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lunedì 23 gennaio 2017

Quante falsità scientifiche nel convegno in Vaticano
   
   
di Luigi Mariani                            23-01-2017
Immagine scelta per la Conferenza in Vaticano

Quando si parla di sostenibilità ci si riferisce in genere ai tre aspetti della sostenibilità (ecologica, economica e sociale). A questo immagino si debba ispirare una chiave di lettura realistica dei nostri rapporti con l’ambiente naturale.
Quando ho appreso della conferenza che si terrà in Vaticano fra il 27 febbraio e l’1 marzo e ho letto l’elenco dei partecipanti e la descrizione delle tematiche che ci si propone di affrontare (clicca qui), ho colto un atteggiamento culturale pessimistico e che non tiene in alcun modo conto della prospettiva storica in cui vanno necessariamente inquadrate le attività umane nel loro divenire. In altri termini dal documento preliminare si coglie l’uomo a una sola dimensione, quella di distruttore del creato (estinzioni di massa di specie, uso delle risorse che eccede la capacità del pianeta di rigenerarsi, agricoltura e pastorizia che invadono gli ecosistemi naturali, un numero intollerabilmente elevato di persone al di sotto della soglia di sicurezza alimentare, ecc.).
Vediamo allora di andare in dettaglio ad analizzare alcuni concetti presenti nel documento e che costituiscono a mio avviso delle forzature difficilmente accettabili anzitutto sul piano scientifico ad iniziare dalla frase seguente:
«Circa 30.000 anni fa (i nostri progenitori) avevano già conquistato e ucciso tutte le altre specie umane che avevano raggiunto l’emisfero nord prima di loro». 
Questa frase mi ha particolarmente colpito in quanto (lo confesso) ho io stesso nutrito per anni il sospetto di un comportamento assassino delle nostra specie nei confronti degli altri ominidi (Neanderthal in primis) e tuttavia ero parimenti convinto che non vi fossero prove atte a dimostrare tale fenomeno, per cui ho per un attimo pensato (o per meglio dire temuto) che si fossero acquisite evidenze scientifiche del fenomeno stesso. Per sincerarmene ho allora svolto una rapida ricerca bibliografica che mi ha portato a rintracciare il recentissimo lavoro scientifico “Hominin interbreeding and the evolution of human variation” a firma del ricercatore coreano Kwang Hyun Ko dell’Università di Seoul, pubblicato nel 2016 sulla rivista scientifica Journal of Biological Research-Thessaloniki.

Il riassunto di tale lavoro inizia con le seguenti parole: «Se l’Eva mitocondriale conferma la teoria dell’origine africana delle nostra specie, l’evidenza supporta altresì l’incrocio fra Homo sapiens e altri ominidi (Neanderthaliani, Denisovani, e l’Homo heidelbergensis)». In sintesi quanto ci dice questo lavoro è che l’affermazione della nostra specie non è forse frutto di uccisione di altri ominidi ma più semplicemente di incrocio con altre specie pre-esistenti di cui saremmo a tutti gli effetti gli eredi. Mi domando allora perché, a fronte di tali evidenze di incrocio che la genetica porta oggi alla nostra attenzione, il documento preliminare di un’accademia pontificia debba affermare in modo assertivo una teoria tuttora priva di basi robuste, orientando così il dibattito secondo una prospettiva cupa e che ci vede macchiati del sangue dei nostri simili.
Il documento recita poi che:
«L’11% circa delle superfici prive di ghiaccio è destinato alla coltivazione e un ulteriore 20%, che un tempo erano praterie, sono state trasformate in pascoli, la maggior parte dei quali insostenibili».
In sostanza ci si dice che l’agricoltura e la pastorizia sono attività umane in larga misura insostenibile sul piano ecologico. Ma un ritorno a quella che in modo assai parziale si considera sostenibilità sarebbe sostenibile sul piano economico e sociale? A quante morti per fame in più condurrebbe? Si osservi anche che tale frase pone l’agricoltura come qualcosa di negativo mentre essa è un valore assoluto in quanto simbiosi fra l’uomo da una parte ed il regno vegetale ed animale dall’altro, una simbiosi che sta alle radici delle nostra stessa civiltà.
Nel documento si afferma anche che:
«Nel 1970 usavamo circa il 70% della capacità sostenibile del pianeta, oggi ne utilizziamo circa il 156%».
Questa affermazione  è frutto di un indice di sostenibilità messo a punto dalla Global Footprint Network  e che personalmente ritengo profondamente errato perché considera la CO2 emessa in atmosfera come un elemento negativo mentre in realtà è il nutrimento principe per le piante. Naturalmente il fondatore dell’organizzazione che ha messo a punto tale indice è fra i relatori della conferenza.
«Finché le nazioni che stanno notevolmente meglio di altre, e i ricchi del Pianeta, che stanno meglio a prescindere da dove vivano, continuano a prosciugare la produttività delle nazioni povere, sotto forma di energia, legno e combustibile, non vi sarà alcuna possibilità di migliorare la situazione senza adottare in maniera diffusa il concetto di giustizia sociale, sia per una questione di moralità, sia per una questione di sopravvivenza».
Qui mi domando casa significhi in concreto “adottare in maniera diffusa il concetto di giustizia sociale”. Significa che dobbiamo aiutare i paesi in via di sviluppo a produrre di più e meglio in modo da raggiungere gli standard (alimentari, sanitari, di energia, istruzione, igiene ecc.) che sono stati da noi raggiungi a prezzo del sacrificio di tante generazioni o significa invece puntare su soluzioni più radicali? Qualcuno dovrebbe riflettere sul fatto che nel 1945 i sottonutriti erano da noi in Italia, in Europa e nei paesi del socialismo reale (in Russia nel 1946 vi fu una carestia con milioni di morti che tristemente rivaleggiò con quella del 1931-33). Prendere esempio da tali casi concreti, ovviamente non mirando alla riproposizione pura e semplice delle strategie di sviluppo del secondo dopoguerra ma considerando anche le tecnologie infinitamente più raffinate di cui oggi disponiamo (in agricoltura, nell’industria, nella sanità, ecc.) sarebbe di grande aiuto per passare dal piano teorico a quello concreto senza  rischiare di naufragare nella demagogia.
Insomma, basta leggere l’introduzione al meeting per porsi tante domande. La perplessità tuttavia aumenta ulteriormente se si riflette sul fatto che nell’introduzione stessa ci si guarda bene dal dire che:
- secondo dati FAO la percentuale di sottonutriti sulla popolazione mondiale è scesa dal 45% del 1945 al 31% del 1971 e all’11% attuale, il che è un risultato di enorme portata e che dovrebbe costituire un elemento su cui riflettere per progettare un futuro di piena sicurezza alimentare
- la superficie sfruttata a fini agricoli è oggi di 1,5 miliardi di ettari ed è stazionaria da circa 50 anni mentre nello stesso periodo la produzione delle principali colture è raddoppiata o triplicata grazie all’innovazione tecnologica nei settori della genetica agraria e delle tecniche colturali (tecniche di lavorazione del suolo, concimazioni, diserbi, trattamenti antiparassitari, ecc.). Questo ha permesso da un lato di salvare innumerevoli vite umane dalla morte per fame e dall’altro di salvare moltissimi ecosistemi naturali che sarebbero altrimenti andati distrutti. Per rendersene conto basta salire sui nostri Appennini e sulle nostre Alpi osservando quante superfici, una volta coltivate con enorme sacrificio dai nostri progenitori, si sono oggi rinaturalizzate. Anche tale elemento dovrebbe costituire un argomento di riflessione in tema di sostenibilità ambientale.
Perché queste evidenze non vengono in alcun modo prese in considerazione nel documento preliminare al meeting? Perché il Vaticano non sfrutta l’enorme patrimonio scientifico costituito dalla Facoltà di agraria dell’Università cattolica del Sacro Cuore? Perché le conoscenze agronomiche vengono oggi del tutto trascurate in nome di una lettura ideologica e che descrive la realtà attuale in termini unicamente catastrofici impedendoci di acquisire strumenti utili a progettare il futuro con il dovuto equilibro e assennatezza? Sono domande che purtroppo mi pongo da tempo e che oggi mi trovo ahimé a ripropormi.

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