Papa Francesco ha avuto occasione, nei giorni scorsi, di intervenire sul tema dell’integrazione sociale, affrontato nel Messaggio inviato il 24 aprile scorso alla dott.ssa Margaret Archer, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali.
Si pensa talvolta che per la presenza dei cristiani nel mondo sociale e politico a fronte delle grandi sfide di oggi, che il Papa in continuazione richiama con parole realistiche, sia sufficiente lo slancio della carità. Ciò è fondamentale, ed infatti la Dottrina sociale della Chiesa stessa è espressione della carità cristiana e dell’amore della Chiesa per il mondo sull’esempio di Gesù Cristo. Essa – la Dottrina sociale della Chiesa – è però anche un “sapere” costruitosi nella tradizione della Chiesa, sapere che esprime categorie valutative e orientative e richiede la mediazione delle competenze scientifiche ed operative per raggiungere la concretezza dei problemi e delle soluzioni. Papa Francesco, nel Messaggio alla dottoressa Archer, si rifà a questo sapere della Dottrina sociale della Chiesa, recuperandolo in molti aspetti e aggiornandolo in altri. Ne risulta così un autorevole insieme di riflessioni e orientamenti adatti ai nostri tempi. Notevoli i riferimenti espliciti e soprattutto impliciti all’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI.
Un primo punto toccato da Papa Francesco è quello della giustizia, che egli non esita a chiamare “virtù” (“delle persone e delle istituzioni”, come egli scrive), quando invece essa è spesso assegnata a dei meccanismi impersonali. La giustizia è una virtù, ossia un modo di agire abitualmente conformemente al bene. Chiamandola “virtù”, il Papa la riconduce nel suo alveo legittimo, ossia quello morale, laddove essa trova la sua finalizzazione al bene (comune).
Rifacendosi implicitamente a concetti espressi nella Caritas in veritate, oltre che nella da lui citata Gaudium et spes, secondo cui la giustizia non deve collocarsi alla fine del processo economico nella forma della distribuzione, ma lo deve investire per intero e fin dall’inizio, Papa Francesco stila una inedita differenza tra solidarietà e fraternità, i cui prodromi sono contenuti nella Caritas in veritate. Il “codice della solidarietà” rischia di contrapporsi al “codice dell’efficienza” mentre invece solo il codice della fraternità è in grado di superarle entrambe in qualcosa di veramente nuovo e benefico per la convivenza sociale.
Molto bella la seguente espressione del Papa: «La solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare uguali, la fraternità è quello che consente agli uguali di essere persone diverse». La solidarietà, in altre parole, ha come scopo di rendere effettivamente uguali tutti gli uomini nella loro dignità; la fraternità, invece, parte da questa loro uguaglianza per aprirli a dare secondo la diversità della loro vocazione. La prima va dalla diversità all’uguaglianza, la seconda dall’uguaglianza alla diversità, laddove, naturalmente, la parola diversità assume due significati diversi.
Come dire che una volta esercitata ed applicata la solidarietà resta ancora molto da fare cercando di vivere la fraternità, che era però già il motore occulto della stessa solidarietà. Questa nuova impostazione non è in contrasto con quanto insegnato da Giovanni Paolo II che definiva la solidarietà come la «volontà di sentirsi responsabili di tutti»; esplicita e chiarisce, però, che tale responsabilità comprende non solo ottenere una società più uguale, ma anche più diversa, nel senso di una società in cui ognuno – da intendersi sia come persona che come società naturale e gruppo sociale – possa essere se stesso in risposta alla propria vocazione.
Questo concetto della libertà come risposta alla vocazione introduce Papa Francesco nella seconda riflessione del Messaggio alla dottoressa Archer. C’è un concetto di libertà che si intende non come risposta ad una vocazione (ossia come libertà “per”) ma come libertà negativa (o libertà “da”) ossia priva di impedimenti e limiti, oppure come libertà positiva (o libertà “di”) intesa come pura libera scelta a propria assoluta discrezione. Una forma degenerativa della libertà nuda da vocazioni è, secondo Papa Francesco, il moderno libertarismo individualista, che non intende essere vincolato da alcun legame.
In fondo, qui, come nota il Papa, si confonde tra “vincolo” e “legame”. Il vincolo è la limitazione estrinseca alla libertà, il legame è invece la possibilità concreta della sua realizzazione, dato che ne determina appunto la vocazione, rendendola vera libertà, libertà “per”. Si trovano in queste osservazioni di papa Francesco gli echi di tutta la tradizionale visione cristiana, filosofica e teologica, della libertà, affinché non sia una libertà vuota, e quindi schiavitù verso «se stessi e le proprie voglie», ma libertà vera, resa tale dal bene e dalla verità. La vocazione, infatti non è frutto di “auto-causazione”, come dice papa Francesco con una inedita espressione, ma nasce da un progetto su di noi che non abbiamo fatto noi. Ecco perché la libertà richiede legami, e quindi richiede la giustizia e il bene comune, da cui era partito il Messaggio.
In modo concreto questi aspetti sono visibili nel mondo del lavoro. Esso, scrive papa Francesco, non è solo un diritto, ma soprattutto «una capacità e un bisogno insopprimibile della persona». In altre parole una vocazione. I diritti possono essere sospesi, scrive il Papa, ma i bisogni connaturati con l’essere dell’uomo no. Ed è da lì, dalla natura umana che sgorga la sua vocazione, tra cui quella al lavoro. Visto in questo modo, il lavoro ha una primaria dimensione morale su cui va impostata la ricerca della sua giustizia.
Il titolo dell’Assemblea plenaria dell’Accademia era “Verso una società partecipativa: nuove strade per l’integrazione sociale e culturale”. Le espressioni adoperate nel titolo potevano dare l’impressione di una considerazione prevalentemente sociologica ed orizzontale della problematica. Il Papa, nel suo Messaggio, mette in evidenza che la partecipazione senza vocazione non produce vera integrazione, ma giustapposizione o somma aritmetica di individui isolati e libertari. L’integrazione richiede la partecipazione secondo giustizia, bene comune e, soprattutto, fraternità, tutte cose che gli uomini non si danno da sé. Nonostante nel Messaggio non sia mai scritta la parola Gesù Cristo o Dio, il riferimento trascendente è evidente.
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