Sappiamo che i musulmani apprendono dal Corano e dagli hadith le loro regole di comportamento: dal Corano, indiscutibile perché parola di Dio increata, e dagli hadith, che riportano quel che Maometto ha fatto e ha detto nel corso della sua vita, perché il Profeta era infallibile nelle azioni e nei pensieri. I musulmani per lo più derivano da quei testi la convinzione che, per andare in paradiso, sia necessario e sufficiente osservare il meglio possibile le prescrizioni della shari’a, la legge islamica che da essi si ricava.
Altri musulmani, però, una minoranza, ritengono che non basti, che per meritare il paradiso occorra oltre tutto costringere gli altri fedeli all’osservanza della shari’a, punirli se trasgrediscono o se si convertono a un’altra religione, e sottomettere all’islam tutta l’umanità, fino all’ultimo uomo. “Jihad” per i primi è sforzo interiore, personale verso una perfetta fede, per i secondi è anche guerra, santa guerra per difendere l’islam e per imporlo con la forza al mondo intero.
Pensano di avere ragione, i jhadisti, perché è stato Maometto, l’infallibile, a dare inizio al jihad dopo essersi trasferito con i suoi seguaci dalla Mecca a Medina. Da diversi versetti del Corano attingono, inoltre, diritti e doveri di usare violenza sugli infedeli, discriminarli, ingannarli. Sappiamo anche come sono nati al Qaida e quel che ne è seguito. Le sconfitte sempre più gravi subite dai popoli islamici e, per contro, l’affermazione della civiltà cristiana occidentale, il suo successo economico e culturale, oltre che militare, hanno prodotto nei musulmani reazioni diverse.
L’islam, per tornare a essere forte e potente o se non altro per creare condizioni di crescita e sviluppo umano, deve
innovarsi – sostiene una parte del mondo musulmano – deve fare propri i frutti migliori dell’Occidente, modernizzarsi, accettare una distinzione tra religione e politica, riformarsi. Ma altri, e tra questi il fondatore di al Qaida Osama bin Laden, hanno invece letto la situazione creatasi come effetto di cedimenti, di devozione allentata, di riprovevoli innovazioni, estranee e antagoniste alla fede. Hanno quindi scelto la restaurazione del Califfato, l’abbattimento dei governi “empi”, il ritorno all’Islam originario, alla totale sottomissione alla legge coranica, in altre parole l’impegno a vivere esattamente come fece la prima, perfetta generazione: quella del Profeta e dei suoi contemporanei.
Lewis, Hirsi Ali, Khalil Samir, Molinari, Introvigne: diversi autori ci guidano nella comprensione del jihad. Non altrettanto chiara ed esauriente è la spiegazione della genesi e del ruolo del fronte interno antioccidentale che intanto alimenta disprezzo e risentimento contro l’Occidente cristiano, lo demoralizza, lo isola e lo indebolisce compromettendone interessi, principi, identità, immagine e sicurezza. Non c’è male al mondo che non sia stato attribuito all’Occidente, al suo modello di sviluppo: povertà, fame e malattie, sfruttamento, discriminazioni, violenze, ingiustizie, guerre, inquinamento e sprechi. Nell’estate di 16 anni fa, a Durban, Sudafrica, durante un summit mondiale sul razzismo organizzato dall’Onu, quel fronte interno ha diretto un attacco all’Occidente senza precedenti, tentando di far approvare un documento in cui agli Stati occidentali si chiedeva che riconoscessero di essersi macchiati di crimini contro l’umanità, esprimessero rincrescimento, porgessero scuse ufficiali per i danni materiali e morali arrecati e in particolare ammettessero di dover risarcire sia i discendenti degli africani vittime della tratta atlantica degli schiavi sia i Paesi africani danneggiati dallo schiavismo e dalla colonizzazione europei.
Nel testo proposto alla firma dell’assemblea generale, inoltre, Israele era accusato di politiche razziali discriminatorie nei confronti dei palestinesi. Il documento del parallelo forum delle organizzazioni non governative, ancora più ostile, definiva tra l’altro Israele «Stato razzista colpevole di atti di genocidio» e il popolo palestinese vi era autorizzato a reagire con qualunque mezzo. Il testo dell’Onu per essere firmato dovette essere emendato cancellando le frasi che incriminavano Occidente e Israele. L’attacco era fallito. Ma tre giorni dopo, l’11 settembre, al Qaida colpiva Torri gemelle e Pentagono. Molti lo avranno dimenticato, ma nelle ore e nei giorni successivi il fronte interno antioccidentale ha spiegato, se non giustificato, quegli attentati come prevedibile e del tutto comprensibile reazione dei poveri contro l’ “impero” da troppo tempo oppressore dei deboli.
Pax Christi, ad esempio, parlò della “collera dei poveri” per ciò che era stato loro rubato, collera che poteva diventare terribile; i missionari Saveriani dissero che contro le ingiustizie del nuovo ordine mondiale «presto o tardi doveva pur scoppiare» la rabbia del Sud del mondo verso «noi occidentali»; per l’allora direttore della casa editrice Emi, padre Ottavio Raimondo, la pace mondiale era minacciata non dai terroristi islamici bensì dal «terrorismo economico che affama il Sud del mondo». Non basterebbe un libro per contenere tutte le “analisi” antioccidentali di quei giorni. 16 anni dopo, le accuse all’Occidente di sfruttamento ed esclusione, arroganza e cinismo continuano.
Altri musulmani, però, una minoranza, ritengono che non basti, che per meritare il paradiso occorra oltre tutto costringere gli altri fedeli all’osservanza della shari’a, punirli se trasgrediscono o se si convertono a un’altra religione, e sottomettere all’islam tutta l’umanità, fino all’ultimo uomo. “Jihad” per i primi è sforzo interiore, personale verso una perfetta fede, per i secondi è anche guerra, santa guerra per difendere l’islam e per imporlo con la forza al mondo intero.
Pensano di avere ragione, i jhadisti, perché è stato Maometto, l’infallibile, a dare inizio al jihad dopo essersi trasferito con i suoi seguaci dalla Mecca a Medina. Da diversi versetti del Corano attingono, inoltre, diritti e doveri di usare violenza sugli infedeli, discriminarli, ingannarli. Sappiamo anche come sono nati al Qaida e quel che ne è seguito. Le sconfitte sempre più gravi subite dai popoli islamici e, per contro, l’affermazione della civiltà cristiana occidentale, il suo successo economico e culturale, oltre che militare, hanno prodotto nei musulmani reazioni diverse.
L’islam, per tornare a essere forte e potente o se non altro per creare condizioni di crescita e sviluppo umano, deve
innovarsi – sostiene una parte del mondo musulmano – deve fare propri i frutti migliori dell’Occidente, modernizzarsi, accettare una distinzione tra religione e politica, riformarsi. Ma altri, e tra questi il fondatore di al Qaida Osama bin Laden, hanno invece letto la situazione creatasi come effetto di cedimenti, di devozione allentata, di riprovevoli innovazioni, estranee e antagoniste alla fede. Hanno quindi scelto la restaurazione del Califfato, l’abbattimento dei governi “empi”, il ritorno all’Islam originario, alla totale sottomissione alla legge coranica, in altre parole l’impegno a vivere esattamente come fece la prima, perfetta generazione: quella del Profeta e dei suoi contemporanei.
Lewis, Hirsi Ali, Khalil Samir, Molinari, Introvigne: diversi autori ci guidano nella comprensione del jihad. Non altrettanto chiara ed esauriente è la spiegazione della genesi e del ruolo del fronte interno antioccidentale che intanto alimenta disprezzo e risentimento contro l’Occidente cristiano, lo demoralizza, lo isola e lo indebolisce compromettendone interessi, principi, identità, immagine e sicurezza. Non c’è male al mondo che non sia stato attribuito all’Occidente, al suo modello di sviluppo: povertà, fame e malattie, sfruttamento, discriminazioni, violenze, ingiustizie, guerre, inquinamento e sprechi. Nell’estate di 16 anni fa, a Durban, Sudafrica, durante un summit mondiale sul razzismo organizzato dall’Onu, quel fronte interno ha diretto un attacco all’Occidente senza precedenti, tentando di far approvare un documento in cui agli Stati occidentali si chiedeva che riconoscessero di essersi macchiati di crimini contro l’umanità, esprimessero rincrescimento, porgessero scuse ufficiali per i danni materiali e morali arrecati e in particolare ammettessero di dover risarcire sia i discendenti degli africani vittime della tratta atlantica degli schiavi sia i Paesi africani danneggiati dallo schiavismo e dalla colonizzazione europei.
Nel testo proposto alla firma dell’assemblea generale, inoltre, Israele era accusato di politiche razziali discriminatorie nei confronti dei palestinesi. Il documento del parallelo forum delle organizzazioni non governative, ancora più ostile, definiva tra l’altro Israele «Stato razzista colpevole di atti di genocidio» e il popolo palestinese vi era autorizzato a reagire con qualunque mezzo. Il testo dell’Onu per essere firmato dovette essere emendato cancellando le frasi che incriminavano Occidente e Israele. L’attacco era fallito. Ma tre giorni dopo, l’11 settembre, al Qaida colpiva Torri gemelle e Pentagono. Molti lo avranno dimenticato, ma nelle ore e nei giorni successivi il fronte interno antioccidentale ha spiegato, se non giustificato, quegli attentati come prevedibile e del tutto comprensibile reazione dei poveri contro l’ “impero” da troppo tempo oppressore dei deboli.
Pax Christi, ad esempio, parlò della “collera dei poveri” per ciò che era stato loro rubato, collera che poteva diventare terribile; i missionari Saveriani dissero che contro le ingiustizie del nuovo ordine mondiale «presto o tardi doveva pur scoppiare» la rabbia del Sud del mondo verso «noi occidentali»; per l’allora direttore della casa editrice Emi, padre Ottavio Raimondo, la pace mondiale era minacciata non dai terroristi islamici bensì dal «terrorismo economico che affama il Sud del mondo». Non basterebbe un libro per contenere tutte le “analisi” antioccidentali di quei giorni. 16 anni dopo, le accuse all’Occidente di sfruttamento ed esclusione, arroganza e cinismo continuano.
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