Se Dio non esiste, tutto è permesso. Ovvero, l'insostenibile scempiaggine della «morale laica»
Se Dio non esiste allora non può esistere il fondamento della morale, non si può parlare di valori, di diritti, né di un Bene e di un Male assoluti: solo un debole e capriccioso relativismo estremo. A riconoscerlo è innanzitutto Joel Marks, filosofo laico dell’University di New Haven, nel suo Manifesto amorale: «Ho fatto la sconvolgente scoperta che i fondamentalisti religiosi hanno ragione: senza Dio, non c’è moralità. L’ateismo implica l’amoralità, e poiché io sono un ateo, devo quindi abbracciare l’amoralità».
Ma indirettamente lo ha confermato, messo alle strette, anche l’attivista Matt Dillahunty, ex presidente della Atheist Community di Austin (Texas): «Il campo di concentramento nazista di Dachau è stato oggettivamente un male? Non lo so, non lo so. Si potrebbe dire che l’Olocausto è stato ovviamente un male perché non ha fatto il bene delle vittime, il problema è che le persone decidono loro stesse cosa è il bene. Se sono allevate nel darwinismo sociale del regime nazista potrebbero credere che l’Olocausto è stato il meglio per il benessere della società nel suo complesso». La sospensione di qualunque giudizio di merito (il “non lo so” di Dillahunty) è l’approdo obbligato.
Se non c’è nulla e Nessuno preesistente l’uomo, allora non possono esservi alcun Bene e Male preesistenti, indipendenti dall’uomo stesso. Tutto è una mera opinione la quale, però, ha lo stesso valore dell’opinione contraria. Chi decide, infatti, chi ha ragione? Perché dovrei scegliere il bene se ne ricavo uno svantaggio personale, essendo questa l’unica vita che ho da vivere? «Non esistendo la verità», ha scritto il filosofo Emanuele Severino, «il rifiuto della violenza rimane una fede che, appunto, non può avere più verità della fede (più o meno buona) che invece crede di dover perseguire la violenza e la devastazione dell’uomo» (C.M. Martini, In cosa crede chi non crede?, Liberal 1996, p.26).
Nel 2011 il filosofo americano William Lane Craig ha anche confutato l’argomento principale di coloro che, comprensibilmente, rifiutano di dover abbracciare l’amoralità come unica posizione coerente alla loro non fede. Appoggiandosi a Platone, infatti, affermano che l’esistenza del Bene sia una sorta di idea auto-sussistente, un’entità in sé e per sé. Il bene esisterebbe, semplicemente. La giustizia, la misericordia, l’amore, la tolleranza, esisterebbero in se stessi privi di fondamento. Ma «questa visione», ha spiegato Lane Craig, «è semplicemente incomprensibile. Cosa significa che il valore morale della giustizia auto-sussiste? Capisco cosa significa dire che qualche azione è giusta, ma i valori morali sembrano essere proprietà delle persone, quindi è difficile capire come la giustizia possa esistere solo come una sorta di astrazione».
Inoltre, è un punto di vista debole poiché mantiene nel relativismo e non implica affatto alcun obbligo morale. «Supponiamo, per amor di discussione, che i valori morali come la giustizia, l’amore, tolleranza, sussistano per conto proprio. Perché questo dovrebbe porre un obbligo morale su di me? Perché l’esistenza di questo regno delle idee dovrebbe rendermi misericordioso? Chi o che cosa stabilisce un tale obbligo?». Va anche notato, inoltre, che se si assume questo punto di vista, «vizi morali come l’avidità, l’odio e l’egoismo presumibilmente esistono anch’essi come astrazioni. In assenza di un Legislatore morale, nessuno mi obbliga ad allineare la mia vita ad una serie di idee astratte piuttosto che all’altra. In assenza di una Legge morale data, la morale atea platonista è priva di qualsiasi base di obbligo morale». Si ritorna dunque da capo.
L’esistenzialista Jean-Paul Sartre ammise: «Senza Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile, non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire» (in L’esistenzialismo è un umanismo, 1945). Senza Dio, tutto è permesso. Ma la conseguenza più devastante del dover abbracciare l’amoralità e il relativismo estremo è che la vita si immerge «in una selva di irriducibile pluralità», ha spiegato il filosofo francese Philippe Nemo, direttore del Centro di ricerche in Filosofia economica presso ESCP Europe. L’«assenza di una visione unificatrice» condanna all’affermare che il «non-Senso sarebbe l’unico e vero Senso. Almeno le grandi catastrofi come la Shoah dovrebbero aver fatto ragionare l’uomo moderno: se infatti non esiste un Bene assoluto, che senso ha parlare di un Male assoluto? E se non c’è un Male assoluto che senso ha, alla fin fine, condannare la Shoah?». Così, le attività umane legate al non-senso, «private di un ancoraggio trascendente, si disperdono in un assurdo moto browniano, che condanna l’uomo a tentare di creare un senso su misura, sulla scia di una preoccupazione parziale che egli ben percepisce, comprendendo, a ragione, che tutte le piccole cose di cui si occupa finiranno nell’abisso, non essendo assicurate a qualcosa di più grande» (P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, p. 129, 130)
L’amore alla coerenza dovrebbe quindi portare ad ammettere che, senza un fine trascendente, la vita è inevitabilmente ridotta all’assurda liquida del soggettivismo morale e, quindi, del nichilismo. Eppure, aggiunge il filosofo Nemo, «l’intima coscienza di ogni uomo sa che questa mancanza di senso è un errore», un’ingiustizia verso la natura umana che aspira l’infinito, brama il Senso e percepisce continuamente l’esistenza di valori oggettivi e di un Bene e di un Male necessari, e a sé preesistenti
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