Le parole di Filippo esprimono il desiderio più profondo di ogni uomo: "Mostraci il Padre e ci basta". Lo diceva anche Telemaco, il figlio di Ulisse disperso nell'Odissea: "Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre". Sì, la vita é una lunga attesa di nostro Padre, e chi non lo può "vedere" è un "orfano". "Vedere", che significa conoscere le nostre radici e scoprire un punto di appoggio per la nostra vita. La nostra, invece, è una generazione di orfani alla quale cui è stata preclusa la visione decisiva. Come si può vivere senza Padre? Impossibile, devastante. Invece,"solo a partire da un’appartenenza posso immaginare un destino. Solo se vengo da qualche parte posso andare verso una direzione" (Claudio Rise'). Gli orfani di questa generazione, infatti, vivono disorientati, incapaci di soffrire, senza una spina dorsale. Chi non ha visto il Padre vive dissipato e senza una meta autentica. Scrive un lucido psichiatra: "Il padre è colui che espone il figlio all’esperienza del dolore, ed il suo segno è la ferita. Egli impone al figlio un sacrificio, lo sottopone alla prova. La natura della prova consiste nel chiedergli di affrontare la fatica delle rinunce necessarie per crescere bene, riuscire, avere buoni rapporti con gli altri ed essere davvero contento di sé... La ferita inferta dal padre costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri… Il segno del rapporto con il padre è la “ferita” che il figlio porta con sé, nel suo carattere e nella sua concezione della vita. Il padre chiede al figlio di non fare del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male… Ma perché questo accada e' necessario che il figlio attraversi l’esperienza della prova, termine messo al bando da una cultura che ha gettato nel discredito la sensibilità educativa maschile" (Osvaldo Poli). Nel catecumenato della Chiesa primitiva, alle soglie dell'ultima tappa che schiudeva le porte al Battesimo, ai catecumeni veniva consegnata la preghiera del Padre Nostro. Al termine di un lungo percorso di iniziazione alla fede, fatto di ascolto ed esperienza, il catecumeno apriva gli occhi su suo Padre, autore e origine della sua vita. Lo aveva conosciuto sperimentando la sua presenza, la sua misericordia e il suo amore negli eventi della sua esistenza. La prova del dolore, il crogiolo della Croce ne aveva forgiato l'immagine, sino a renderla conforme a quella di suo Padre: "Sant’Ireneo dice in un passo che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si e' abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita... poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza" (J. Ratzinger). Al termine del cammino di fede il catecumeno recava ormai impressa la "ferita" che sigillava l'appartenenza esclusiva a Dio, la stessa ferita del Signore Gesù. Anche noi siamo chiamati a "vedere" nostro Padre, che, secondo il Vangelo di Giovanni significa "credere", nella nostra vita. Come? "Vedendo Gesù" suo Figlio all'opera nei nostri giorni, attraverso la Parola e i sacramenti, le cure amorevoli della Chiesa e la presenza dei fratelli. "Vedere il Padre" è fissare Gesù ora, in questo e in tutti gli istanti, che ci attira nel suo passaggio attraverso la morte per compiere la volontà del Padre. Con Lui, infatti, impariamo ad essere figli e ad obbedire dalle cose che patiamo, passando dall'infantilismo che fa "del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male", alla maturità di chi sa soffrire per compiere il bene autentico
sabato 13 maggio 2017
LA GIOIA PIENA E' VEDERE IL PADRE NELLE OPERE CHE IL FIGLIO COMPIE NEI FIGLI DI DIO
Le parole di Filippo esprimono il desiderio più profondo di ogni uomo: "Mostraci il Padre e ci basta". Lo diceva anche Telemaco, il figlio di Ulisse disperso nell'Odissea: "Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre". Sì, la vita é una lunga attesa di nostro Padre, e chi non lo può "vedere" è un "orfano". "Vedere", che significa conoscere le nostre radici e scoprire un punto di appoggio per la nostra vita. La nostra, invece, è una generazione di orfani alla quale cui è stata preclusa la visione decisiva. Come si può vivere senza Padre? Impossibile, devastante. Invece,"solo a partire da un’appartenenza posso immaginare un destino. Solo se vengo da qualche parte posso andare verso una direzione" (Claudio Rise'). Gli orfani di questa generazione, infatti, vivono disorientati, incapaci di soffrire, senza una spina dorsale. Chi non ha visto il Padre vive dissipato e senza una meta autentica. Scrive un lucido psichiatra: "Il padre è colui che espone il figlio all’esperienza del dolore, ed il suo segno è la ferita. Egli impone al figlio un sacrificio, lo sottopone alla prova. La natura della prova consiste nel chiedergli di affrontare la fatica delle rinunce necessarie per crescere bene, riuscire, avere buoni rapporti con gli altri ed essere davvero contento di sé... La ferita inferta dal padre costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri… Il segno del rapporto con il padre è la “ferita” che il figlio porta con sé, nel suo carattere e nella sua concezione della vita. Il padre chiede al figlio di non fare del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male… Ma perché questo accada e' necessario che il figlio attraversi l’esperienza della prova, termine messo al bando da una cultura che ha gettato nel discredito la sensibilità educativa maschile" (Osvaldo Poli). Nel catecumenato della Chiesa primitiva, alle soglie dell'ultima tappa che schiudeva le porte al Battesimo, ai catecumeni veniva consegnata la preghiera del Padre Nostro. Al termine di un lungo percorso di iniziazione alla fede, fatto di ascolto ed esperienza, il catecumeno apriva gli occhi su suo Padre, autore e origine della sua vita. Lo aveva conosciuto sperimentando la sua presenza, la sua misericordia e il suo amore negli eventi della sua esistenza. La prova del dolore, il crogiolo della Croce ne aveva forgiato l'immagine, sino a renderla conforme a quella di suo Padre: "Sant’Ireneo dice in un passo che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si e' abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita... poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza" (J. Ratzinger). Al termine del cammino di fede il catecumeno recava ormai impressa la "ferita" che sigillava l'appartenenza esclusiva a Dio, la stessa ferita del Signore Gesù. Anche noi siamo chiamati a "vedere" nostro Padre, che, secondo il Vangelo di Giovanni significa "credere", nella nostra vita. Come? "Vedendo Gesù" suo Figlio all'opera nei nostri giorni, attraverso la Parola e i sacramenti, le cure amorevoli della Chiesa e la presenza dei fratelli. "Vedere il Padre" è fissare Gesù ora, in questo e in tutti gli istanti, che ci attira nel suo passaggio attraverso la morte per compiere la volontà del Padre. Con Lui, infatti, impariamo ad essere figli e ad obbedire dalle cose che patiamo, passando dall'infantilismo che fa "del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male", alla maturità di chi sa soffrire per compiere il bene autentico
Le parole di Filippo esprimono il desiderio più profondo di ogni uomo: "Mostraci il Padre e ci basta". Lo diceva anche Telemaco, il figlio di Ulisse disperso nell'Odissea: "Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre". Sì, la vita é una lunga attesa di nostro Padre, e chi non lo può "vedere" è un "orfano". "Vedere", che significa conoscere le nostre radici e scoprire un punto di appoggio per la nostra vita. La nostra, invece, è una generazione di orfani alla quale cui è stata preclusa la visione decisiva. Come si può vivere senza Padre? Impossibile, devastante. Invece,"solo a partire da un’appartenenza posso immaginare un destino. Solo se vengo da qualche parte posso andare verso una direzione" (Claudio Rise'). Gli orfani di questa generazione, infatti, vivono disorientati, incapaci di soffrire, senza una spina dorsale. Chi non ha visto il Padre vive dissipato e senza una meta autentica. Scrive un lucido psichiatra: "Il padre è colui che espone il figlio all’esperienza del dolore, ed il suo segno è la ferita. Egli impone al figlio un sacrificio, lo sottopone alla prova. La natura della prova consiste nel chiedergli di affrontare la fatica delle rinunce necessarie per crescere bene, riuscire, avere buoni rapporti con gli altri ed essere davvero contento di sé... La ferita inferta dal padre costringe il figlio a smettere di pensare la vita in termini infantili, quasi fosse un paradiso terrestre dove tutto è facile, senza fatica, dove nulla è richiesto per poter vivere e per avere un buon rapporto con gli altri… Il segno del rapporto con il padre è la “ferita” che il figlio porta con sé, nel suo carattere e nella sua concezione della vita. Il padre chiede al figlio di non fare del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male… Ma perché questo accada e' necessario che il figlio attraversi l’esperienza della prova, termine messo al bando da una cultura che ha gettato nel discredito la sensibilità educativa maschile" (Osvaldo Poli). Nel catecumenato della Chiesa primitiva, alle soglie dell'ultima tappa che schiudeva le porte al Battesimo, ai catecumeni veniva consegnata la preghiera del Padre Nostro. Al termine di un lungo percorso di iniziazione alla fede, fatto di ascolto ed esperienza, il catecumeno apriva gli occhi su suo Padre, autore e origine della sua vita. Lo aveva conosciuto sperimentando la sua presenza, la sua misericordia e il suo amore negli eventi della sua esistenza. La prova del dolore, il crogiolo della Croce ne aveva forgiato l'immagine, sino a renderla conforme a quella di suo Padre: "Sant’Ireneo dice in un passo che noi dobbiamo abituarci a Dio, come Dio si e' abituato a noi, agli uomini nell'incarnazione. Dobbiamo familiarizzarci con lo stile di Dio, così da imparare a portare in noi la sua presenza. Con un’espressione teologica: deve essere liberata in noi l’immagine di Dio, ciò che ci fa capaci di comunione di vita con lui. La tradizione paragona questo con l’azione dello scultore, che stacca dalla pietra con lo scalpello pezzo dopo pezzo, in modo che divenga visibile la forma da lui intuita... poiché in realtà noi possiamo riconoscere solo ciò per cui si dà in noi una corrispondenza" (J. Ratzinger). Al termine del cammino di fede il catecumeno recava ormai impressa la "ferita" che sigillava l'appartenenza esclusiva a Dio, la stessa ferita del Signore Gesù. Anche noi siamo chiamati a "vedere" nostro Padre, che, secondo il Vangelo di Giovanni significa "credere", nella nostra vita. Come? "Vedendo Gesù" suo Figlio all'opera nei nostri giorni, attraverso la Parola e i sacramenti, le cure amorevoli della Chiesa e la presenza dei fratelli. "Vedere il Padre" è fissare Gesù ora, in questo e in tutti gli istanti, che ci attira nel suo passaggio attraverso la morte per compiere la volontà del Padre. Con Lui, infatti, impariamo ad essere figli e ad obbedire dalle cose che patiamo, passando dall'infantilismo che fa "del proprio “piacere” la misura ultima del bene e del male", alla maturità di chi sa soffrire per compiere il bene autentico
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