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lunedì 1 maggio 2017

Apriamo gli occhi sulla testimonianza dei cristiani arabi





   





di Giorgio Bernardelli                              30-04-2017
Papa Francesco con Tawadros II

Cinque discorsi nel giro di una manciata di ore. Con la parola "fratello" ripetuta davanti a ogni interlocutore. E l'invito bellissimo ai giovani egiziani a essere "alberi ben piantati che, crescendo verso l’Alto e accanto agli altri, trasformino ogni giorno l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità". Sono solo alcune istantanee delle due attesissime giornate di papa Francesco al Cairo, terminate ieri con la Messa allo Stadio dell'aeronautica e l'incontro con i religiosi al seminario di Maadi, i due momenti vissuti insieme alla piccola comunità cattolica, minoranza nella minoranza cristiana in Egitto.
Al di là delle parole e delle immagini - sempre suggestive - la domanda adesso però diventa: che cosa resta di questo viaggio? Innanzi tutto rimangono i contenuti del discorso tenuto dal Papa all'università di al Azhar, un testo che meriterà di essere ripreso come un punto di riferimento. E non solo per la denuncia della violenza fondamentalista - che era scontatata -, ma anche per il richiamo alla necessità di uno sguardo verso l'Alto nella costruzione della pace e di una società più umana. Per aver indicato  "il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni" come tre criteri indivisibili in un dialogo autentico. E poi anche per la scelta di portare alla ribalta il tema del commercio delle armi anche in un contesto come quello del Medio Oriente, dove Paesi come l'Arabia Saudita o le monarchie del Golfo - dopo avere accumulato arsenali possenti facendo affari con i Paesi Occidentali, Italia compresa - oggi le stanno utilizzando nel modo che vediamo.
Che tutto questo da domani possa produrre da solo un cambiamento al Cairo e nella regione sarebbe illusorio pensarlo. Ma già il fatto che queste parole siano state ascoltate attraverso le tv arabe da milioni di persone nel mondo musulmano è qualcosa di importante. E che queste parole, poi, siano arrivate proprio dall'Egitto - il Paese più popoloso del Medio Oriente, dove sottotraccia l'islamismo rimane una minaccia pesante - le riveste di un peso ulteriore.
Detto questo - però - è probabile che i frutti più duraturi vengano soprattutto da un altro versante, quello delle comunità cristiane del Medio Oriente. Questo viaggio era molto atteso da chi oggi vive l'esperienza drammatica del martirio, in Egitto come anche in Iraq o in Siria. L'immagine di papa Francesco insieme al patriarca Bartolomeo e al papa copto Tawadros davanti al muro dei martiri, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo al Cairo sventrata appena quattro mesi fa da un attentatore suicida, è stata dunque l'indicazione di un programma preciso per i cristiani del Medio Oriente. I capi delle Chiese insieme davanti a quel muro che non dice solo il sacrificio di chi è morto, ma anche la fede con cui i cristiani d'Egitto guardano al sangue versato.
Questo viaggio ha mostrato che l'ecumenismo dei martiri non può essere più solo uno slogan: chiede passi concreti. E allora è un fatto significativo che papa Francesco e Tawadros abbiano firmato la dichiarazione congiunta in cui le due Chiese si impegnano a superare la pratica del ri-battesimo. Era un passo atteso da tempo e dice quanto le ferite che la storia ha lasciato in eredità tra i cristiani d'Oriente, al di là delle parole, restino profonde. A tutt'oggi a un fedele di rito latino che si accostava alla Chiesa copta ortodossa - magari per un matrimonio - veniva amministrato un nuovo battesimo, non considerando valido quello precedente. Una sottigliezza paradossale in un tempo in cui per l'Isis tutti i cristiani sono "nazareni" da espellere dall'Egitto. Ora invece si volta pagina ed il merito è principalmente del papa copto che sta imprimendo alla sua comunità un'accelerazione nella ricerca dell'unità con le altre Chiese cristiane.
Il riconoscimento del battesimo, però, è solo il primo passo: ce ne sono altri che attendono ancora. Due in particolare sono indicati nella stessa dichiarazione congiunta firmata l'altra sera: la formulazione di un testo comune del Padre Nostro e l'individuazione di una data condivisa per la Pasqua, che solo per una coincidenza dei calendari gregoriano e giuliano quest'anno è caduta nello stesso giorno. Sembrano dettagli, ma visti con gli occhi dei cristiani d'Oriente sono aspetti importanti, segni di unità che possono dare speranza nel futuro.
In Egitto con il Papa abbiamo visto fratelli provati ma forti nella fede. Ci hanno ricordato che Alessandria e l'Oriente sono i luoghi da cui abbiamo ricevuto il monachesimo e gli stessi evangelizzatori dell'Europa; e ancora oggi - probabilmente - questi fratelli hanno molto da dire alla nostra fede intiepidita. Nella Messa di ieri allo stadio papa Francesco ha spiegato che l'unico estremismo accettabile per un credente è quello della carità. Ha indicato una strada, certo. Ma non è affatto una strada nuova per i cristiani del Cairo: è esattamente quella che loro stanno già percorrendo con le loro scuole, con le loro opere assistenziali, con la fraternità coltivata nei rapporti umani con tanti amici musulmani, con le parole di perdono nonostante le violenze, con la preghiera per il proprio Paese.

Si è detto che questo viaggio serviva a dare loro coraggio, ed è vero. Ma aveva anche un altro scopo: aprire i nostri occhi. Farci capire che i cristiani dei Paesi arabi non sono gli ultimi dei Mohicani, ma comunità vive, coraggiose, salde nelle proprie radici. Ricordarcene un po' più spesso è un impegno che questo viaggio consegna a tutti noi.

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