L’amico importuno Prediche di Spoleto 2016
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Subito dopo aver donato ai discepoli il «Padre nostro», Gesù raccomanda loro la perseveranza, caratteristica indispensabile della preghiera, e lo fa raccontando la parabola dell’amico importuno (Lc 11, 5-13). In effetti, uno dei maggiori ostacoli alla preghiera è la mancanza di costanza. Ci si scoraggia e si dimentica così presto di pregare! Bisogna invece domandare, cercare, bussare «senza stancarsi mai» (Lc 18, 1). Dunque Gesù non ci dice solo di pregare come figli, ma ci chiede di insistere. Tutti i particolari di questa breve parabola mostrano la situazione reale di credenti che faticano a vivere la preghiera in verità.
Mezzanotte è il tempo in cui si è stanchi e normalmente si dorme. Proprio in quel momento giunge un amico da un lungo viaggio e la tentazione è di non accoglierlo, di non aprire la porta, perché di fatto disturba. Tuttavia si vorrebbe rispondere ai doveri dell’ospitalità e, non avendo nulla da dargli da mangiare, ci si fa coraggio e si va a bussare da un altro amico. Ovviamente chi importuna un altro a mezzanotte lo fa con fatica, non con animo tranquillo. Gesù dice a noi: «Anche se siete titubanti, insistete nel chiedere. Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento, andate comunque, insistete».
L’amico va e bussa; ma la risposta non è buona, e deve continuare a bussare. È disagevole insistere, così come è disagevole continuare a chiedere al Signore. Quando la nostra preghiera è apparentemente inascoltata, ci immaginiamo che Dio sia un po’ sordo e viviamo l’imbarazzo dell’uomo che sta fuori nella speranza che l’altro si muova, che gli apra la porta.
Più passa il tempo, più perdiamo la fiducia in Dio. Ma Gesù ci ripete: «Continua a chiedere, perché già il chiedere è una grazia, già il chiedere ti fa figlio; se non trascuri questa preghiera anche materiale, ripetitiva, diverrai misteriosamente figlio e riceverai pure il pane per nutrire altri, anche se sei stanco, arido, povero».
Nasce spontaneo l’interrogativo: come mai Dio attende la nostra insistenza? Non sa forse, prima di noi, ciò di cui abbiamo bisogno? In realtà siamo noi che, pregando con costanza, ci purifichiamo e, passando per l’umiltà di riconoscere che non sappiamo pregare, diventiamo figli. Papa Francesco ha recentemente osservato:
«Tutti proviamo momenti di stanchezza e di scoraggiamento, soprattutto quando la nostra preghiera sembra inefficace. Ma Gesù ci assicura: Dio esaudisce prontamente i suoi figli, anche se ciò non significa che lo faccia nei tempi e nei modi che noi vorremmo. La preghiera non è una bacchetta magica! Essa aiuta a conservare la fede in Dio, ad affidarci a lui anche quando non ne comprendiamo la volontà» (Udienza del 25 maggio 2016).
Il problema sta nel fatto che, spesso, quando preghiamo siamo rassegnati: non crediamo abbastanza che Dio ci ascolti, ci ami e che sia onnipotente. Dobbiamo invece andare alla preghiera con determinazione. Santa Teresa di Gesù Bambino diceva che «attraverso la fiducia si arriva all’amore». Si tratta dunque di mettere in pratica il primo dei comandamenti, fondamento della preghiera giudaica: «Ascolta Israele... tu amerai il Signore tuo Dio» (Dt 6, 4-5).
Pregare vuol dire ascoltare per amare. Invece, spesso riempiamo orecchi e cuore per non ascoltare il silenzio. Ma chi fugge il silenzio fugge se stesso e fugge Dio. Ascoltare non significa necessariamente ca- pire subito qualcosa, ma essere attento: Dio parla abitualmente nel silenzio, senza parole; nel profondo del cuore depone un seme, che non produrrà necessariamente fiori in modo istantaneo. Più tardi, un giorno, porterà frutto, secondo la natura della terra che lo riceve (cf Lc 8, 11-15).
La perseveranza, dunque, è la violenza che dobbiamo fare a noi stessi se vogliamo veramente diventare uomini e donne di preghiera: una piccola goccia d’acqua che cade regolarmente arriva a perforare la roccia più dura, là dove un macigno non farebbe che rotolare via. Ciò che conta è perciò il desiderio prolungato! Ascoltiamo sant’Agostino: «Il tuo desiderio è la tua preghiera: se continuo è il tuo desiderio, continua è pure la tua preghiera» (cf Commento sui salmi).
Gesù aggiunge poi un’esortazione: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto; chiunque chiede riceve; chi cerca trova; a chi bussa sarà aperto » (11, 9-10). Chi non è capace di chiedere? Chi non è capace di bussare, di cercare? Tutti, in un modo o nell’altro, siamo mendicanti. Solo chi si riconosce bisognoso è pronto a chiedere con insistenza; chi invece si crede sicuro di sé e autosufficiente non sente alcuna necessità di tendere la mano né di aprire il cuore e accogliere qualcosa che venga dal di fuori. Questo è il primo insegnamento che Gesù vuole darci.
Ma non è tutto. Egli aggiunge che, se noi sappiamo dare cose buone ai nostri figli, ancor più il Padre che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano. E, vedendo forse lo sguardo ancora incredulo dei discepoli, Gesù insiste perché ogni incertezza sia allontanata. Con sei affermazioni li rassicura: «Chiedete, cercate, bussate; riceverete, troverete, vi sarà aperto». Il Signore ci fa passare dai bisogni che abbiamo al bisogno che siamo. Se abbiamo bisogno dei suoi doni, siamo soprattutto bisognosi di lui.
Ed ecco subito un’obiezione: qualcuno potrebbe dire di avere domandato cose buone al Padre celeste e di non averle ottenute. Il problema è questo: capire secondo quale criterio si debbano giudicare buone le cose che chiediamo, se secondo il nostro criterio personale o secondo quello del Padre nostro che è nei cieli. Se non siamo attenti, è molto facile che non chiediamo ciò che Dio desidera; e allora ciò che chiediamo non è buono per noi.
Può accadere che ci rivolgiamo a Dio chiedendogli qualcosa senza la fede, cioè senza aver giudicato alla luce della fede l’oggetto della nostra domanda. Ad esempio: chiedere la salute del corpo è più facile che non chiedere la santità della vita; ma mentre per la prima non è necessaria la fede, per la seconda sì, perché ogni uomo desidera star bene, ma soltanto nella fede si desidera di essere santi.
Oppure: possiamo rivolgerci a Dio per chiedere giustizia, ed è corretto e legittimo farlo; ma quanti al di là della giustizia, valore così radicato in noi e che tutti comprendiamo bene, si rivolgono a Dio per chiedergli la grazia di saper perdonare le offese ricevute, di essere misericordiosi per ottenere misericordia? È molto più facile chiedere giustizia che elevarsi nella fede, apprezzare la grandezza del perdono e chiedere la grazia di imparare a perdonare i fratelli, anche quando si ha ragione.
Nasce allora una riflessione: quando preghiamo, che cosa ci attendiamo da Dio? Dei 'beni di consumo', delle 'cose utili', il nostro benessere personale oppure la nostra preghiera è un’apertura del cuore? Finalità della preghiera non è ottenere un cambiamento nella volontà di Dio, ma far sì che la creatura abbia parte ai suoi doni; di fare in modo che l’uomo si disponga interiormente ad accogliere e portare a compimento il progetto divino su di lui.
In questi casi, commenta Papa Francesco, «l’oggetto della preghiera passa in secondo piano; ciò che importa prima di tutto è la relazione con il Padre. Ecco cosa fa la preghiera: trasforma il desiderio e lo modella secondo la volontà di Dio, qualunque essa sia, perché chi prega aspira prima di tutto all’unione con Dio, che è Amore misericordioso» (Udienza del 25 maggio).
mons. Renato Boccardo
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