Gesù / Pixabay CC0 - Myriams-Fotos, Public Domain
“Andare e annunciare”, la Chiesa è viva in questi due verbi: “Essa esiste per evangelizzare, per predicare e riconciliare i peccatori con Dio” (Paolo VI, Evangelii nuntiandi). E, dentro, un amore infinito a muovere gambe, labbra e cuore, l’amore più grande, annunciare l’amore, che ha un nome, è una persona, è Cristo Gesù. L’annuncio del Vangelo è sempre un’apparizione di Cristo risorto: ovunque giungano i suoi messaggeri si rinnova la Pasqua: “Pace a voi! Pace a questa casa”, lo stesso annuncio che ha deposto il Cielo sulla terra.
“Egli è venuto ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”: nei suoi apostoli Egli “è venuto” e “viene” ogni giorno passando attraverso la porta sprangata dietro la quale si nasconde l’uomo di ogni tempo, alienato nel cinismo che cantava John Lennon in Imagine, la canzone che ha sedotto milioni di giovani: “Immagina che non esiste paradiso, è facile se provi”. Ma Cristo è venuto a sgretolare questo immaginare falso e distruttivo proprio annunciando la Pace, caparra di quel Paradiso che Lennon negava.
Come gli esploratori che, inviati da Mosè nella Terra di Canaan, tornarono con le primizie ivi raccolte, Gesù è tornato dal Paradiso portando il suo frutto più squisito, la Pace che fa dei due, di ogni
Adamo ed Eva inesorabilmente separati dal veleno del peccato, una sola creazione nuova. Gli Apostoli gioirono nel vederlo di nuovo vivo; erano “figli della Pace”, e la Pace “discese su di loro”.
Il mondo ha cancellato dal suo orizzonte il peccato originale, e non sa più da dove prendere il male: esso sguscia via dai cuori, dalle menti, dalle mani, e domina e uccide. Occorre un miracolo, un segno, la testimonianza che non tutto finisce ingoiato dall’assurdo della morte e del male. Urge il Regno dei Cieli, qui ed ora, visibile, come un avvenimento autentico e gratuito, perché l’uomo smetta di costruirselo. E’ necessario che la Chiesa annunci il Regno dei Cieli, incarnando come un sacramento di salvezza, l’irrompere di Dio nella storia dell’umanità.
Ma anche oggi “sono pochi gli operai” che, liberi perché amati, si gettino nella “messe abbondante”. Non si crede più che il mondo sia una “messe” pronta per la mietitura perché si è dimenticato il potere del Seme caduto in terra e morto per non rimanere solo. Si parla tanto di inculturazione del Vangelo, spesso dimenticando l’amore che muove l’evangelizzazione.
Si ingabbia il Vangelo nelle trame delle diverse culture sino a gettarlo prono dinanzi alla dittatura del relativismo etico e morale dei tempi e delle mode; si pensa così di renderlo più commestibile e appetibile. Per paura del rifiuto e del fallimento si annacqua l’annuncio nel compromesso, come facciamo spesso nella nostra vita. Ciò che realmente ci preme è non fallire, è l’essere compresi, accettati. Lo scandalo della Croce fa paura, perché si è dimenticato il Cielo che essa dischiude.
Per questo Gesù invia gli apostoli come ambasciatori del Regno di Dio; ne hanno sperimentato la vita e l’amore, devono annunciarlo, non possono perdersi in “saluti” e convenevoli. Con loro nessuna sicurezza di quelle in uso al di là del muro che separa il Cielo dalla terra. “Non passano di casa in casa” e non si legano strumentalmente a nessuno, perché non cercano la propria gloria, ma si sfiniscono perché nessuno vada perduto. “Accolti in una città, mangiano quello che è offerto” loro, anche il cibo avariato dalla menzogna del demonio, e non temono di “bere” anche il calice colmo dell’aceto amaro del peccato; “restano nella casa” dei “figli della pace”, ascoltando il dolore per “guarire i malati” con la misericordia e la stoltezza della predicazione; sanno, infatti, che solo la Parola del Vangelo ha il potere di sanare anche le situazioni più disperate.
Come i “discepoli” di Gesù – scelti alla stregua dei “settantadue anziani” che affiancarono Mosè nel governo di Israele – siamo inviati a giudicare le cause che il demonio ha intentato contro chi ci è accanto, in famiglia come al lavoro, a scuola o tra gli amici. Siamo “mandati come pecore in mezzo ai lupi”, discepoli dell’Agnello che ha sottratto alla pena di morte l’umanità offrendo se stesso al patibolo; nei “settantadue” la morte è stata vinta e, più ancora nel rifiuto e nella persecuzione, con loro si fa “vicino il Regno di Dio”; esso è preparato anche per i nemici della Croce di Cristo, gli abitanti delle “Sodoma” che rifiutano e uccidono gli stranieri messaggeri di una vita diversa e senza peccato; liberi e senza paura, siamo inviati ad amarli nella verità, “scuotendo la polvere” di corruzione e vanità calpestata per raggiungerli, rivelando sin dove si spinge lo zelo di Dio per la pecora perduta.
Per noi è la gioia incorruttibile che nasce dalla certezza del “Cielo”, dove “i nostri nomi”, le nostre persone, sono custodite come lettere d’oro “scritte” dal sangue di Cristo. Non ci basta vedere “Satana cadere dal cielo” dove si è assiso usurpando il posto di Dio. Non è il “potere” smarrito dai progenitori di “camminare sopra” il serpente antico a rallegrarci; ogni giorno sperimentiamo che “nulla può danneggiarci”: tutto questo è la nostra missione, non il destino che ci attende. Niente orgoglio e presunzione, i discepoli dell’umile Servo sperano il Cielo, e, con Lui, camminano ogni giorno verso la “ricompensa”, la pienezza della gioia che non tramonta.
“Egli è venuto ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”: nei suoi apostoli Egli “è venuto” e “viene” ogni giorno passando attraverso la porta sprangata dietro la quale si nasconde l’uomo di ogni tempo, alienato nel cinismo che cantava John Lennon in Imagine, la canzone che ha sedotto milioni di giovani: “Immagina che non esiste paradiso, è facile se provi”. Ma Cristo è venuto a sgretolare questo immaginare falso e distruttivo proprio annunciando la Pace, caparra di quel Paradiso che Lennon negava.
Come gli esploratori che, inviati da Mosè nella Terra di Canaan, tornarono con le primizie ivi raccolte, Gesù è tornato dal Paradiso portando il suo frutto più squisito, la Pace che fa dei due, di ogni
Adamo ed Eva inesorabilmente separati dal veleno del peccato, una sola creazione nuova. Gli Apostoli gioirono nel vederlo di nuovo vivo; erano “figli della Pace”, e la Pace “discese su di loro”.
Il mondo ha cancellato dal suo orizzonte il peccato originale, e non sa più da dove prendere il male: esso sguscia via dai cuori, dalle menti, dalle mani, e domina e uccide. Occorre un miracolo, un segno, la testimonianza che non tutto finisce ingoiato dall’assurdo della morte e del male. Urge il Regno dei Cieli, qui ed ora, visibile, come un avvenimento autentico e gratuito, perché l’uomo smetta di costruirselo. E’ necessario che la Chiesa annunci il Regno dei Cieli, incarnando come un sacramento di salvezza, l’irrompere di Dio nella storia dell’umanità.
Ma anche oggi “sono pochi gli operai” che, liberi perché amati, si gettino nella “messe abbondante”. Non si crede più che il mondo sia una “messe” pronta per la mietitura perché si è dimenticato il potere del Seme caduto in terra e morto per non rimanere solo. Si parla tanto di inculturazione del Vangelo, spesso dimenticando l’amore che muove l’evangelizzazione.
Si ingabbia il Vangelo nelle trame delle diverse culture sino a gettarlo prono dinanzi alla dittatura del relativismo etico e morale dei tempi e delle mode; si pensa così di renderlo più commestibile e appetibile. Per paura del rifiuto e del fallimento si annacqua l’annuncio nel compromesso, come facciamo spesso nella nostra vita. Ciò che realmente ci preme è non fallire, è l’essere compresi, accettati. Lo scandalo della Croce fa paura, perché si è dimenticato il Cielo che essa dischiude.
Per questo Gesù invia gli apostoli come ambasciatori del Regno di Dio; ne hanno sperimentato la vita e l’amore, devono annunciarlo, non possono perdersi in “saluti” e convenevoli. Con loro nessuna sicurezza di quelle in uso al di là del muro che separa il Cielo dalla terra. “Non passano di casa in casa” e non si legano strumentalmente a nessuno, perché non cercano la propria gloria, ma si sfiniscono perché nessuno vada perduto. “Accolti in una città, mangiano quello che è offerto” loro, anche il cibo avariato dalla menzogna del demonio, e non temono di “bere” anche il calice colmo dell’aceto amaro del peccato; “restano nella casa” dei “figli della pace”, ascoltando il dolore per “guarire i malati” con la misericordia e la stoltezza della predicazione; sanno, infatti, che solo la Parola del Vangelo ha il potere di sanare anche le situazioni più disperate.
Come i “discepoli” di Gesù – scelti alla stregua dei “settantadue anziani” che affiancarono Mosè nel governo di Israele – siamo inviati a giudicare le cause che il demonio ha intentato contro chi ci è accanto, in famiglia come al lavoro, a scuola o tra gli amici. Siamo “mandati come pecore in mezzo ai lupi”, discepoli dell’Agnello che ha sottratto alla pena di morte l’umanità offrendo se stesso al patibolo; nei “settantadue” la morte è stata vinta e, più ancora nel rifiuto e nella persecuzione, con loro si fa “vicino il Regno di Dio”; esso è preparato anche per i nemici della Croce di Cristo, gli abitanti delle “Sodoma” che rifiutano e uccidono gli stranieri messaggeri di una vita diversa e senza peccato; liberi e senza paura, siamo inviati ad amarli nella verità, “scuotendo la polvere” di corruzione e vanità calpestata per raggiungerli, rivelando sin dove si spinge lo zelo di Dio per la pecora perduta.
Per noi è la gioia incorruttibile che nasce dalla certezza del “Cielo”, dove “i nostri nomi”, le nostre persone, sono custodite come lettere d’oro “scritte” dal sangue di Cristo. Non ci basta vedere “Satana cadere dal cielo” dove si è assiso usurpando il posto di Dio. Non è il “potere” smarrito dai progenitori di “camminare sopra” il serpente antico a rallegrarci; ogni giorno sperimentiamo che “nulla può danneggiarci”: tutto questo è la nostra missione, non il destino che ci attende. Niente orgoglio e presunzione, i discepoli dell’umile Servo sperano il Cielo, e, con Lui, camminano ogni giorno verso la “ricompensa”, la pienezza della gioia che non tramonta.
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