Congedandosi dagli anziani di Mileto San Paolo disse: "Avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazione. Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al Vangelo della grazia di Dio" (At. vv. 22-24). Afferrato da Cristo sulla via di Damasco, dove lo aveva visto vivo, San Paolo ardeva dal desiderio di afferrare la perfezione dell'intimità e dell'amore di Lui. Per questo aveva reputato ogni cosa spazzatura e danno di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze per diventargli conforme nella morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Sapeva dunque che cosa lo attendeva, ma era anche consapevole che l'aver conosciuto Cristo secondo la carne, l'averlo visto risorto e vivo, non era sufficiente per arrivare al premio che Dio lo chiamava a ricevere. Per lui era decisivo l'essere creatura nuova, dimentica del passato e protesa verso il futuro, per vivere ogni giorno lanciato nella corsa verso la mèta, fissando lo sguardo al Cielo nell'attesa ansiosa del ritorno del suo Signore. La visione di Cristo risorto lo aveva salvato, perdonato, eletto e inviato, ma era stato solo l'inizio. Afferrato da Cristo era ormai cittadino del Cielo, ma viveva ogni momento per afferrare, nell'ultimo istante, il suo amore; aveva trovato l'amato del suo cuore, desiderava stringerlo forte per non lasciarlo più. L'esperienza di San Paolo è il compimento delle parole di Gesù che appaiono nel vangelo di oggi. In esse la vita del discepolo è paragonata a un parto. Sullo sfondo vi è la profezia di quanto sarebbe accaduto di lì a poco: Gesù sta per affrontare il rifiuto, sarà crocifisso e morirà. L'annuncio di questo destino aveva turbato e rattristato i discepoli. Ma la tristezza sarebbe cambiata in una gioia che nessuno avrebbe più potuto sottrarre perchè "Gesù stesso è la loro gioia, in perfetta armonia con ciò che dice l'Apostolo: Una volta risuscitato dai morti, Cristo non muore più, e la morte non ha più dominio sopra di lui (Rm 6, 9)" (S. Agostino, Omelie sul vangelo di Giovanni). E così è stato: la sera di Pasqua "i discepoli gioirono nel vedere Gesù". Ma Egli, partendo dall'annuncio del suo mistero pasquale che avrebbe coinvolto l'esperienza dei discepoli nella trasformazione del dolore in gaudio, dice ancora di più. Per questo introduce l'immagine della donna in parto, non a caso descritta da Giovanni anche nell'Apocalisse, quale segno del combattimento escatologico nel quale è posta la Chiesa. Gesù con il suo scomparire nella morte e il suo riapparire vittorioso, pone le fondamenta per quella che sarebbe stata la vita della Chiesa nascente, e, in essa, di ogni discepolo. Quell'esperienza è essa stessa annuncio e profezia della storia che in quel giorno stava iniziando. Esattamente come è stato per San Paolo. Il primo giorno, il giorno della gioia senza fine, ha inaugurato una storia nuova, perché le porte del Cielo si erano ormai dischiuse: era sorto il giorno che non muore, origine e meta della vita. L'esperienza di vedere il Signore risorto aveva infuso nei discepoli la gioia ma, contemporaneamente, aveva loro rivelato il destino cui, insieme ad ogni altro uomo, erano chiamati. Da quella gioia scaturisce immediatamente la missione, il senso ed il contenuto della nuova storia che aveva avuto inizio in quell'incontro sconvolgente: la storia della Chiesa, la storia di ciascuno di noi: "la risurrezione di Gesù va al di là della storia, ma ha lasciato una sua impronta nella storia. Per questo può essere attestata da testimoni come un evento di una qualità tutta nuova. Solo un avvenimento reale di una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l'annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche. Nella sua audacia e novità, esso prende vita dalla forza impetuosa di un avvenimento che nessuno aveva ideato e che andava al di là di ogni immaginazione" Benedetto XVI). L'impronta nella storia dell'evento di Pasqua è l'impronta lasciata dai piedi degli apostoli; essi, come san Paolo, hanno ritenuto tutto spazzatura e danno di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo: assetati della pienezza di questa conoscenza sconvolgente, hanno percorso le strade del mondo correndo verso la meta che li avrebbe dissetati. Un'esperienza, una gioia ineffabile, come un'eruzione dalla storia che la supera, che da essa prende il suo inizio e che in essa si dilata attraverso l'annuncio del Vangelo. Perché "la gioia è il gigantesco segreto del cristiano" (Chesterton). Sì, l' evangelizzazione è l'impronta gioiosa della resurrezione nella storia, l'annuncio della notizia che ogni uomo attende perso e schiavo in alienazioni che sono solo delle caricature di quel destino per cui egli è nato. L'annuncio del vangelo è l'impronta di Cristo risorto nella storia offerta agli uomini perché, nel seguirla, possano incontrare la gioia preparata per loro, la misericordia e l'amore rivelati in Cristo Gesù. Si comprende allora come la vita di San Paolo, avvinta da Cristo, fosse unita al Vangelo. Fonte di gioia perenne, sostegno della sua vita, ne era divenuto l'unico scopo, il senso primo ed ultimo, l'origine e la meta della sua esistenza: "Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; una necessità mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero... mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro". Tutto a tutti e tutto per il Vangelo, ecco la vita di San Paolo e di ogni apostolo, della Chiesa, di ciascuno di noi. Siamo tutti la gioia di Cristo, frutti del suo dolore crocifisso come di una donna in parto. Lui ci ha "visto di nuovo" dopo essere stato ucciso dai nostri peccati. Per questo siamo la sua gioia, il frutto benedetto del suo amore più forte dei nostri delitti. E la sua gioia è la nostra gioia, perché siamo suoi per sempre, perché nessuno può più strapparci dalla sua mano. Ogni apostolo, ogni figlio della Chiesa ha questa esperienza dentro, ognuno di noi è nato dal parto sulla via di Damasco. In quel momento di gioia purissima che ha segnato il confine tra la morte e la vita, il dolore e la letizia, il travaglio e il parto, la vita di ciascuno ha cambiato inesorabilmente direzione. Perché "l'amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro" (2 Cor. 5, 14 ss.). I rinati in Cristo non vivono più per se stessi, ma per Lui. E' questa la svolta decisiva, l'impronta visibile della risurrezione nella storia: una comunità che si ama, fratelli che non si difendono, che offrono se stessi per amore. La risurrezione che ha distrutto le barriere dell'invidia, della gelosia, del rancore; una comunità che si ama nell'amore con cui è amata da Cristo. L'annuncio autentico del Vangelo si fa carne nel suo compimento reale e concreto in un manipolo di piccoli e deboli fratelli, inermi ed incapaci, ma irrorati dello stesso sangue di Cristo, vivi del suo stesso Spirito. Avvinti da questo sentono ardere in loro il dovere di annunciare il Vangelo, come una necessità che si impone. I cristiani attirano nella loro gioia l'umanità intera; così, autenticamente, l'annuncio del Vangelo offre la concretezza della parola e dell'agire alla speranza che alberga nei loro cuori: figli di un parto che ci ha dischiusi alla vita che non muore, gestiamo e soffriamo anche noi i dolori dello stesso parto, per dare alla luce la vita nella morte del mondo: "Vorrei ricordare qui soltanto l'inizio dell'evangelizzazione nella vita di S. Paolo. Il successo della sua missione non fu frutto di una grande arte retorica o di prudenza pastorale; la fecondità fu legata alla sofferenza, alla comunione nella passione con Cristo. In tutti i periodi della storia si è sempre di nuovo verificata la parola di Tertulliano: È un seme il sangue dei martiri. Una madre non può dar la vita a un bambino senza sofferenza. Ogni parto esige sofferenza, è sofferenza, ed il divenire cristiano è un parto" (Joseph Ratzinger). Così si comprendono anche le ultime parole di Gesù, apparentemente contraddittorie. Nel cammino della storia, i cristiani "non hanno più da chiedere nulla" perché sono già nati alla vita eterna. Vivono già le primizie del Regno di Dio, la gioia che, anche dentro il timore, la preoccupazione ed il dolore del parto, non si spegne perché tutto ciò è via alla nascita di una nuova vita. Ma, contemporaneamente, il non aver bisogno di nulla per se stessi, li spinge con fiducia, a chiedere e pregare per il mondo. Come il loro Maestro, presentano ogni uomo al Padre, perché possa sperimentare, nella morte in cui giace, il Mistero Pasquale di Gesù. I cristiani pregano offrendo se stessi, intercedendo proprio attraverso le sofferenze del parto, per il mondo. La loro vita è preghiera certa d'essere esaudita, e così comprendiamo come ogni istante, ogni dolore, ogni fallimento, siano preziosi. Ogni avvenimento della nostra storia, offerto a Dio in sacrificio di soave odore, è fondamento e compimento della missione, dell'annuncio del vangelo. La preghiera che coinvolge la nostra vita è la sostanza più autentica e feconda dell'impronta di Cristo risorto nella storia. Il dolore del parto fatto preghiera, la salvezza di ogni uomo chiesto al Padre nel nome di Cristo, nella certezza di essere esauditi.
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