere ai Dodici rimasti: Volete andarvene anche voi?
È una forte lezione per chi crede di poter “trattare” con lui e porre delle condizioni al suo proseguimento nella fede e nella pratica religiosa. È una forte lezione per il cristiano che vive nella paura di perdere l'adesione del mondo moderno e della cultura oggi prevalente. È una forte lezione per chi, invece di credere, si preoccupa di essere credibile e scruta affannosamente le statistiche su quanti vengono a messa e su quanti non vengono più.
Volete andarvene anche voi? Gesù, più che preoccuparsi di coloro che lo rifiutano, sembra preoccuparsi che non ci sia qualcuno, tra quelli che lo seguono, che abbia capito male e possa falsare il suo messaggio.
La risposta di Pietro sia la nostra risposta. Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna.Possiamo essere deboli, possiamo essere infedeli ai nostri impegni e incoerenti coi nostri princìpi; ma Dio nostro Padre ci conceda di sentire sempre questa invincibile nostalgia del Signore Gesù.” (Stilli come rugiada il mio dire. Omelie per le Domeniche del Tempo Ordinario. Anno B, cit., pp. 131-32)
«Nel suo discorso al Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, Giovanni Paolo II si esprime a questo proposito con grande chiarezza: “La fedeltà alla verità è condizione imprescindibile perché i cristiani tutti possano svolgere la loro missione profetica nel mondo” (Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno Ecclesiale di Loreto, 11 aprile 1985, n. 4). E subito dopo: “La 'coscienza di verità', la consapevolezza cioè di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario dell’intera comunità ecclesiale, come testimonia l’esperienza fatta dalla Chiesa fin dalle sue origini. Oggi, in una situazione nella quale è urgente por mano quasi ad una nuova 'implantatio evangelica' anche in un Paese come l’Italia, una forte e diffusa coscienza di verità appare particolarmente necessaria” (ibidem)». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, Siena 2008, p. 75)
«La verità di Dio va amata nella sua integralità e nella sua armoniosa compiutezza. Il cuore davvero credente è affascinato dalla ortodossia e dalla sua capacità di far crescere lo spirito e di approssimarlo a Dio. Le esasperazioni unilaterali delle singole verità; le amplificazioni dell'uno o dell'altro aspetto a scapito della totalità del tesoro rivelato; le eresie, per dirle con parola schietta e antica, possono anche apparire più ricche di originalità e di genio, più gravide di pratiche implicazioni, più capaci di abbagliare le menti e di fare notizia, ma, non essendo la “verità tutta intera”, non sono la divina ricchezza elargitaci dallo Spirito. E alla fine si scoprono sempre nella loro povertà e nelle loro conseguenze mortificanti». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., pp. 84-85)
«La prima realtà da non dimenticare è che nessuno di noi possiede la verità in modo da poterne disporre secondo i suoi calcoli e i suoi progetti. La verità è sempre signora, ed esige da noi un rispetto assoluto e una venerazione incondizionata; non può mai essere piegata al nostro servizio e alle cause da noi difese. Al contrario, dobbiamo sentirci noi i servi docili e fedeli della verità... In particolare, non possiamo avvalerci della verità rivelata come se fosse cosa nostra, passibile dei nostri dosaggi e delle nostre manipolazioni in conformità alle pretese della cultura mondana prevalente e più aggressiva. Lo Spirito Santo ci guida a “tutta la verità” (Gv 16,13); e appunto la verità tutta intera deve essere da noi accolta e adorata, senza mutilazioni e senza astute censure. “La verità rivelata – ha detto ancora Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto [Discorso al Convegno Ecclesiale di Loreto, 11 aprile 1985, n. 4] – è proprietà di Dio; di essa la Chiesa non è padrona arbitraria, ma piuttosto serva e testimone fedele». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., p. 83)
«Naturalmente bisogna guardarsi dal presentare come “coscienza di verità” della Chiesa di Cristo le nostre piccole persuasioni personali, o gli assiomi particolari al nostro raggruppamento sociale, ideologico, ecclesiale, o le idee correnti in un determinato ambiente e in un determinato momento storico. Anche a proposito della verità bisogna preoccuparsi di non mescolare mai nel santuario della nostra coscienza il Dio unico e vivo con la moltitudine degli idoli morti e mortiferi, o anche solo con gli irrilevanti idoletti delle nostre ubbìe e delle nostre opinabili preferenze». (Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo, cit., p. 79)
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