“La Chiesa? Aiuti le persone a leggere la loro esistenza”
In questa intervista don Paolo Asolan, noto pastoralista e docente alla Lateranense, spiega come l’annuncio della gioia del Vangelo passi anche dalla capacità di fare un piano pastorale e di rifare amicizia con Gesù
Don Paolo Asolan “La Chiesa? Aiuti le persone a leggere la loro esistenza”
18/07/2016
Roma
«Lì dove si ama fedelmente, dove si accettano gli altri riconoscendoli comunque come propri fratelli, dove si perdona e si chiede perdono, dove si prega senza interruzione, dove si perde la vita per qualcuno senza contraccambio, dove ci si mette con umiltà e competenza a servizio della vita del mondo, dove si è nella pace anche quando si è crocifissi… Dio è entrato nel mondo». Don Paolo Asolan, docente alla Lateranense di Teologia pastorale fondamentale, consultore del Pontificio Consiglio Cor Unum e autore di diversi libri, riflette sul ruolo della Chiesa nella società contemporanea. Non si può programmare la pastorale se non si prende in esame «lo splendore dell’amicizia con Cristo e con la vita, nostra e del nostro prossimo. Viceversa, avremmo – afferma don Asolan – un’organizzazione di servizi religiosi che lascia il tempo che trova. In questo tornante della storia è importante aiutarci a discernere dove il Signore vuole portarci e seguirlo. Il primo atto pastorale è avere fiducia che egli è Dio. C’è nella Chiesa una sorta di arianesimo di ritorno che impedisce a Gesù di manifestarsi come Signore; la gente lo capisce da come viviamo con paura e timidezza la fede, come se il reale della vita fosse un accidente da scansare per poter incontrare il Signore».
Alle difficoltà delle parrocchie nell’incontrare le persone, si contrappone la capacità sempre più forte di associazioni e movimenti di intercettare la gente. Come si spiega?
«Più la realtà della vita si fa complessa, più le istituzioni degradano in organizzazioni con prestatori d’opera specializzati, settorializzazione delle competenze, piani di lavoro da eseguire. Anche la parrocchia rischia di burocratizzarsi: fornisce servizi a fedeli-consumatori i quali, ottenuto quel che cercano, lasciano l’offerta e se ne vanno. La consistenza di una comunità cristiana, il suo stile, sta nel seguire il Signore e quindi nell’incarnarsi. I movimenti, essendo incentrati più sul rapporto con le persone, interpretano meglio questa legge della vita. I cristiani, le parrocchie, non sono in un altro mondo rispetto alla vita, ne sono parte. Non si tratta di elaborare piani di lavoro dal di fuori per poi cambiare le cose, quanto di chiedersi che cosa succede mentre viviamo. La Chiesa dovrebbe aiutare le persone a leggere la loro esistenza, riconducendola sempre al mistero pasquale di Gesù, che illumina e dà speranza. Le persone aiutate si riappropriano della loro vita, ne sentono il gusto e la bellezza: si riconoscono figli amati e benedetti. Quando una parrocchia aiuta in questo, ha fatto molto più che «intercettare» i bisogni: è stata strumento della Grazia».
Il Papa al Convegno ecclesiale di Firenze ha esortato le parrocchie a mettere a tema nella pastorale l’Evangelii Gaudium? Come?
«Papa Francesco ha scelto la gioia come prospettiva della vita e della missione della Chiesa. Il titolo completo dell’esortazione («L’annuncio del Vangelo nel mondo attuale») manifesta una maniera chiara di concepire l’azione della Chiesa inserita e non separata dal mondo. Si tratta dello stile missionario, che è generato dall’annuncio della salvezza. La gioia cristiana non è una cosa e nemmeno uno stato d’animo più o meno prolungato, neppure una vibrazione soltanto fisica o psichica, o un’attività pastorale da mettere in campo: consiste in una relazione, resa possibile per l’iniziativa di Dio e per la risposta dell’uomo. Direi di verificare come stiamo messi a gioia, a stile missionario e più in generale a rapporto con il mondo. Non mi avventurerei in riforme pastorali senza aver messo a fuoco questi tre nuclei. Una prassi pastorale rabbiosa, risentita o triste, insoddisfatta e capace solo di lamentazioni e rimproveri, necessita di una conversione alla gioia. Necessita di rifare amicizia con Gesù Cristo».
Che spazio c’è per i laici nel progettare la pastorale?
«Progettare significa anche raccogliere dalla realtà tutti i dati che consentono o meno l’inculturazione del vangelo, la conversione della vita secondo una forma cristiana, le domande della gente, il cammino che ci viene aperto davanti, il coefficiente di praticabilità possibile. È chiaro che in questa lettura e analisi di fede della situazione il contributo dei laici è necessario e non facoltativo. I pastori hanno la necessità di ascoltare, vedere e capire le cose insieme alla gente; è del pastore guidare il suo popolo, orientarlo e dunque essere partecipe della loro visione, dei loro pensieri ed essere a sua volta corretto, educato, sostenuto dal suo popolo. La decisionalità non va concentrata al vertice, ma partecipata e diffusa, perché uno da solo, laico o pastore, non può pensare di affrontare tutte le emergenze e le problematiche».
Alle difficoltà delle parrocchie nell’incontrare le persone, si contrappone la capacità sempre più forte di associazioni e movimenti di intercettare la gente. Come si spiega?
«Più la realtà della vita si fa complessa, più le istituzioni degradano in organizzazioni con prestatori d’opera specializzati, settorializzazione delle competenze, piani di lavoro da eseguire. Anche la parrocchia rischia di burocratizzarsi: fornisce servizi a fedeli-consumatori i quali, ottenuto quel che cercano, lasciano l’offerta e se ne vanno. La consistenza di una comunità cristiana, il suo stile, sta nel seguire il Signore e quindi nell’incarnarsi. I movimenti, essendo incentrati più sul rapporto con le persone, interpretano meglio questa legge della vita. I cristiani, le parrocchie, non sono in un altro mondo rispetto alla vita, ne sono parte. Non si tratta di elaborare piani di lavoro dal di fuori per poi cambiare le cose, quanto di chiedersi che cosa succede mentre viviamo. La Chiesa dovrebbe aiutare le persone a leggere la loro esistenza, riconducendola sempre al mistero pasquale di Gesù, che illumina e dà speranza. Le persone aiutate si riappropriano della loro vita, ne sentono il gusto e la bellezza: si riconoscono figli amati e benedetti. Quando una parrocchia aiuta in questo, ha fatto molto più che «intercettare» i bisogni: è stata strumento della Grazia».
Il Papa al Convegno ecclesiale di Firenze ha esortato le parrocchie a mettere a tema nella pastorale l’Evangelii Gaudium? Come?
«Papa Francesco ha scelto la gioia come prospettiva della vita e della missione della Chiesa. Il titolo completo dell’esortazione («L’annuncio del Vangelo nel mondo attuale») manifesta una maniera chiara di concepire l’azione della Chiesa inserita e non separata dal mondo. Si tratta dello stile missionario, che è generato dall’annuncio della salvezza. La gioia cristiana non è una cosa e nemmeno uno stato d’animo più o meno prolungato, neppure una vibrazione soltanto fisica o psichica, o un’attività pastorale da mettere in campo: consiste in una relazione, resa possibile per l’iniziativa di Dio e per la risposta dell’uomo. Direi di verificare come stiamo messi a gioia, a stile missionario e più in generale a rapporto con il mondo. Non mi avventurerei in riforme pastorali senza aver messo a fuoco questi tre nuclei. Una prassi pastorale rabbiosa, risentita o triste, insoddisfatta e capace solo di lamentazioni e rimproveri, necessita di una conversione alla gioia. Necessita di rifare amicizia con Gesù Cristo».
Che spazio c’è per i laici nel progettare la pastorale?
«Progettare significa anche raccogliere dalla realtà tutti i dati che consentono o meno l’inculturazione del vangelo, la conversione della vita secondo una forma cristiana, le domande della gente, il cammino che ci viene aperto davanti, il coefficiente di praticabilità possibile. È chiaro che in questa lettura e analisi di fede della situazione il contributo dei laici è necessario e non facoltativo. I pastori hanno la necessità di ascoltare, vedere e capire le cose insieme alla gente; è del pastore guidare il suo popolo, orientarlo e dunque essere partecipe della loro visione, dei loro pensieri ed essere a sua volta corretto, educato, sostenuto dal suo popolo. La decisionalità non va concentrata al vertice, ma partecipata e diffusa, perché uno da solo, laico o pastore, non può pensare di affrontare tutte le emergenze e le problematiche».
Nessun commento:
Posta un commento